Invisibile è la tua vera patria
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Sono acciaierie, raffinerie, manifatture, miniere. Spazi immensi, milioni di metri cubi strappati alla natura e trasformati radicalmente, in cui si dispiega una forza organizzativa senza requie. Chilometri di ingranaggi, tonnellate di lamiere, fiumi di metallo liquido a innalzare cattedrali dal cuore meccanico. E poi, un giorno, il presente glorioso diventa passato, lasciando soltanto scheletri e fantasmi di polvere. Polvere nera. Un'auto accosta di fronte a quelle sopravvivenze, un uomo scende e procede a passi lenti a bordo strada. Osserva ciò che resta di quel lavoro potente e incessante. Si chiama Giancarlo Liviano D'Arcangelo ed è in viaggio tra alcuni dei siti più rappresentativi dell'archeologia industriale italiana. Per capire che cosa accade quando le macchine si fermano per sempre. Liviano D'Arcangelo ha raccolto le testimonianze delle vittime della devastazione ambientale e ricostruito le storie personali e collettive legate a quei luoghi di magnificenza e squallore, in cui da sempre l'uomo sottomette ed è sottomesso. Dal Piemonte alla Sicilia, il paese è disseminato di relitti della grande industria. Dalle acciaierie Ilva di Taranto, ancora semifunzionanti, alla centrale elettronucleare sul fiume Garigliano, in Campania, fino alle miniere di Montevecchio, nel Medio Campidano. E poi i luoghi che documentano il ruolo cruciale di alcune famiglie, come gli Olivetti a Ivrea, i Florio a Palermo o i Crespi in Lombardia, imprenditori tessili e fondatori di un villaggio operaio divenuto patrimonio dell'umanità. Invisibile è la tua vera patria unisce la forza persuasiva del reportage alla suggestione di una narrazione in costante movimento tra passato, presente e futuro, e così individua le eredità materiali e spirituali della stagione della grande industria italiana, tra promesse e inganni, benessere diffuso e degrado, ricchezza concreta e interessi privati assurti a bene comune. Per comprendere in che modo, nel nostro paese, è deflagrato lo scontro tra tecnologia e umanesimo. E tracciare, se possibile, un bilancio dei vinti e dei vincitori.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788865763216
Categoria
Sociology

1. Il buio e la luce a Taranto

Io sono un occhio. Un occhio meccanico e sono in costante movimento!
DZIGA VERTOV,
L’uomo con la macchina da presa
«Va bene, andiamo a controllare di persona. Ma quando fa buio. Così almeno vediamo l’aurora boreale.»
«Non è vero. L’aurora boreale c’è solo al Polo Nord.»
«Ingenuo. C’è anche qui da noi. Scommetti?»
Esisteva un tratto di superstrada, tra Martina Franca e Taranto, e forse esiste ancora, in cui la legge di gravità era stravolta. Era un sacrario, un reliquiario, un santuario in cui c’erano fiori sempre freschi posati come ex voto e dove prendevano vita e polpa lugubri leggende metropolitane, alimentate dalla cronaca nera e dall’inspiegabile numero di incidenti automobilistici che si susseguivano nei paraggi di anno in anno. Pochi metri d’asfalto in discesa costeggiati da spine selvatiche e sporadiche margherite, su cui, si diceva in giro, le auto spente e lasciate in folle s’inerpicavano al contrario, in salita, come tignose capre di montagna, anziché prendere velocità e lanciarsi sulla piana, secondo la percepibile pendenza che trasformava la collina in pianura, quasi in depressione, e in linea con le leggi incontrovertibili dell’esperienza umana.
Da bambinello scettico e saputello, tronfio per la sfilza di «bravissimo» collezionati in seconda elementare e per le carezze di una maestra che non sapeva resistere all’intelligenza vivida e sicura di sé di un bimbo moretto cui stava badando come una Penelope fin troppo devota, io non ci credevo. Non ci credevo proprio.
Né allo stravolgimento della legge di gravità, né all’aurora boreale.
Nessuna creatura è più conservatrice, devota alle regole ferree della logica e fedele nel senso più cristiano alle scoperte consolidate della scienza di un bambino col cipiglio diligente alle scuole dell’obbligo.
E allora una domenica costrinsi mio padre a portarmi lì, al punto inesplicabile del bosco dell’Orimini, dove per i creduloni era collocato il passaggio segreto a un’altra dimensione spaziotemporale. Ero deciso a scendere e piantonare la nostra auto lasciata in folle e aspettare, attendere vigile e coraggioso il poltergeist, il miracolo, il crudo manifestarsi dell’ignoto, o in alternativa il mio trionfo, ovvero l’assenza di avvenimenti cui avrei appoggiato i «ve l’avevo detto» che tenevo sempre in canna e l’indice roteante, mia personale e infantile parodia dell’uomo adulto fin troppo scettico e fiero.
Eppure, fu un altro evento a rapire la mia attenzione, quasi immediatamente.
Un incendio patinato sembrava galleggiare in cielo, bruciandolo fino ad aprire una breccia: l’aurora boreale c’era davvero.
Cingeva l’intero orizzonte visibile a occhio nudo, il prismatico e illimitato spazio circostante, uno scenario che fu in grado di scaraventarmi per la prima volta, e piuttosto violentemente, nell’amplificazione empirica del concetto di infinito, e farmi percepire la mia condizione immutabile di molecola infinitesimale, troppo leggera, e per questo destinata a soccombere alle armi segrete del vuoto.
Puntare Taranto dall’Orimini significa duellare con il mare dall’alto, come da un canyon, e aver fiducia almeno per qualche secondo che stagliarsi in volo dal declivio sia davvero possibile, e non per migrare fantasticando su insicuri ritorni, ma per possedere il golfo intero con l’ambiziosa idea di proteggerlo, e ideare una strategia di resistenza valevole contro qualsiasi minaccia o violazione, facendo della boscaglia aggrovigliata di querce, rovi, lecci e piante di viburno una tignosa fanteria. O trasmutando fossili di masserie fantasma, relitti setteottocenteschi il cui declino è datato con precisione radiometrica dal rifluire fluorescente della vegetazione, in inespugnabili torri di vedetta. O immaginando muri a secco, sentieri e stalle, avanzi di civiltà che l’uomo edifica e abbandona e tradisce, per necessità o ambizione, come fiere batterie di cannoni nascosti dall’ampio calibro, dalla potenza di fuoco roboante e dalla balistica perfetta. Avamposti schierati contro i nemici più infidi, insomma. Che un tempo erano i cartaginesi o i saraceni e, in tempi più recenti, feroci cercatori vestiti all’ultima moda e ossessionati dall’oro.
«Hai visto il cielo?» disse mio padre. «Non è rosso. È color melagrana.»
I vastissimi miasmi, che dal mio punto di osservazione sembravano volteggiare per chilometri, si perdevano come segnali di fumo nell’ampiezza dell’empireo, molto in alto, là dove la stratosfera diventa mesosfera e la vista umana fatica a distinguere la filigrana del nero spaziale, inesauribile. Ma ciò che più importava è che se nell’aurora boreale comune, quella cui gli uomini e soprattutto gli scandinavi sono abituati, l’origine non è visibile a occhio nudo e avviene per processi chimici, quella mia personale aveva una genesi precisa, individuabile e chimica anch’essa, sì, e tuttavia esplicitamente umana: nasceva nelle ciminiere dell’Ilva, l’ex Italsider, il grande centro siderurgico che (appresi in seguito), l’Iri e tutta la nomenclatura politica nazionale del boom economico pretesero e avallarono come locomotiva del progresso italico e, ben presto, come medaglia simbolica dell’orgoglio produttivo nazionale.
Una cattedrale della modernità, un luogo sacro della civiltà industriale.
Io sono qui, anche oggi, per solennizzare l’entrata in funzione di un grande stabilimento industriale, questa volta rappresentato dal complesso degli impianti del IV centro siderurgico dell’Italsider. E anche in questa occasione voglio recare agli italiani del Mezzogiorno l’assicurazione che lo Stato ha preso effettivamente e seriamente coscienza della realtà meridionale e si adopera per mutarla.
Giuseppe Saragat, 10 aprile 1965,
giorno dell’inaugurazione ufficiale del centro siderurgico
E fu mutata, in effetti, la realtà meridionale.
Completamente.
Ma per me bambino, ed erano solo gli anni ottanta, la vista dall’alto dell’imperiosa fortezza dell’acciaio era piuttosto come trovarmi di fronte alla pentola piena d’oro da cui fuoriesce, fluorescente e ipocrita, l’arcobaleno.
«Bruciare sembrerebbe il destino di questo cielo» disse mio padre ipnotizzato «e quando è l’aria a bruciare, porta tutto con sé. Anche quando ero bambino io accadeva, cosa credi? Che ce l’hai soltanto tu ’sta gran fortuna? Ti affacciavi e ti saltavano via gli occhi. Erano centinaia. Rendevano il cielo rosso fuoco. Superare il pendio e affacciarsi sulla baia illanguidita dall’ampiezza dell’orizzonte era come arrivare col fiatone al confine tra paradiso e inferno, e inspiegabilmente essere attratti dall’inferno.»
«Cosa, le ciminiere?»
«No. Che. Che ciminiere. Le ciminiere non sono lì da sempre, stutc
«E allora cosa rendeva il cielo infuocato?»
«Gli sciaraball. Una catena infrangibile, senza inizio né fine, di sciaraball
Gli sciaraball erano il mezzo di trasporto più in voga nei primi decenni del Novecento, calessi di varie grandezze a una sola asse su cui viaggiavano merci o persone, e quando non c’era altro modo di trasportare carichi ingombranti come pomodori o cocomeri, la gente dei paesi si muoveva così alla volta di Taranto, per rimpinguare dispense o bancarelle dei negozi. Frusta, cappello, cavallo e sciaraball.
Taranto, dopotutto, era la città.
Era cresciuta a dismisura a partire dal 1865, quando il Regno d’Italia finalmente unito aveva bisogno di una roccaforte militare sul Mediterraneo, forse per alimentare uno smanioso desiderio di guerre di conquista a nutrimento di un futuro di ricchezza, guerre che poi sarebbero state perdute senza appello. Lì, in città, si facevano buoni affari, e in un’epoca in cui il turismo non esisteva e per chi non era aristocratico l’idea di viaggio era naturalmente legata al pellegrinaggio, alla tragicità di cambi di vita generati dalla miseria o all’imponderabilità di eventi unici inviati dal demonio come malattie non c’erano posti più belli da vedere che il golfo abbacinato sul mar Ionio, con i suoi ardimentosi accessi al mare e il cobalto liquido che restava sempre quieto, come mosto versato lì a fermentare, come un lago vulcanico o un quadro del Canaletto, dove le acque sono sempre specchi paradisiaci che si lasciano scrutare fin nel profondo.
Naturalmente, quella a Taranto era una spedizione da programmare con cura.
Perché tra i chilometri, il carico e lo scarico e le normali operazioni burocratiche allungate da una sosta refrigerante per la gazzosa, ad andare e tornare dai luoghi di rifornimento ci si poteva impiegare un’intera giornata.
Così, specialmente nei mesi estivi, mi raccontò mio padre, per evitare di vagare per strada sotto l’arsura desertica sia all’andata che al ritorno, si partiva a pomeriggio inoltrato col carro leggero e si rientrava in piena notte, con le braccia distrutte, e al calar delle tenebre si accendevano le lanterne di bordo per scrutare il necessario, non più d’uno o due metri davanti al cavallo, nubi di luce subito assaltate da orde di insetti, come se quel bianco fosse cibo. Nel buio assoluto, ecco allora il divampare di una scia capillare e fugace, quella di un bengala o di una torcia, una via lattea di lucciole.
Certo, non si vedeva nient’altro dalla vetta delle colline.
Gli abitanti delle masserie assiepate sul dirupo, se il tempo lo consentiva, andavano a godersi lo spettacolo come se attendessero il passaggio di una cometa, e le coppie di amanti ne approfittavano per dotare di una suggestiva scenografia la labile fugacità dei baci e del desiderio.
Sparute oasi luminescenti dovute all’illuminazione pubblica indicavano il centro città, gli uffici comunali, l’arsenale e il ponte girevole. Osservando il fluire spiroidale di una girandola si poteva individuare il faro di San Paolo in guerra contro la triplice alleanza di mare, notte e cielo, ma il nero spaziale fagocitava alberi e case, uliveti e pascoli, vitigni e pergolati, e di certo mimetizzava tra loro una miseria comunque dignitosissima e le non così rare oasi di benessere. Lo stesso mare si mimetizzava, e solo qualche lampara richiamava alla memoria stelle ribelli ancora bisognose di un nome, fino al momento in cui, a tarda notte, l’ultimo lumino affogava nella poderosa densità del consueto e persistente buio comunque imperante, che nella maggior parte delle notti concedeva alla luna giusto qualche rugosa striatura.
Da quel racconto paterno, gli sciaraball sono entrati per sempre nel mio immaginario, come accade a certi particolari o a certe visioni che la memoria sembra selezionare in combutta con l’anima, secondo chissà quali processi cognitivi e quali schemi di discernimento. A me era sembrato di vederli in modo nitido, in processione, e c’era una forza sacra di elementi, acqua, cielo, fuoco, terra e umanità in quella visione evocata dalle parole, che fu in grado di operare in me una fulminea e duratura penetrazione. Che mio padre avesse detto la verità, quel giorno, non l’ho mai messo in dubbio. Così com’era di certo vero che sull’Orimini la nostra macchina non si era mossa. E forse una verifica casuale di quei ricordi narrati e ancora oggi vivi nella mia memoria, una verifica non cercata ma incrociata per caso a distanza di molti anni, e soprattutto conclusa da un esito positivo, mi ha regalato, col tempo, un senso di soddisfazione ancora più profondo. L’idea, cioè, di poter poggiare il lento procedere dei giorni su qualche certezza soffusa e invischiata nel sottosuolo, la fiducia umana come materia prima da centellinare, una preziosa riserva energetica che si può e si deve intaccare soltanto in caso di blackout totale, quando vengono meno altre e più esteriori conferme. Ecco, nel lungo periodo, qual è l’unica vera differenza tra verità e menzogna.
Amedeo N., poco più di ottant’anni, oggi mi ha confermato per intero, parola per parola, il racconto paterno. Degli sciaraball. Dei cocomeri e delle lanterne. E non ho alcun dubbio che Amedeo N. possa non avermi detto la verità. Troppo coincidenti le due versioni per lasciare spazio a interpretazioni, dichiarerebbero inquirenti di professione. Inattaccabili i risultati dei miei sofisticati confronti incrociati e, soprattutto, nessuna possibilità che i testimoni abbiano messo in piedi una combine.
Amedeo e mio padre neppure si conoscono.
Non possono essersi accordati a mio discapito, come luminari del conflitto d’interessi, perché interessi comuni non ne hanno. Mio padre è architetto, Amedeo può contare su una pensione di invalidità. Mio padre è diventato bambino nel dopoguerra, quando alcune forme di dolore collettivo evaporavano dalla pelle e dal corpo per mitigarsi in ricordo; Amedeo è stato balilla e, nonostante ciò, il passato è il tempo della vita di cui gli restano le immagini più nitide, quelle che invoca come vitamine rigeneranti a base di malinconia, afflizione e affezione, o che chiama a sé come erinni incarognite, quando vuole sentirsi male e piangersi un po’ addosso, perché altrimenti ci sarebbe meno gusto a essere vecchio, e nessuno a essere invalido. In comune, a pensarci bene, non hanno però nemmeno il vissuto domestico, o i giochi di strada dell’infanzia o l’abitudine a districarsi nelle ristrettezze. Né, infine, concepiranno mai gli stessi orizzonti, in tutti i sensi. Perché Amedeo N. è cieco da mezzo secolo.
Nel trapasso tra l’inferno e il purgatorio, e tra il purgatorio e il paradiso di ciò che resta dell’immenso centro siderurgico tarantino, una città stato di 15 milioni di metri quadri, 50 chilometri di strade asfaltate interne e 200 di ferrovie, sarà lui la mia guida, il mio Virgilio, o meglio ancora il mio Omero.
Lo vado a prendere a casa, un rudere di masseria biancastra che sembra seicentesca, e forse lo è, dove i recinti in pietra delle aie per le galline potrebbero risalire al tempo dei dolmen apotropaici o a un assemblaggio imbastito durante il più recente degli albeggi, e non ci sarebbe alcuna differenza, perché le pietre incastonate sono lì da sempre. Un lungo viale, un tratturo così come si chiamavano in questa terra, un tempo, le strade sterrate che si avventuravano per chilometri nei campi e formavano vaste arterie di comunicazione per favorire la pastorizia e il trasporto del grano. Poi m’investe un’arida atmosfera di abbandono abitato, segnalato da bottiglie di vetro sistemate alla meglio sui muri di cinta a secco, alti poco più di un metro. Intorno a me, vecchi edifici di servizio, mangiatoie e magazzini per attrezzi sono recintati da grossi pezzi di intonaco scrostato e lentamente sembrano subire la vendetta della vegetazione selvatica, che sembra desiderosa di recuperare l’antico spazio perduto, espropriato, sbranando quanto più possibile tutti i segni d’antico lavoro umano. Anche lo stato del corpo centrale, dove Amedeo vive, ancora mostra segni di impoverimento progressivo, impressionanti. Dopo il saluto canonico e un’energica stretta di mano, è facile per Amedeo riempire di senso il mio silenzio.
«Sì. Lo so. È da molto che manca un po’ di manutenzione ordinaria qui. Manca, come si dice, il passepartout, la cartamoneta. Porte e finestre sono solide però. Si scrosta giusto un po’ di vernice.»
Mi guardo intorno più per curiosità che per compassione.
I tendaggi sono lisi, i divani logori, gli angoli delle volte sono ornati di ragnatele e macchie di marciume e umido disegnano strane figure sui soffitti, giganti e mostri disumani, cui il proliferare micotico delle muffe dona un inaspettato fascino tridimensionale.
Da un residuo fossile, reliquia in grado di simboleggiare il superamento d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. 1. Il buio e la luce a Taranto
  3. 2. Attacco al sole
  4. 3. La città dell’uomo
  5. 4. Camelot sull’Adda
  6. 5. L’isola del tesoro
  7. 6. Viaggio al termine della notte
  8. 7. Eclissi di luna
  9. Bibliografia
  10. Il racconto delle immagini
  11. Ringraziamenti
  12. Immagini