L'aggressività
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Che cos'è l'aggressività, un istinto o un comportamento appreso? Che cosa distingue la bellicosità tra membri della stessa specie dal comportamento predatorio? C'è una differenza tra l'aggressività nell'uomo e negli altri animali? Perché le manifestazioni violente hanno a volte una forte componente rituale, che non sembra all'opera nella nostra specie? Nel rispondere a queste domande, Konrad Lorenz, sulla scorta di Darwin, ricondusse il comportamento degli animali e quello dell'uomo agli stessi princìpi evolutivi. Raccolte in L'aggressività, saggio denso e meditatissimo – originariamente pubblicato nel 1963 con il provocatorio titolo Il cosiddetto male –, le sue tesi continuano ad animare un dibattito appassionato che oltre ai biologi coinvolge scienziati sociali, psicologi e umanisti, e rappresentano un punto di riferimento e un potente stimolo di riflessione per le ricerche successive. I pesci maschi della barriera corallina, in mancanza di rivali dello stesso sesso, arrivano a attaccare le proprie femmine e la prole. Lorenz parte da questo esempio di bellicosità innata, per poi prendere in esame svariati casi di aggressività: dai combattimenti rituali dei lupi e dei leoni alle colonie di ratti, i cui membri sono solidali tra loro ma spietati nei confronti di chi non ne fa parte. L'aggressività, letta in questa chiave etologica, è un istinto che esige una scarica periodica, in competizione con i molti altri istinti animali e umani. Diversamente dall'uomo, però, gli animali hanno un'innata inibizione a uccidere gli appartenenti alla stessa specie. Una differenza che risalta in modo particolare nel ripercorrere il cruento XX secolo, in cui la rapidissima accelerazione tecnologica ha permesso all'umanità di costruire armi estremamente potenti senza dare ai lenti processi dell'evoluzione biologica il tempo di far emergere i corrispondenti meccanismi inibitori. Con L'aggressività il Saggiatore non ripropone solo una pietra miliare dell'etologia, ma anche una sconcertante – e per certi versi profetica – proposta di autoanalisi della nostra natura e dei nostri lati oscuri.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788865764688

XI. Il vincolo

Più nulla temo – con te sottobraccio.
Per ciò lancio al mio secolo la sfida.
SCHILLER, Don Carlis, Atto I,
Scena 9, Carlos, vv. 1011-12.
Nei tre diversi tipi di ordinamenti sociali che ho descritto nei capitoli precedenti, le relazioni fra i singoli appaiono del tutto impersonali. Gli individui sono elementi della comunità superindividuale intercambiabili fra loro quasi a piacere. Abbiamo visto un primo baluginare di relazioni personali presso i maschi «cova-in-bocca» dell’oasi di Gafsah, possessori di territori, i quali stringono con i vicini un patto di non aggressione e sono aggressivi solo verso gli intrusi stranieri. Ma qui si tratta ancora semplicemente di una tolleranza passiva del vicino conosciuto. Nessuno ancora esercita un’attrazione su di un altro tale da indurlo a seguire il compagno se dovesse nuotar via, o a restare per amor suo se dovesse ostinarsi in un luogo, o addirittura, nel caso della sua scomparsa, a ricercarlo attivamente.
Appunto queste ultime manifestazioni di un mutuo attaccamento obiettivamente riconoscibile costituiscono il legame personale che è il tema di questo capitolo. Lo chiamerò fin d’ora semplicemente il vincolo. La comunità che esso lega sarà chiamata gruppo. Il gruppo viene con ciò definito dal fatto che viene compaginato, come la schiera di anonimi, attraverso reazioni che un membro innesca nell’altro ma, in contrasto con le associazioni impersonali, le reazioni compaginanti sono strettamente legate alle individualità dei membri del gruppo.
Come il patto di mutua sopportazione fra i «cova-in-bocca» della oasi di Gafsah, la formazione di un vero gruppo ha come presupposto che un singolo animale sia in grado di reagire selettivamente all’individualità di ogni altro membro. Presso quel «cova-in-bocca» che solo in un luogo, e cioè nella propria buca da nido, reagisce al vicino in modo diverso che allo sconosciuto, partecipano al processo di questa particolare assuefazione un gran numero di circostanze secondarie: è dubbio che il pesce tratterebbe il vicino consueto nello stesso modo se tutti e due si ritrovassero improvvisamente in un luogo sconosciuto. La formazione di gruppi veri invece si contraddistingue proprio per la sua indipendenza dal luogo. Il ruolo che ognuno dei suoi membri ha nella vita di ogni altro resta lo stesso in un numero sorprendente di situazioni ambientali diversissime fra loro, in una parola: il riconoscersi personalmente dei compagni in ogni circostanza possibile è il presupposto di ogni formazione di gruppo. Questa non dipende quindi mai soltanto da reazioni innate, cosa che invece accade molto spesso per la formazione della schiera di anonimi. La conoscenza del compagno deve sempre venir appresa individualmente.
Se scorriamo la serie dei moduli di vita in direzione ascendente, dalle più semplici alle più alte, incontriamo la formazione di gruppi nel senso sopra definito per la prima volta presso i teleostei superiori, in particolare presso gli attinotterigi e fra questi più in particolare presso i ciclidi e altri percimorfi di parentela relativamente prossima come i pesci angelo, i pesci farfalla e le damigelle. Questi tre pesci marini tropicali li abbiamo già visti nei primi due capitoli e, quel che è significativo, come esseri con una misura particolarmente abbondante di aggressività intra-specifica.
Poc’anzi (pp. 143-145), discutendo la formazione della schiera di anonimi, ho detto espressamente che questa forma di ordinamento sociale, la più diffusa e la più primitiva fra le associazioni, non è nata dalla famiglia, dall’unità di genitori e figli come accade presso le bellicose tribù dei ratti e anche presso i branchi di altri mammiferi. L’origine filogenetica del vincolo personale e della formazione dei gruppi è certamente, ma in un senso un po’ diverso, il far causa comune di due partner che insieme hanno cura dei discendenti. Da questo deriva facilmente, come si sa, una famiglia, ma il legame di cui vogliamo parlare qui è di natura molto più speciale. Vogliamo per prima cosa esporre con chiarezza come esso si forma presso i ciclidi, pesci a cui davvero dobbiamo riconoscenza per essere così rivelatori.
Se si osservano, con amore per gli animali e approfondita conoscenza di tutti i loro movimenti espressivi, i processi dettagliatamente descritti a pagina 105 che determinano nei ciclidi il riconoscersi e accoppiarsi dei due sessi, ci si può terribilmente innervosire e irritare nel vedere quanto sono arrabbiati fra loro i futuri coniugi. Sono sempre pronti a precipitarsi l’uno contro l’altro con brutte intenzioni per poi frenare sempre, ma di strettissima misura, quanto basta per non provocare la morte, il pericoloso avvampare della pulsione aggressiva. La nostra apprensione non è però affatto dovuta a uno sbaglio nell’interpretare quei determinati movimenti espressivi! Ogni allevatore di pesci sa quanto è pericoloso mettere insieme in una vasca maschio e femmina di una stessa specie di ciclidi: si corre il rischio di trovare molto presto un cadavere, se non si sorveglia continuamente la formazione della coppia.
In circostanze naturali l’assuefazione contribuisce notevolmente a evitare che fra i probabili sposi scoppi il combattimento. In acquario il modo migliore per imitare le condizioni della vita in libertà è di lasciar crescere insieme vari giovani pesci, che in principio sono assolutamente socievoli, in una vasca possibilmente grande. La formazione delle coppie si svolge poi così: un certo pesce, in genere un maschio, raggiunta la maturità sessuale, rivendica un territorio e ne scaccia tutti gli altri. Più tardi, quando una femmina desidera accoppiarsi, essa si avvicina prudentemente al possessore del territorio e risponde, se riconosce al maschio un rango superiore, ai suoi attacchi, che all’inizio sono intesi con molta serietà (p. 106), con il cosiddetto comportamento di ritrosia, che è una mistura, come è già noto, di elementi determinati in parte dalla pulsione all’accoppiamento e in parte dalla pulsione alla fuga. Se il maschio dovesse diventar brutale nonostante l’effetto manifestamente inibitorio di questi atteggiamenti, la femmina si può allontanare per un breve periodo dal suo territorio. Ma prima o dopo ci ritorna. Questo si ripete per un periodo di tempo di lunghezza variabile finché ognuno dei due animali s’è abituato talmente alla presenza dell’altro che gli stimoli che inevitabilmente vengono emessi dal compagno e che innescano l’aggressione nell’altro abbiano perso molto della loro efficacia. Come in molti processi simili di un’assuefazione molto specifica, anche qui in un primo tempo tutte le circostanze secondarie casuali diventano parte della situazione globale a cui l’animale infine si abitua. Nessuna di esse può mancare senza che venga compromesso l’effetto globale dell’assuefazione. Questo è valido soprattutto all’inizio della pacifica convivenza: il compagno deve apparire allora sempre e solo dalla strada solita e dal lato solito, l’illuminazione deve essere sempre la stessa ecc. Altrimenti ogni pesce considera l’altro uno straniero innescante il combattimento. Il trasferimento in un altro acquario in questo stadio può senz’altro impedire la formazione della coppia. Consolidandosi la conoscenza, l’immagine del compagno diventa sempre più indipendente dallo sfondo sul quale viene presentata, un processo di cristallizzazione dell’essenziale ben noto alla Gestaltpsychologie, come agli studiosi dei riflessi condizionati. Infine il legame con il compagno è diventato tanto indipendente da circostanze secondarie che è possibile trasferire le coppie, anzi addirittura trasportarle molto lontano senza spezzarne l’unione. Al massimo, in queste circostanze, la coppia «regredisce» a uno stadio precedente, ossia si vedono di nuovo cerimonie di corteggiamento e di pacificazione, che presso vecchi sposi erano state inghiottite dalla quotidianità dell’abitudine.
Se la formazione della coppia si svolge indisturbata appaiono man mano nel maschio comportamenti sessuali sempre più marcati. Ce n’era già traccia nei suoi primi attacchi intenzionalmente seri alla femmina, ma ora aumentano d’intensità e frequenza, senza però che scompaiano quei movimenti espressivi che lasciano desumere l’umore aggressivo. Quel che invece diminuisce velocemente è l’iniziale disposizione alla fuga e alla «sottomissione» della femmina. Movimenti espressivi della paura, ossia dell’umore di fuga, scompaiono nella femmina man mano che la formazione della coppia si consolida, in alcuni casi addirittura così in fretta, che nelle mie prime osservazioni di ciclidi non li avevo notati e per anni ho creduto erroneamente che fra i coniugi di una coppia di questi pesci non esistesse ordine di rango. Abbiamo già sentito quale ruolo spetti in realtà al rango, nel riconoscersi a vicenda dei due sessi. Esso resta comunque latente anche quando la femmina ha smesso una volta per tutte di eseguire atteggiamenti di sottomissione davanti al suo maschio. Solo nelle rare occasioni nelle quali la vecchia coppia si impegola in un litigio la femmina li esegue, e come!
La femmina all’inizio timorosa e sottomessa perde insieme con la paura di fronte al maschio anche ogni inibizione a mostrare comportamenti aggressivi. Improvvisamente la fa finita con la sua precedente timidezza e se ne sta sfacciata e tronfia nel centro del territorio del suo maschio con le pinne spiegate, in pieno atteggiamento di chi si vuole imporre, e con una livrea che presso le specie in questione non si differenzia quasi da quella del maschio. Il quale, com’era d’aspettarsi, s’infuria, perché la situazione provocata dalla femmina presenta in effetti tutti gli stimoli che dalle nostre analisi motivazionali sappiamo essere stimoli chiave innescanti il combattimento. Il maschio quindi si precipita verso la sua femmina, assume anche lui la posizione dell’imporsi con il fianco, lancia alcuni colpi di coda e per frazioni di secondo sembra che la voglia speronare, e poi accade quello che mi ha indotto a scrivere questo libro. Il maschio non si trattiene, o solo per frazioni di secondo, a minacciare la femmina, non ce la farebbe neppure, sarebbe troppo eccitato, passa effettivamente al furibondo attacco… ma non contro la sua femmina, evitandola di stretta misura, invece contro un altro compagno di specie: in circostanze naturali regolarmente contro il vicino di territorio!
Questo è un esempio classico del processo che con Tinbergen chiamiamo attività ri-diretta. È definito dal fatto che un’attività, innescata da un oggetto, siccome questo provoca contemporaneamente stimoli inibitori, viene sfogata su di un altro oggetto. Così per esempio, un uomo esasperato da un altro finirà per pestare un pugno sul tavolo piuttosto che in viso a quello, appunto perché certe inibizioni glielo impediscono, ma la rabbia pretende una via d’uscita. La maggior parte dei casi conosciuti di attività ri-dirette riguarda il comportamento aggressivo, innescato da un oggetto che contemporaneamente ispira paura. In questo caso speciale, che ha chiamato «reazione del ciclista», Bernhard Grzimek ha riconosciuto e descritto per primo il principio della ri-direzione. «Ciclista» in questo caso è colui che «curva la schiena» e «pesta i piedi». Il meccanismo determinante questo comportamento diventa particolarmente evidente quando un animale si avvicina da una certa distanza all’oggetto della sua rabbia, soltanto nell’avvicinarsi si accorge poi di quanto in realtà sia terrificante l’avversario e, dato che non riesce più a frenare l’attacco ormai avviato, riversa la sua rabbia su un qualche innocente essere che si trova lì accanto.
Naturalmente ci sono ancora innumerevoli altre forme di movimenti ri-diretti: le più diverse combinazioni di impulsi opposti li possono produrre». Il caso particolare del ciclide maschio è importante per il nostro tema perché processi analoghi hanno un ruolo decisivo nella vita familiare e sociale di moltissimi animali superiori e dell’uomo. Evidentemente nel regno dei vertebrati è stata fatta varie volte, e indipendentemente, l’«invenzione» non solo di non frenar l’aggressività innescata dal compagno ma di sfruttarla per la lotta contro il vicino.
Lo stornare l’aggressività indesiderata, innescata dal compagno, e il canalizzarla nella direzione desiderata sul vicino di territorio non è naturalmente affatto, nel caso osservato e drammatico del ciclide maschio, un’invenzione del momento che l’animale può o non può fare nel momento critico. È invece da tempo ritualizzata e diventata parte del patrimonio fisso di istinti di quella determinata specie. Tutto quello che abbiamo imparato nel v capitolo intorno al processo della ritualizzazione serve in primo luogo alla comprensione del fatto che dall’attività ri-diretta può nascere un nuovo movimento istintivo che, come tutti gli altri, deve potersi sfogare e quindi rappresenta un bisogno, un motivo indipendente per agire.
Nella grigia preistoria, una volta, all’incirca verso il Cretaceo superiore (un milione d’anni in più o in meno non fa poi molta differenza) la faccenda deve essersi svolta così per caso, proprio come il fumare la pipa dei due capi indiani del V capitolo, altrimenti non sarebbe potuto nascere il rito. Infatti uno dei due grandi costruttori dell’evoluzione, la selezione, ha sempre bisogno d’un punto d’appoggio formatosi casualmente per poter intervenire, e si tratta del suo cieco ma laborioso collega, la mutazione, che le fornisce questo appoggio.
Come per molte caratteristiche somatiche e per molti moduli motori istintivi, lo sviluppo individuale, l’ontogenesi, di una cerimonia ritualizzata segue grosso modo il cammino della sua filogenesi. A voler essere precisi, l’ontogenesi non ripete la serie delle forme ancestrali ma quella delle ontogenesi delle forme stesse, come già Carl Ernst von Baer giustamente riconobbe, ma per i nostri fini è sufficiente la rappresentazione più grossolana. Il rito nato dall’attacco ri-diretto somiglia quindi, al suo primo apparire, molto più al suo prototipo non ritualizzato che non al suo successivo pieno sviluppo. Per questo si può veder chiaramente su di un ciclide maschio accoppiato da poco, specialmente se l’intensità dell’intera reazione non è troppo alta, che in realtà darebbe tanto volentieri un bell’urtone alla sua giovane compagna, ma ne viene impedito all’ultimissimo momento da motivi di natura diversa e preferisce scaricare la sua rabbia sul vicino. Nella cerimonia completamente sviluppata il «simbolo» si è allontanato molto di più da quel che viene simbolizzato e l’origine della cerimonia viene oscurata sia dalla «teatralità» dell’intera reazione sia anche dal fatto che con tutta evidenza la cerimonia viene celebrata per amor della stessa. Saltano agli occhi molto di più la sua funzione e il suo simbolismo che non la sua origine. È necessaria un’analisi più accurata per indagare quanti degli impulsi originariamente in conflitto sono nel caso singolo ancora contenuti in essa. Quando il mio amico Alfred Seitz e io, un quarto di secolo fa, facemmo per la prima volta la conoscenza del rito qui esposto, ci eravamo presto resi assolutamente conto della funzione della cerimonia del «cambio della guardia» e del «saluto» senza però minimamente distinguerne l’origine filogenetica.
Quello di cui ci accorgemmo subito però, indagando allora per la prima volta con più accuratezza intorno a una specie, il Jewel Fish africano, era la grande somiglianza fra gli atteggiamenti di minaccia e di «saluto». Imparammo sì in fretta a distinguerli fra loro e a prevedere correttamente se determinati movimenti avrebbero condotto al combattimento o all’accoppiamento, ma – e ci faceva rabbia – non riuscivamo assolutamente a scoprire quali fossero i caratteri che determinavano il nostro giudizio. Solo quando più tardi analizzammo più da vicino le transizioni mobili nelle quali il maschio passa dal minacciare sul serio il coniuge alla cerimonia di pacificazione, ci fu chiara la differenza; nel minacciare il pesce frena di colpo fino all’arresto completo accanto alla minacciata, in particolare se è sufficientemente eccitato per non imporsi solo con il fianco ma anche per eseguire il colpo di coda laterale. Nella cerimonia di pacificazione ossia di cambio della guardia, invece, il pesce non solo non si ferma accanto alla compagna ma le passa a lato accentuando mimicamente il nuoto e nel nuotarle accanto si impone con il fianco e le assesta il colpo di coda. La direzione nella quale il pesce esegue la sua cerimonia è quindi enfaticamente un’altra, non quella per cui si era messo in moto per attaccare. Se prima della cerimonia fosse stato fermo in acqua vicino al coniuge, avrebbe iniziato sempre a nuotare in avanti prima di imporsi e di schioccare la coda. Viene quindi «simbolizzato» con molta chiarezza, in forma quasi immediatamente comprensibile, che appunto il coniuge non è l’oggetto dell’attacco ma che questo è da cercarsi altrove, nella direzione del nuoto.
La cosiddetta modificazione di una funzione è un mezzo di cui si servono spesso i due grandi costruttori dell’evoluzione, per adattare a nuovi scopi quei resti di un’organizzazione, la cui funzione è stata sorpassata dal progredire dell’evoluzione. Con ardita fantasia, per fare un po’ di esempi, hanno fatto di un’apertura branchiale che conduce acqua un meato auditivo che contiene aria e trasmette onde sonore, di due ossa della giuntura mascellare due ossicini auditivi, di un occhio parietale una ghiandola endocrina, l’epifisi o pineale, di un arto anteriore di rettile un’ala d’uccello e così via. Ma tutte queste ristrutturazioni sembrano nulla in confronto al geniale capolavoro di aver trasformato, semplicemente attraverso la ri-direzione e ritualizzazione, un modulo comportamentale, che non solo era in origine ma che è anche nella sua forma attuale almeno in parte motivato dall’aggressività intra-specifica, in un’azione di pacificazione. Questo non è né più né meno che la conversione di ogni effetto mutualmente ripulsivo dell’aggressività nel suo opposto: la cerimonia resa ritualmente indipendente diventa, come abbiamo visto nel capitolo intorno alla ritualizzazione, lo scopo perseguito per se stesso, un bisogno, come ogni altro atto istintivo autonomo. Appunto così diventa saldo il vincolo che lega un compagno all’altro. Appartiene infatti all’essenza di questa particolare cerimonia di pacificazione, che ognuno degli alleati la possa celebrare solo con l’altro e non con un individuo qualsiasi della sua specie, mentre l’autonoma pulsione aggressiva, da cui è nata, può venire sfogata indiscriminatamente su ogni individuo anonimo della specie.
Bisogna rendersi conto di quale problema quasi insolubile sia qui risolto nella maniera più semplice, più elegante e più perfetta: due animali di un’aggressività addirittura folle che, con il loro aspetto, la loro colorazione e il loro comportamento, sono forzatamente l’uno per l’altro quello che è il drappo rosso per il toro (però solo nel proverbio) devono venir indotti a tollerarsi a vicenda senza attriti nello spazio più ristretto, che è per giunta il luogo del nido, ossia proprio quel posto che ognuno di essi considera centro del suo territorio e dove quindi l’aggressività intra-specifica raggiunge il suo apice assoluto. E questo compito già di per sé difficile viene ora ulteriormente complicato dalla richiesta supplementare che l’aggressività intra-specifica dei coniugi non si indebolisca. Abbiamo appreso nel XI capitolo che ogni diminuzione dello stimolo aggressivo contro i vicini della stessa specie verrebbe subito pagata con una perdita di territorio e quindi di pascolo per i futuri discendenti. In queste circostanze una specie «non se lo può permettere» di ricorrere, allo scopo di evitare combattimenti fra coniugi, a cerimonie di pacificazione che, come gli atteggiamenti di sottomissione o i gesti infantili, hanno per presupposto una diminuzione dell’aggressività. La ri-direzione ritualizzata non solo evita questa conseguenza indesiderata, ma per di più sfrutta gli stimoli chiave che inevitabilmente partono dal coniuge e innescano l’aggressione per aizzare il compagno contro il vicino territoriale. Questo meccanismo del comportamento mi sembra senz’altro geniale e oltretutto molto più cavalleresco, che non il comportamento inversamente analogo presso l’uomo che sfoga la rabbia interna contro il caro vicino o contro il suo principale, a casa, la sera, nervoso e irritabile, sulla sua povera moglie!
Una soluzione costruttiva di particolare successo viene di solito trovata più volte nell’albero genealogico degli esseri viventi in diversi rami e rametti indipendenti fra loro. L’ala l’hanno inventata gli insetti, i pesci, gli uccelli e i pipistrelli, la forma a siluro i dibranchiati, i pesci, gli ittosauri e i cetacei. Così non ci stupisce troppo che i meccanismi di comportamento che impediscono la lotta e che sono basati sulla ri-direzione ritualizzata dell’attacco, si trovino in formazioni analoghe presso moltissimi animali diversi.
C’è per esempio la meravigliosa cerimonia di pacificazione che vien chiamata da tutti la «danza» delle gru e che addirittura seduce a tradurla in linguaggio umano, una volta che si sia arrivati a capire il simbolismo dei suoi moduli comportamentali. Un uccello si erge alto e minaccioso davanti a un altro e svolge le sue possenti ali, il becco rivolto contro l’altro, gli occhi intensamente fissi su di esso, un’immagine di pericolosa minaccia, e in effetti l’atteggiamento di pacificazione fino a questo punto somiglia davvero alla preparazione all’attacco. Questa minacciosa rappresentazione della propria temibilità viene però rapidamente allontanata dall’avversario con una conversione di 180 gradi: ora l’uccello, sempre ancora con le ali spiegate, presenta al compagno la nuca indifesa che, com’è noto, presso la gru europea e molte altre specie è ornata di un meraviglioso cappuccetto rosso rubino. Per alcuni secondi l’uccello «danzante» permane ostentatamente in questa posizione e esprime così con un comprensibile simbolismo che la sua minaccia d’attacco non è diretta contro il compagno, ma tutto al contrario lontano da questi, verso l’infame mondo circostante, e qui già echeggia il motivo della difesa dell’amico. Dopodiché la gru si volta di nuovo verso l’amico e ripete di fronte a questi la dimostrazione della sua grandezza e potenza, si gira immediatamente dopo ed esegue ora significativamente un finto attacco contro un qualsiasi oggetto sostitutivo, preferibilmente contro una gru li accanto non amica, ma anche contro un’oca inoffensiva, anzi, nel bisogno, anche contro un pezzettino di legno o un sassolino che viene preso con il becco e lanciato tre, quattro volte in aria. Il tutto dice chiaramente, quasi con parole umane: «Io sono grande e terribile, non contro di te, ma contro quello là, quello là, quello là».
Forse meno drammatica nel suo linguaggio gestuale ma molto più significativa è la cerimonia di pacificazione delle anatine e delle an...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L’aggressività
  3. Premessa
  4. I. Prologo in mare
  5. II. Continuazione in laboratorio
  6. III. Quel che c’è di buono nel male
  7. IV. La spontaneità dell’aggressione
  8. V. Abitudine, cerimonia e magia
  9. VI. Il grande parlamento degli istinti
  10. VII. Comportamenti analoghi alla morale
  11. VIII. La schiera anonima
  12. IX. Ordinamento sociale senza amore
  13. X. I ratti
  14. XI. Il vincolo
  15. XII. Predica dell’humilitas
  16. XIII. Ecce homo
  17. XIV. Dichiarazione di speranza
  18. Sommario