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La questione “che cosa è la vita?” è ingarbugliata, perché usiamo spesso con disinvoltura e in modo fuorviante parole del linguaggio quotidiano in un ambito che vorrebbe essere scientifico… vivere include anche sempre, in qualche modo, la consapevolezza di vivere.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788878851733

Perché Vita?

Poiché siamo vivi crediamo che parlare della vita sia semplice. In realtà sappiamo che cosa sia la vita se nessuno ce lo chiede, ma se dobbiamo darne una definizione ci troviamo in grande imbarazzo. Questo scritto intende rispondere alla domanda “che cosa è la vita?” senza essere né un pamphlet né un saggio scientifico: è piuttosto un messaggio da parte dell’autore il quale, nella sua professione di medico e di chirurgo, ha dovuto confrontarsi di continuo con problemi relativi alla salvaguardia della vita e della sua qualità, molte volte purtroppo senza successo; egli ha spesso conosciuto il dubbio e l’angoscia con la quale si sta vicini al paziente quando lo si accompagna verso la fine. Negli ultimi anni tale esperienza si è in parte tradotta nella disciplina chiamata bioetica, che ha introdotto nella prassi medica la necessità di tener conto di variabili che non erano state adeguatamente prese in considerazione dagli studi tradizionali. La questione “che cosa è la vita?” è ingarbugliata, perché usiamo spesso con disinvoltura e in modo fuorviante parole del linguaggio quotidiano in un ambito che vorrebbe essere scientifico. Nel mio proposito di chiarificazione partirò dalla premessa che il fenomeno “vita” è assai complesso e rinunzierò a tentare di definirlo tramite una sola fondamentale, inequivocabile proprietà, come la geometria euclidea fa per il cerchio: proporrò invece un elenco di caratteristiche decisive riconoscibili in tutti gli esseri che chiamiamo “viventi”. Affermerò in primo luogo che siamo sempre davanti a un processo: la vita ha un suo inizio, una sua storia e una sua fine. In secondo luogo descriverò le forme vitali per lo più non come rappresentate da soggetti isolati, ma da raggruppamenti di individui simili. Suggerirò poi che il vivente tende a modificare l’ambiente in cui vive, per adeguarlo a se stesso e alle proprie esigenze: la conoscenza sarà dunque definita azione sull’ambiente e la riterremo parte integrante e qualificante della vita. Dichiarerò infine che vivere include anche sempre, in qualche modo, la consapevolezza di vivere. Spiegate le forme dei processi vitali e descritte le strutture che li permettono passerò alla relazione fra vita e cultura e fra vita individuale e vita collettiva, per terminare con il mio pensiero sulla fine della vita individuale, intervenendo nel contesto del controverso dibattito sulla possibilità del testamento biologico.

Il cerchio è più facile

La bioetica ha tematizzato problemi inediti. Fra essi vorrei indicare gli schemi astratti che emergono dallo studio del fenomeno che chiamiamo “vita”, i processi che ne costituiscono lo sfondo materiale, la formazione culturale del “paziente” con i suoi convincimenti filosofici e la sua fede religiosa e infine l’appartenenza, consapevole o non consapevole, del medico e del “paziente” a una comune – ovvero differente – cultura. La bioetica ha messo in luce il fatto che lo spiccato ricorso dell’attività medica alla tecnica, accanto ad apprezzabili progressi, non ci ha dato più tempo per condurre un riesame critico di termini presi in prestito dal linguaggio quotidiano, i quali impiegati in un discorso di taglio scientifico possono facilmente ingannare: tanto più che nel loro stesso uso corrente essi vengono generosamente usati con significati spesso imprecisi. “Vita” e “vitalità”, “vitale” e “rivitalizzare” si applicano ai campi più svariati. Diciamo che una malattia può essere una minaccia per la vita, che una espressione artistica è carica di vitalità, che i contenuti di una civiltà possono essere tuttora vitali, infine che un movimento di opinione, un partito politico, persino un tipo di produzione che mostravano segni di decadenza possono essere rivitalizzati. Esiste anche una scuola di pensiero a favore della ipotesi “Gaia”, che estende il concetto di sistema vitale al di là degli oggetti che noi diremmo biologici fino a comprendere strutture del nostro pianeta. Non è facile stabilire se si tratta di un vocabolario adeguato a una precisa disciplina o soltanto di una metafora che necessita di una interpretazione. In altre parole, queste vite sono tali nello stesso senso della vita di una pianta o di un animale? O si assomigliano fra loro solo molto parzialmente? O siamo di fronte a un puro artificio retorico? Insomma, che cosa intendiamo dire nel parlare comune e in quello professionale quando usiamo il termine vita o i suoi derivati?
Una ricerca nel dizionario etimologico della lingua italiana mi conduce a dichiararmi insoddisfatto. Il primo tipo di definizione suggerita dal dizionario consiste in un gruppo di proprietà, quali la nutrizione, la respirazione e la riproduzione: siamo di fronte a una definizione estensionale ovvero a un elenco, non a una singola caratteristica essenziale esplicativa. Esiste anche il tipo di definizione che si chiama intensionale: la otteniamo in geometria quando affermiamo che un cerchio è l’insieme bidimensionale di tutti i punti equidistanti da un punto dato, detto centro. Qui prima di tutto stabiliamo che cos’è un cerchio; successivamente ne verremo a scoprire le caratteristiche. Per la vita incontriamo serie difficoltà a impiegare il tipo intensionale di definizione a meno che non la si deleghi a discipline non biologiche come la filosofia o la teologia. Il secondo concetto proposto dal dizionario indica l’arco di tempo che va dalla nascita alla morte come quello entro il quale ha senso parlare di vita; ma qui bisogna capire se i punti limite che sono appunto la nascita e la morte appartengano entrambi alla “vita”.
A volte distinguere ciò che è vivo da ciò che non lo è può essere facilmente affrontato con quello che si chiama il buon senso comune. Davanti alla ghigliottina che ha decapitato Luigi XVI non avremmo dubbi. Ma accontentarci del buon senso è troppo poco. Ci troviamo in condizioni simili a quelle richiamate da Sant’Agostino quando affrontava un altro tema controverso, quello del tempo. Egli sapeva che cosa fosse il tempo se nessuno glielo chiedeva, ma se questo gli veniva chiesto esplicitamente diceva di non saperlo più. Credo che la maggioranza delle persone si troverebbe in serie difficoltà a fornire una vera e propria definizione della vita senza essere fortemente condizionata da preconcetti filosofici o teologici: questo si nota soprattutto quando si discute, e ci si divide, in bioetica riguardo l’inizio e la fine della vita stessa. A partire da quando, nello sviluppo, è lecito affermare che esiste quella condizione che si chiama vita? Si può farlo senza attendere la realizzazione di tutte le caratteristiche che appartengono a questo processo, compresa la morte? La risposta a questa domanda è verosimilmente affermativa. In questo caso, a quali caratteristiche saremmo disposti a rinunciare, o almeno ad assegnare loro una scadenza perché si esprimano? Si deve intendere per vita quel processo che nei mammiferi ha avuto inizio già con la fecondazione della cellula uovo? A molti parrebbe di sì, perché la nostra esperienza ci dice che vi sarebbero già, sia pure in potenza, tutte quelle caratteristiche che permettono di attribuire al sistema l’aggettivo “vitale”. Ma perché allora non arretrare ancora, fino alla divisione meiotica delle cellule germinative? E gli spermatozoi, che presentano un movimento mirato e ripetitivo, sono già vivi? Non basta: dovremmo escludere i casi – frequenti nel regno vegetale, ma non esclusivi di esso – che traggono origine da un processo asessuato? Ne potrebbe derivare che parlare di “vita” (senza specificazione) e di “vita umana” non sarebbe la stessa cosa? Forse dovremmo pensare che la vita umana sia un fenomeno particolare, da distinguersi da quella di uno scimpanzé, di un coniglio, di una cavia? In questo caso però che limiti avrebbe la fisiologia sperimentale, che trae regole applicabili a noi umani da esperimenti su queste creature?
Le amebe, i parameci e i batteri sono vivi o non lo sono? È condizione necessaria che tutti i viventi derivino da una fecondazione e dunque dalla presenza di due sessi? O è sufficiente che in qualsiasi modo derivino da un altro vivente? I virus sono forme di vita? Alcuni lo negherebbero, altri lo ammetterebbero; i più abili risponderebbero che il problema è controverso. Una persona neutrale che osservasse due polemisti su questo tema sarebbe portata a concludere che qualsiasi risposta apparirebbe arbitraria, il che significa certamente rispettabile ma, con altrettanta certezza, non dimostrabile.
Quando si incontrano difficoltà nella definizione, nel compiere cioè quella operazione che sulle orme di Euclide ci avevano insegnato a scuola nelle prime lezioni di geometria, si potrà ripiegare sulla elencazione delle proprietà che caratterizzerebbero generalmente ciò che diciamo “vita”. Rinunzierò dunque al tentativo della definizione intensionale per passare decisamente a quella estensionale.

La vita è una storia

Propongo di riconoscere il fenomeno vita se vi è la presenza di quattro caratteristiche irrinunciabili: a) metabolismo, b) interazione del vivente con l’ambiente, c) autoriproduzione, d) un gruppo di processi ben definibile.
Il metabolismo è l’insieme delle trasformazioni materiali ed energetiche necessarie per mantenere integra e operativa una struttura vitale e per permetterle di svilupparsi con continuità. L’interazione con l’ambiente va intesa in una duplice direzione: da un lato quella del proprio adattamento all’ambiente e dall’altro quella di poter indurre trasformazioni nell’ambiente stesso fino a renderlo adeguato il più possibile alla propria struttura e attività. A questo comportamento appartiene anche la capacità di isolare all’interno della propria struttura uno o più compartimenti, ambienti minori ove si realizzano le trasformazioni del metabolismo. La reattività agli stimoli è compresa in questa voce, perché corrisponde a trasformazioni energetiche o materiali che si verificano nel vivente come conseguenza di trasformazioni avvenute in precedenza nell’ambiente.
Il giudizio sulla presenza dell’autoriproduzione spetta all’osservatore. Si può dire che una nuvola, in analogia con un’ameba, dividendosi in due “si autoriproduce”, nel senso che dà origine a due nuvole? In caso affermativo, ciò basterebbe per r...

Indice dei contenuti

  1. Frontespizio
  2. Copyright
  3. Indice
  4. VOLUME I
  5. VOLUME II