Fine del mondo liquido
eBook - ePub

Fine del mondo liquido

  1. Italian
  2. ePUB (disponibile sull'app)
  3. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Fine del mondo liquido

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Lo stato di crisi delle società occidentali sembra ormai irreversibile: nello spaesamento e nell'insicurezza del caos globale, Zygmunt Bauman è stato un faro insostituibile. Questo libro è il frutto di un decennale, intenso dialogo tra Bauman e Carlo Bordoni: un comune percorso intellettuale da cui è emersa l'esigenza di superare il concetto più noto del grande sociologo polacco, quello di «modernità liquida».La categoria della modernità liquida è ormai troppo vaga ed elusiva. Non basta più a interpretare la nostra epoca, in cui vengono meno le sicurezze economiche del sistema produzione-lavoro-consumo-consumismo, ma anche le tradizionali idee di massa, comunità, uguaglianza, classe e, soprattutto, progresso. Spazio e tempo si contraggono grazie alla rapidità delle comunicazioni, all'immediatezza delle informazioni, all'omologazione dei comportamenti umani, non più racchiusi entro i confini invalicabili degli Stati-nazione. Il disordine è avvertito in ogni parte del mondo, contemporaneamente. Per la prima volta non c'è un posto migliore in cui rifugiarsi: non c'è alternativa a un sistema globale che sta crollando.L'incertezza del futuro è dunque il tratto più caratteristico della nostra condizione, che si esprima sotto forma di resistenza, paura, egoismo o semplice senso di precarietà e impotenza. Da questo prolungato e sfaccettato stato di crisi – la fine della modernità, ma anche della modernità liquida – sorgerà una società radicalmente nuova, ancora sconosciuta. Nel frattempo, siamo sospesi in quello che Bordoni, sulla scorta di Gramsci, definisce «interregno»: il vecchio muore, ma il nuovo non riesce a nascere. A questa incertezza, però, corrisponde anche la possibilità di fare le scelte giuste: dopo l'interregno non ci aspetta una società già predefinita e connotata, ma solo quella, inedita, che avremo saputo costruire qui e ora, con le nostre umane forze.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Fine del mondo liquido di Carlo Bordoni in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Social Sciences e Sociology. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788865765609
Categoria
Sociology
1. Perché non possiamo più dirci moderni
I. Dalla modernità all’interregno
Affermare che la modernità sia finita non significa disconoscere i suoi meriti, né tantomeno la straordinaria importanza che ha avuto nella storia umana. Dunque la sua fine non dipende da un accumulo di errori, né da un collasso interno, ma solo dal naturale evolversi della società, all’interno della quale le caratteristiche del moderno non trovano più spazio, si dimostrano superate e quindi inadeguate ad affrontare le esigenze del presente.
Conoscere la modernità attraverso le sue principali innovazioni, mettendo in risalto gli aspetti di criticità che oggi si presentano a fronte di rapidi cambiamenti, può essere d’aiuto per capire la nostra situazione e aiutarci a fare le scelte giuste per uscire da quello «stato di crisi» che si dimostra – a ben guardare – non tanto una parentesi accidentale in attesa di tornare allo statu quo ante, ma piuttosto una svolta epocale in direzione di una nuova umanità.
Comprendere la modernità significa evidenziarne i punti di riferimento, i principi fondamentali su cui ha costruito le sue certezze, ma anche la sua fragilità, le sue promesse che, a distanza di oltre tre secoli, ci appaiono solo in parte mantenute. E sulla falsariga delle promesse mancate si svolge il nostro lavoro di analisi, tenendo conto che tutto ciò che la modernità ha formulato nel momento della sua affermazione appariva come la massima apertura possibile verso la liberazione dell’uomo e la realizzazione del suo progetto di vita. Con una prospettiva ampia, evoluta e fiduciosa nel futuro quanto non era mai stata tentata prima.
Il lungo viaggio attraverso la modernità comincia in un’algida mattina dell’ottobre 1648, quando nelle città di Münster e Osnabrüch viene pubblicato ufficialmente il trattato di pace di Vestfalia, già firmato nei mesi precedenti, a conclusione della Guerra dei trent’anni e a riconferma dei principi fissati quasi un secolo prima da Carlo v con la pace di Augusta del 1555. In quella fatidica data, che precede di poco la pubblicazione del Leviatano (1651) di Hobbes, si riconosce definitivamente la validità universale del principio cosiddetto del «Cuius regio, eius et religio», cioè del potere del sovrano di stabilire la legge e la religione all’interno del suo paese. Da qui la nascita dello Stato moderno e il riconoscimento dell’unità nazionale che, secondo Jürgen Habermas, è probabilmente la diretta conseguenza della comunità politica. Ma per Habermas, come per Bauman, la modernità rimane un progetto incompiuto, mentre per Fredric Jameson la modernità non è tanto un periodo o un’epoca, quanto «un tropo, uno scarto, una negazione, un allontanamento, una narrazione, una diffrazione temporale tra soggetto e oggetto, nonché tra il soggetto e se stesso».1
Dalla solida affermazione politica offerta dalla pace di Vestfalia scaturiscono le promesse della modernità, che d’ora in poi troveranno solide basi su cui consolidarsi. Tutte di rilevante valore sociale, al punto da modificare sostanzialmente l’assetto delle popolazioni e il loro destino: da allora si può parlare infatti di «Stati post-vestfaliani».
In primo luogo, la promessa dell’uguaglianza fra gli uomini, poi del dominio sulla natura, della sicurezza sociale e infine dell’etica del lavoro e della fede nel progresso. In questo breve elenco si cela tutto ciò che appare agli uomini giusto, buono e bello; una vita che merita di essere vissuta e, in fondo, riassumibile in una promessa di felicità. Una teleologia ottimista che – con spirito laico e pragmatico, fondato su principi economici delle relazioni umane fatti propri dalla borghesia, la classe egemone impegnata a modellare il mondo secondo le proprie aspirazioni – promette di realizzare quella felicità che la religione rinviava a una vita ultraterrena dopo la morte. L’innovazione è rivoluzionaria e vincente: la felicità si può raggiungere qui, sulla terra, ed è solo procrastinata. È sempre più vicina, sempre più a portata di mano, ma per ottenerla è necessario il lavoro, lo spirito di sacrificio, l’impegno, le buone virtù borghesi del «self-made-man», l’uomo nuovo che si fa da sé, autonomo e determinato nel realizzare i propri obiettivi, e che persegue la conoscenza non per puro piacere, ma per raggiungere i suoi scopi. Tra questi il dominio sulla natura, e quindi la possibilità concreta di modificare il mondo che lo circonda.
Dominare la natura, grazie ai progressi della scienza e della tecnica, è un progetto esaltante: permette l’acquisizione di un potere enorme e inimmaginabile, ma è anche segno di una hybris insolente che, appropriandosi della natura e, allo stesso tempo, dissacrandola nel sottoporla alla propria volontà, avvicina l’uomo alle prerogative divine.
In queste promesse l’uomo ha creduto; le ha elaborate, interiorizzate, ridiscusse, in parte realizzandole, ma non ha mai cessato di affidarvisi, neppure quando le condizioni di vita si sono dimostrate insopportabili e la felicità, indicata come un traguardo raggiungibile, si allontanava sempre più. Anche quando la più ambita delle promesse, la realizzazione dell’effettiva uguaglianza fra gli uomini che il marxismo ha cercato di coniugare attraverso l’atto rivoluzionario della rivendicazione del diritto dei più umili, tutto si è mosso all’interno del sistema modernità, senza metterne in discussione i principi di fondo.
Oggi quelle promesse appaiono sempre più nella loro vera luce, che il tempo e l’esperienza hanno reso più nitida: buoni propositi che allora sono serviti a superare le difficoltà del momento, ma ormai frusti e inadatti a risolvere i problemi attuali. Anzi, sono essi stessi causa e ragion d’essere dei problemi che ci affliggono. In parte perché le promesse non si sono realizzate (l’uguaglianza fra gli uomini), in parte perché si sono dimostrate fallaci (il dominio sulla natura), oppure utopistiche (l’idea di progresso). Addirittura, alcune sono state ritirate in tutta fretta (la sicurezza sociale), mentre il loro rappresentante politico più cruciale, lo Stato, è messo in crisi da quegli stessi mutamenti economici e strutturali che la modernità aveva incoraggiato, come la libera circolazione delle merci, la concorrenza, lo scambio, la facilità delle comunicazioni, l’apertura delle frontiere e, in ultima analisi, la globalizzazione.
È però necessario, se si vuole affrontare la complessità del presente, che la delusione per le promesse non mantenute o per quelle ritirate unilateralmente lasci spazio alla dignitosa presa di coscienza che quel mondo ha esaurito il suo compito storico, ha percorso una parabola che, nel bene e nel male, costituisce il passato da cui proveniamo; alla certezza di un’esperienza esistenziale che ha avuto una sua ragion d’essere e va dunque rispettata e compresa. Ma non per questo può essere ricreata pedissequamente: non possiamo pensare di restaurarne i criteri fondanti, ma solo ricostruirne di nuovi sulle sue basi. È necessario diventare osservatori obiettivi e disincantati degli ultimi bagliori della modernità, spinti inconsapevolmente – senza che nessuno abbia avuto l’accortezza o l’intelligenza di avvertirci per tempo – all’interno di una zona morta, dove i valori che ci avevano insegnato come universali e imperituri si dimostrano di colpo inconsistenti, inutili a indicarci la strada su cui proseguire.
In questo interregno, accogliendo le indicazioni di Gramsci di quasi un secolo fa, incontriamo sì l’incertezza, la solitudine e l’immensa angoscia che avvolge l’umanità di fronte all’ignoto, ma anche l’opportunità straordinaria e irripetibile di poter scegliere la forma da imprimere al nostro futuro. Perché solo adesso, in questa difficile transizione, ci è data la possibilità di fare le scelte giuste, tenendo presente che dopo l’interregno non ci aspetta una società già predefinita e connotata, ma solo quella, inedita, che avremo saputo costruire con le nostre forze.
Antonio Gramsci, nel brano 34 del terzo volume dei Quaderni dal Carcere, intitolato «Passato e presente», aveva indicato il carattere imprevisto dell’interregno e le sue conseguenze patologiche:
L’aspetto della crisi moderna che viene lamentato come «ondata di materialismo» è collegato con ciò che si chiama «crisi di autorità». Se la classe dominante ha perduto il consenso, cioè non è più «dirigente», ma unicamente «dominante», detentrice della pura forza coercitiva, ciò appunto significa che le grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali, non credono più a ciò in cui credevano ecc. La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.2
Ogni momento di crisi è, come ci ricorda l’etimo, un’occasione di scelta e di cambiamento: va colta, questa opportunità che ci è offerta solo ora e che non si ripeterà facilmente, per impostare il nuovo secondo le nostre aspirazioni e i nostri bisogni, senza arrenderci, senza cedere al pessimismo e al fatalismo, soprattutto senza rimpianti per ciò che è stato.
Critiche alla modernità non ne erano mancate, e già durante la sua fase di violenta affermazione nella Rivoluzione industriale erano stati messi in evidenza gli altissimi costi umani da pagare, il sacrificio spropositato, lo sfruttamento della manodopera, la lacerazione del tessuto sociale, l’imbarbarimento e l’emarginazione delle fasce popolari più povere e indifese. Del resto, ogni simbolo fondante della modernità è stato rappresentato da un atto di violenza, a cominciare dalla Rivoluzione francese. Ma sotto quella violenta affermazione di forza propulsiva, capace di travolgere chiunque vi si opponesse, si muoveva una vena antimodernista assai sfaccettata: Jean-Jacques Rousseau rivela l’impossibilità razionale di realizzare una vera democrazia, denuncia la disuguaglianza tra gli uomini che la modernità, di fatto, consolida e sogna un ritorno allo stato di natura, al mito del buon selvaggio. La denuncia di Friedrich Nietzsche è ancora più radicale e la sua Nascita della tragedia3 è un atto d’accusa nei confronti della civiltà moderna e delle sue ipocrisie, confermato dalla spietata analisi di Ferdinand Tönnies che, in Comunità e società,4 lamenta la distruzione di una «cultura», propria della comunità, sostituita da una forzata «civilizzazione» che ne ha sconvolto l’autenticità.
Tra gli antimodernisti più vicini a noi spicca Martin Heidegger che, sulla scia di Nietzsche, negando la continuità del processo storico in favore dell’unicità dell’evento, rafforza il progetto di un ritorno alla condizione premoderna, basata sulla naturalità dell’esistenza, sui valori primordiali di «sangue e suolo» e sulla centralità dell’individuo.
In ogni caso, la critica antimodernista si è sempre distinta per la sua velleità restauratrice, riproponendo nel presente un passato remoto caratterizzato da modalità d’esistenza più mitiche che reali, ammantate di spiritualismo eroico, misticismo, ritualità e purezza razziale, incapaci di volgersi al futuro e di proporre alternative realmente innovative e credibili.
Solo il postmoderno ha operato una critica più significativa ed efficace sul piano operativo, ma calcando troppo la mano sugli aspetti esteriori del nuovo, con effetti di valenza superficiale e di durata effimera. Ha dato l’impressione, in sostanza, che della modernità ci si potesse liberare con estrema facilità, cancellandone i segni profondi con un colpo di spugna e sostituendoli con graziose decorazioni sorprendentemente piacevoli alla vista.
L’estrema leggerezza c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Introduzione
  4. Capitolo 1
  5. Capitolo 2
  6. Capitolo 3
  7. Capitolo 4
  8. Bibliografia