1. La catastrofe all’opera
Catastrofe naturale? Catastrofe industriale o tecnologica? Catastrofe morale?
Queste sono le tre principali tipologie di un concetto ricco di costellazioni di senso che la filosofia occidentale contemporanea riconosce e descrive, anche se ciò che le caratterizza, il filo rosso sotteso che le attraversa, resta univoco. Disquisendo della catastrofe la filosofia paradossalmente dimentica che questa è la catastrofe dello stesso pensiero, che essendo ormai troppo appesantito non fa che trovarsi in scacco.
Si metta ora per un attimo tra parentesi il modo di procedere filosofico che analizza e spiega. E si pensi a ciò che suscita in noi ascoltare il suono della parola «c-a-t-a-s-t-r-o-f-e»: non si aprono forse nel nostro immaginario scenari apocalittici di distruzione che possono venir ricondotti o a cause naturali, oppure a un’evoluzione scellerata che segue un progresso incapace, a sua volta, di discernere fra bene e male, incapace di avere una visione ampia e proteiforme del suo stesso cammino? Questi scenari immaginifici non sono forse influenzati da ampi segmenti di narrativa e di cinematografia che li raccontano?
Eppure l’uomo contemporaneo utilizza la parola «catastrofe» in molteplici altri contesti, la utilizza per esempio in modo traslato e metaforico per raccontare di sé e degli improvvisi aspetti negativi della sua vita. La catastrofe in un amore, in una famiglia, in un gioco, e la sua rappresentazione solo velatamente filosofica, che diventa una narrazione colorita, violentemente artistica, quasi trascendentale, se non assoluta, perché il Sé tende ad assorbire e assolutizzare sia ciò che lo pervade dall’interno, sia ciò che lo tocca dall’esterno. Una catastrofe può essere ancora accennata attraverso delle inezie vagamente ironiche, insormontabili e per nulla erotiche in tutta la loro leggerezza, in quanto essa, la catastrofe, non è solo qualcosa di pesante e cogente che dall’esterno trascina verso il fondo, è anche quel particolare, quel dettaglio, per cui un programma varia all’ultimo minuto senza alcun preavviso, è quella bellezza che sfugge non lasciandosi possedere, è la variabile caotica attraverso cui si vedono e vivono mondi diversi, è la variabile e insieme la spinta da cui hanno inizio mondi diversi, originariamente sommersi da rocce e magma, che urlano per vedere la luce. Mondi la cui emersione prevede la disgregazione dell’essere già stato. La catastrofe è l’inaspettato, l’imprevisto, è l’abisso, è il fondo selvaggio della natura che chiama l’uomo, lo tenta e lo ammonisce insieme per riaffermare la sua predominanza. L’imprevisto quasi prevedibile, l’imprevisto che a volte solo l’istinto viscerale, profondo e giocoso, ci prega di mettere in conto al di là di ogni ragione, di ogni modo di procedere logico, calcolatore e ingenuo al tempo stesso. La catastrofe è la leva che rompe le regole per creare nuovi spazi, nuovi ordini, ma non va pensata come un mezzo per un fine, è semplicemente il punto di non ritorno: l’irreparabile e l’incontrovertibile per il vecchio, la possibilità libera, la sfida creativa che si apre al nuovo. La catastrofe è, in un certo senso, perdere chirurgicamente le ali e la capacità di volare per imparare a camminare, è perdere la capacità di camminare per imparare a nuotare.
La catastrofe è una spada di Damocle incombente su ogni singolo essere cosciente, è ciò da cui si vuole fuggire, è ciò che non si vorrebbe dover mettere in conto: eppure esiste come possibilità, come sfida ultima dell’essere esistenziale. Il concetto di catastrofe ha bisogno del concetto di vita, ma non è il suo contrario, il suo speculare. La catastrofe non è la morte, bensì è un qualcosa che si pone fra la vita e la morte, è un qualcosa che nelle sue diverse accezioni scardina il ciclo naturale della vita alterandolo in un modo che, a sua volta e in maniera diversa, può essere connotato come naturale, come un qualcosa che s’impara ad accettare.
Si tenga ora presente la sua origine: la parola «catastrofe» deriva dal greco katastrophé, ed è etimologicamente composta da kàta + strophé, parole che producono ritmo e musicalità nel loro accostamento, lasciando così emergere il loro significato. Strophé è la parola greca passata ai latini che sta per strofa, ovvero per ciò che oggi indica un insieme di più versi formante un sistema metrico, regolato o libero, nella poesia lirica o nella canzone. Questo concetto si origina nella lirica greca, e deriva letteralmente da strépho, volgo, volgersi, in quanto gli antichi quando cantavano inni innanzi agli dèi solevano volgersi a destra e a sinistra, imitando così il movimento dei cieli da Oriente a Occidente e quello inverso degli astri, secondo le loro credenze. Kàta sta per giù, sotto, attraverso questa parola si dà un’indicazione spaziale che può assumere delle connotazioni non positive. La catastrofe diviene letteralmente un volgersi lirico verso ciò che sta in basso, verso la fine, il fondo e/o l’abisso. Questa definizione etimologica esprime tutta la vis dinamica che il concetto sprigiona. Il dinamismo origina la dimensione narrativa che caratterizza la catastrofe stessa, che non può non essere narrata in una sorta di canonizzazione del ricordo di ciò che è stato e non può più essere, di ciò che sarebbe potuto essere e non è e di ciò che è e non dà certezza.