1. Il Vittoriano: da monumento nazionale ad altare fascista
Il monumento a Vittorio Emanuele II, che si protende su piazza Venezia, è talmente centrale nella storia dell’ascesa e del dominio fascista su Roma, che è necessario dedicargli un intero capitolo. Nella sua solennità, nel suo imporsi con la sua massa di marmo candido, il monumento sembra rappresentare qualcosa di immobile e di facilmente riconoscibile. Un immenso edificio costruito per esaltare la ritrovata unità, la libertà e, in definitiva, la patria. Ma quale patria? La domanda può sembrare peregrina, ma il ruolo del Vittoriano nella storia del Dopoguerra romano è invece ambiguo: quali furono i motivi che portarono alla sua trasformazione da simbolo della Patriae unitati e della Civium libertati (dell’unità della patria e della libertà dei cittadini), a monumento all’espansionismo e all’imperialismo?
Forse la spiegazione si trova nelle due frasi latine, iscritte a caratteri enormi al di sopra del colonnato dei propilei. Patriae unitati può voler dire che l’Italia aveva preso la sua forma durante la vita del re unificatore, Vittorio Emanuele II, o che l’unità era stata raggiunta con la conclusione del monumento; ma potrebbe voler dire, più ambiguamente, che la dedica era a quei territori che ancora dovevano essere uniti alla madrepatria. Alla stessa maniera, la dedica alla libertà dei cittadini può significare sia la liberazione dal dominio dei papi e dall’antico regime, sia la libertà degli italiani di espandersi all’estero e di costruire il loro impero. Un sogno, modellato sull’esempio britannico, comune a tutte le società europee del XIX secolo.
Il monumento, nella sua ambivalenza, si presta a molteplici interpretazioni. Il suo significato passò dalla commemorazione del primo re d’Italia a quello laico – Altare della patria – nel quale la nazione era diventata la patria e nel suo cuore non si trovava più il corpo del re (che comunque giace nel Pantheon, non troppo distante), ma il corpo del soldato senza nome, scelto per rappresentare tutti i caduti della Grande guerra. La tomba del Milite Ignoto consacrò il monumento, pensato per Vittorio Emanuele II, a santuario della morte per la patria in guerra. Ancora una volta si assiste a una traslazione del significato simbolico verso una interpretazione più bellicosa delle scalinate e delle terrazze marmoree. Dopo la «Marcia su Roma» del 1922, il monumento divenne sempre più intrecciato con lo spirito aggressivo del patriottismo italiano, irredentista e imperialista. La progressiva trasformazione è evidente nelle numerose foto di Mussolini mentre presenzia alle cerimonie sull’Altare della patria. Nel 1921 e 1922 è ancora in abiti civili, ma più passa il tempo e sempre più spesso il suo abito borghese è sostituito da un’uniforme. Nel 1938 la sua trasformazione in una specie di Marte in orbace è ormai completa, mentre prepara gli italiani per un’altra guerra mondiale. La figura di Roma, che giganteggia sopra il Milite Ignoto, sembra trasformarsi anch’essa in Bellona, l’antica e sanguinaria dea della guerra.
Il progetto di costruire un monumento al «Gran Re» nacque immediatamente dopo la sua morte, nel 1878. All’inizio si trattava di un tributo da parte del municipio di Roma, un affare locale, ma presto l’idea fu fatta propria dal governo nazionale. Il primo concorso pubblico per scegliere il progetto fu reso piuttosto confuso dalla mancanza di indicazioni certe sul sito dove si sarebbe dovuto erigere il monumento. Il primo vincitore, nel 1882, fu un francese, Henri-Paul Nénot (1853-1934), il quale scelse piazza di Termini (l’attuale piazza della Repubblica) all’inizio di via Nazionale, dall’ovvio significato simbolico. Il progetto di Nénot prevedeva un grande colonnato semicircolare che seguiva il disegno delle antiche mura delle Terme di Diocleziano. Al centro del colonnato, che curiosamente ricordava quello di San Pietro, c’era un arco di trionfo a tre fornici e, nel mezzo della piazza, dove ora si trova la fontana delle Nereidi, si stagliava una colonna trionfale decorata con un rilievo a spirale (sul modello delle colonne di Traiano e Antonino Pio), sormontata da una statua del corpulento monarca. Una serie di fontane doveva accompagnare la linea dell’emiciclo verso la facciata di Santa Maria degli Angeli. Il progetto non fu mai realizzato, nonostante Nénot avesse intascato il premio di 50 000 lire e l’idea di un grande foro che potesse ospitare le imponenti manifestazioni popolari fosse particolarmente efficace allo scopo di commemorare il re che aveva riunito l’Italia. Il progetto fu criticato aspramente e quando in seguito si scoprì che l’architetto si era limitato a rinfrescare un disegno che aveva già presentato a un altro concorso in Francia, per un edificio universitario, fu definitivamente accantonato.1
Il progetto vincitore del secondo concorso, nel 1884, fu quello di un giovane aristocratico marchigiano, Giuseppe Sacconi (1854-1905), la cui idea era di inserire il Foro in un monumento colossale che troneggiasse su Roma, e non nella zona relativamente periferica di Termini, ma nel cuore stesso della Roma papale. Il luogo scelto fu il lato settentrionale del colle Capitolino, dove case medievali e rinascimentali si stratificavano attorno a un giardino – in alcuni punti, una vera e propria rupe – che apparteneva al complesso del monastero francescano di Santa Maria in Aracoeli, sul luogo dell’antica Arx, o cittadella. Il complesso monastico comprendeva due chiostri, un giardino segreto e il palazzo estivo dei papi risalente al Cinquecento, la cosiddetta «torre» di Paolo III (1534-1549). Non solo, sotto tutti questi edifici si trovavano antiche gallerie romane e cave di tufo, assieme a strati di cenere e creta che rendevano il sottosuolo particolarmente poco adatto a reggere pesi eccezionali.
A nessuno di questi ostacoli fu permesso di fermare i lavori, anche se i problemi di stabilità delle fondamenta fecero gonfiare i costi dai previsti 9 milioni di lire a quasi il triplo. Gli edifici medievali e rinascimentali furono abbattuti senza pietà. L’ambasciatore del Portogallo scrisse una supplica per salvare la biblioteca dell’Aracoeli, fondata da un cardinale portoghese, e la torre di Paolo III, ma invano.
Negli anni successivi seguì un delirio di demolizioni. Sacconi morì nel 1905 e il suo posto venne preso da una commissione composta da tre architetti che avevano già lasciato la loro impronta su Roma: Gaetano Koch (1849-1910), che aveva disegnato il palazzo della Banca d’Italia in via Nazionale, Pio Piacentini (1846-1928), autore del Palazzo delle Esposizioni nella stessa strada, e Manfredo Manfredi (1859-1927), autore della tomba di Vittorio Emanuele II al Pantheon. La commissione caricò il monumento di ulteriori decorazioni, ma in generale rispettò l’idea originale di Sacconi oltre a dover superare le sue stesse difficoltà ingegneristiche.
Il corteo reale per l’inaugurazione del monumento, 1911.
Il valore simbolico del luogo era arricchito dalla sua complessità. Costruire un monumento al primo re d’Italia su quella che era la collina delle origini della città antica, dove erano stati eretti i templi principali della religione statale, dimostrava apertamente la pretesa del nuovo regno di essere il successore dell’Impero romano e della sua grandezza. Inoltre il Vittoriano era stato immaginato come il culmine di un nuovo piano urbanistico che includeva il prolungamento di via Nazionale, il quale, attraverso ulteriori demolizioni per liberare parzialmente l’ansa del Tevere, e grazie a un ponte ancora da costruire, avrebbe raggiunto il nuovo quartiere Prati. La costruzione della nuova arteria cominciò nel 1883 e finì alla fine del secolo, e il risultato fu il corso ovviamente dedicato a Vittorio Emanuele II. Lungo la parte centrale del corso è possibile osservare la quadriga dell’ala ovest del Vittoriano, mentre quella dell’ala est è visibile da tutta via Nazionale.
L’asse più importante del centro storico, comunque, rimase via del Corso, l’arteria principale nord-sud della vecchia città che si prolunga da piazza del Popolo fino alla strada chiamata Ripresa dei Berberi (così chiamata per i cavalli che gareggiavano sul corso, che a sua volta prendeva il nome dalle competizioni equine). La Ripresa dei Berberi fu demolita per permettere una visione completa, frontale e spettacolare, del monumento. Piazza Venezia cambiò così completamente il suo carattere, venendo ingrandita almeno del doppio, sia in lunghezza che in larghezza, con le demolizioni di Palazzo Bolognetti Torlonia nei pressi di Palazzo Venezia, e del Viridarium – il giardino coperto di Paolo II (1464-1471) che un tempo si protendeva dall’angolo sud-est di Palazzo Venezia, e che venne ricostruito sul lato sud del palazzo, allineato all’angolo ovest – e la totale eliminazione delle strade che un tempo circondavano la base del colle Capitolino, Ripresa dei Berberi inclusa. Il monumento quindi divenne il fulcro di un nuovo sistema stradale composto da via del Corso, via Nazionale e corso Vittorio Emanuele, con il punto di incontro nella nuova e allargata piazza Venezia. In questo modo Roma monarchica e liberale ebbe la piazza principale che non aveva mai avuto prima: un segno concreto di progresso e modernità del nuovo regno.
Queste trasformazioni urbanistiche furono parte della strategia dei governi liberali per celebrare loro stessi, con la scusa di festeggiare l’unità nazionale e la dinastia Savoia. Quando il monumento fu inaugurato il 4 giugno 1911, nel cinquantesimo anniversario della proclamazione del Regno d’Italia,2 era presente l’intera famiglia reale, assieme al Primo ministro Giovanni Giolitti e almeno 6000 sindaci di tutto il paese. La cerimonia, colossale e mastodontica,3 fu soltanto l’inizio del suo ruolo come scena principale delle cerimonie ufficiali del governo italiano. Nel 1911, comunque, era ancora incompleto. I lavori continuarono, con interruzioni dovute alla guerra, a problemi strutturali e alla mancanza di fondi, fino al 1935. Come osservò il giornalista satirico Luigi Lucatelli nel 1920, «ci aveva messo meno Vittorio Emanuele a fare l’Itaglia che l’Itagliani a farci il monumento».4
Visto da lontano, il bianco e gelido marmo botticino, che contrasta fortemente con i toni terra e crema del resto di Roma, sembra esprimere il distacco del monumento dal resto della città. Il botticino fu criticato a lungo, perché si tratta di una pietra che non ha niente a che fare con il territorio e con una città fatta di travertino, una sfortunata metafora del governo settentrionale che si impone sulla terra incognita della città eterna. Come scrisse Lucatelli,
Ci avevamo sottomano il travertino, e non l’hanno voluto addoperare, perché dice che prima voleveno vedere si che riuscita al Coloseo, e così ti hanno preso una pietra buzzurra che quanto ti vieni qui gli ci vole l’indennità di trasferta e poi viene a pezzi a bocconi per cui ne consegue che lo scarpellino sciopera, baccaglia, strilla, e ha ragione.
Giovanni Giolitti
Giolitti è stato sicuramente l’uomo politico più rappresentativo dell’Italia liberale. Nato a Mondovì nel 1842, passò tutta la sua vita al servizio dello Stato italiano. Dopo una brillante carriera nell’amministrazione, divenne deputato per la sinistra liberale nel 1882, eletto nel collegio di Cuneo. Dopo essere stato ministro del Tesoro tra il 1889 e il 1890, divenne una prima volta presidente del Consiglio dei ministri nel 1893, carica che ricoprì altre tre volte prima dello scoppio della guerra. Fu estremamente criticato per il suo pragmatismo, per il cinismo e il totale rifiuto della retorica. Tuttavia, fino alla Prima guerra mondiale, fu il leader che più fece per modernizzare il paese sia dal punto di vista politico che sociale, tentando di aprire un dialogo con la sinistra socialista e comunque permettendo l’attività sia del Psi sia dei sindacati operai di ispirazione marxista.
La sua presa di posizione in favore della neutralità italiana, nel 1914-1915, ne fece il bersaglio preferito dei nazionalisti e degli interventisti, che non gli perdonarono il crudo realismo della sua analisi politica.
Dopo la guerra fu nuovamente chiamato a governare il paese, dal giugno 1920 al giugno 1921, in un periodo difficilissimo. Durante gli scioperi del settembre 1920, che portarono all’occupazione delle fabbriche da parte degli operai, riuscì a mantenere il sangue freddo e a evitare che le agitazioni si trasformassero in una guerra civile, ottenendo anche che la vertenza economica si concludesse in maniera favorevole per i lavoratori. Alle elezioni del 1921, tuttavia, si candidò all’interno del «blocco nazionale», nel quale erano presenti anche i fascisti. Nel 1924, sempre come deputato, passò all’opposizione, rimanendo all’interno del Partito liberale. Morì nel 1928.
L’impressione di isolamento viene confermata quando ci si avvicina al monumento e si scopre che esso non soltanto interrompe via del Corso, ma è anche chiuso con una cancellata di acciaio che viene fatta scomparire sottoterra quando il cerimoniale lo richiede.
Tuttavia il freddo distacco era l’opposto delle intenzioni dell’architetto. Sacconi aveva ideato l’edificio come un luogo di incontro per gli italiani, e pertanto aveva progettato un susseguirsi di gradinate colossali che portano a una serie di terrazze che si possono interpretare come una piazza nazionale suddivisa in diverse altezze.5 Il grande colonnato al vertice del monumento ricorda i Fori Imperiali, e insieme rappresenta il concetto di basilica, o corte di giustizia, che era quasi sempre il ruolo di un antico foro. Anche la statua del re, in scala colossale, ricorda la statua dell’imperatore che doveva erigersi nel centro del vicino Foro di Traiano. Vi sono due grandi terrazze, una sull’altra, che servono da spazio per il vero e proprio «foro». La terrazza inferiore, ornata dal simulacro della dea Roma e da un bassorilievo su ogni lato, fu progettata come Altare della patria, consacrato al sacrificio militare al servizio del paese. In quest...