Parliamo davvero dell’1 percento
di Doug Henwood e Congressional Budget Office
Wow, quell’1 percento lassù se la passa proprio bene! E la cosa certo non vi stupisce. Il resto del mondo, invece, così bene non sta.
Il Congressional Budget Office, l’agenzia federale che fornisce dati economici al Congresso, ha pubblicato nuove statistiche sulle tendenze nella distribuzione del reddito negli ultimi trent’anni. Vediamo come è aumentato il reddito dei vari strati della popolazione al netto delle tasse federali (si tratta di cifre adeguate all’inflazione) tra il 1979 e il 2007:
O graficamente:
Questo modello a scala – per cui più si sale di reddito, maggiore è l’aumento percentuale dello stesso – è notevole.
Il risultato di questa crescita disuguale è stato frutto di una ripartizione sempre più iniqua del reddito al netto delle tasse nei diversi strati:
O graficamente:
Nel 2005, la parte di reddito che spettava al 20 percento della popolazione al vertice ha superato quella che finiva al restante 80 percento, anche se, come risulta evidente dalla suddivisione, è proprio al vertice che si è prodotto il cambiamento. Nel 1979, a quell’1 percento che stava al vertice andava più o meno la stessa parte che toccava al 20 percento della popolazione del ceto più basso; nel 2007, quello stesso 1 percento arraffava quanto il 40 percento della base.
È proprio così: siamo 99 contro 1.
Scene da un’occupazione
di Astra Taylor, Mark Greif
21 settembre, mercoledì
ASTRA
Tutte queste persone si lamentano che gli occupanti non hanno un programma chiaro, una critica che risale alla protesta del Wto di Seattle (o forse prima ancora). La questione è la giustizia economica. L’occupazione di Wall Street significa proprio questo, no? Si continua a dire di «tassare i ricchi» e «tenere le aziende e i loro soldi fuori dalla politica». È fastidioso che basti una donna in topless per distrarre i giornalisti, ed è fastidioso che le altre quattrocento persone che le stanno attorno non possano, o semplicemente non vogliano dirle di mettersi una maglietta.
23 settembre, venerdì
ASTRA
Alcuni di quelli che occupano Zuccotti Park sono molto giovani, e forse ingenui per un sacco di cose, ma sono felice che lo stiano facendo. Detto questo, continua a irritarmi un po’ l’incessante enfasi data alla giovane età dei manifestanti: è solo una maniera di trattarli come bambini e lasciarli da parte (sciocchi mocciosi, cresceranno e supereranno tutta questa idiozia della protesta!), ed è anche una maniera per scagionare i più grandi. Non dovremmo essere tutti là fuori, a urlare contro quelle sottospecie di mostri succhiasangue? Il fatto è che Liberty Plaza è piena zeppa di persone di ogni età, almeno durante il giorno, e ci sono un sacco di pensionati mescolati con i neolaureati. La nostra società, e la sinistra in particolare, ha questa idea assurda che i giovani sono l’avanguardia rivoluzionaria (nella sua famosa Letter to the New Left, Charles Wright Mills sosteneva che i giovani avevano sostituito la classe operaia nel ruolo di «ente storico»; Theodore Roszak definisce tale spostamento di significato «l’adolescentizzazione del dissenso»), ma naturalmente, essendo giovani, non hanno tutte le risposte (come se invece gli adulti le avessero). A questo proposito, mi sembrano molto deprimenti sia la mancanza di conoscenza storica (dei movimenti passati e delle strategie e tattiche più efficaci), sia la critica di quanti affermano che non c’è un briciolo di saggezza in tutta questa situazione, che ogni generazione di giovani reinventa la ruota, crede di essere la prima a modellarla e poi la usa per andare fuori strada. Mi auguro che almeno alcuni di loro vadano veramente a fondo e riescano a costruire una qualche struttura, cosicché la prossima generazione non sia costretta a ripetere da capo tutto il copione.
24 settembre, sabato
ASTRA
Dopo cena girovagavo intorno a Wall Street. Ci saranno state quattrocento o cinquecento persone che occupavano il parco, e poliziotti dappertutto. Stavano in guardia, minacciosi. Alcune auto della polizia continuavano a girare tutt’intorno alla zona a sirene spiegate. Decine di furgoni e camionette erano parcheggiati dietro l’angolo, pronti per essere riempiti di manifestanti in manette. Ho saputo che molti erano stati arrestati poco prima mentre marciavano verso Union Square. Girava online il video di due ragazze bloccate tra la Dodicesima Strada e la University Avenue, colpite a bruciapelo con gas lacrimogeni da uno zelante poliziotto in camicia bianca. L’ho visto più tardi quella sera: una vittima era caduta in ginocchio, urlando dal dolore, mentre l’altra tremava incredula. È stata convocata un’Assemblea generale di emergenza per discutere il da farsi in caso di raid. Sembrava imminente, anche se non sono riuscita a prestare davvero attenzione a quanto si diceva perché ho iniziato a controllare tutte le possibili vie di fuga. Mi sono messa a scherzare con una donna dell’Upper East Side sul fatto di iniziare una manifestazione per protestare contro lo spreco di soldi dei contribuenti per pagare gli straordinari dei poliziotti.
Anche se erano già state fermate ottanta persone e la polizia in assetto antisommossa faceva davvero paura, la piazza era viva, piena di coraggio. Hanno deciso di rimanere una settimana, che non è poco. E hanno molto apprezzato i panini con le zucchine e il succo di mango, quindi grazie per le donazioni.
Mi piacerebbe che quella piccola parte dei miei amici che avanza critiche sensibili e intellettuali a questa azione, e quelli che hanno detto: «Hanno un buon messaggio, ma sono le persone sbagliate per diffonderlo» venissero a dare un’occhiata qui a Wall Street, perché è questa la partecipazione: la voglia di vedere arrivare sempre più gente che ti somigli.
25 settembre, domenica
MARK
Nove giorni non sono mica una passeggiata. So che la gente continua a lamentarsi che gli occupanti non sono organizzati, ma ogni vera riunione deliberativa richiede tempo, e queste persone neppure si conoscevano nove giorni fa. L’occupazione, secondo me, serve a ricordare a tutti che Wall Street appartiene alla città di New York, che i soldi delle banche appartengono alla gente che ne ha temporaneamente parcheggiata lì una parte (sperando che che le banche ci facessero qualcosa di buono), e che le regole del gioco, alla fin fine, le facciamo noi. Anche se vorrei che il corpo di polizia della città di New York non si sentisse obbligato a cacciare via i manifestanti da Wall Street con i lacrimogeni. Spero anche che Burger King continui a essere generoso con il bagno. Stasera, all’Assemblea generale, l’ho detto. Strano per me, dopo una vita intera a insinuare nelle università e nei gruppi professionali il sospetto verso l’ordine, verso le procedure parlamentari e la sommaria soluzione delle riunioni; e dicevo, ridendo: «Ehi, è dagli anni sessanta che abbiamo accantonato tutta ’sta roba!» quando vedevo qualche assemblea gestita da ragazzini in maniera efficiente, democratica e, addirittura, senza perdere il buonumore. Se potessi, moltiplicherei all’infinito riunioni come questa. La sinistra la sa più lunga di quanto sembri, come sempre. Noam Chomsky ha mandato un’email. Troppo prolissa, c’era da aspettarselo; che bellezza se la gente gli facesse il gesto di «arriva al punto». Ero seduto vicino alla fila degli oratori in attesa del loro turno e mi ha stupito vedere che persone che credevo si conoscessero perfettamente, dato che lavoravano così bene insieme, bisbigliavano chiedendo il nome di questo e di quell’altro. Sono un gruppo molto rilassato. L’ho visto durante una protesta. Molto composti e senza scossoni da teste calde. Sarà la fiducia dei primi nove giorni. O saranno tutti gli scontri che hanno vinto in modo nonviolento. Quelli che sono stati arrestati, tra cui un uomo buttato a terra e incarcerato perché si era permesso di lamentarsi in una filiale della Chase Bank che ha pignorato la casa dei suoi genitori, sono tornati e ci hanno descritto le celle di sicurezza. La varietà dei manifestanti comprende un nucleo che rimane durante la notte, visitatori di passaggio (come me), militanti di lungo corso, vagabondi e gente che legge come fossero «studenti» di tutte le età. Anche il gruppo dei percussionisti era tollerabile.
Lettere di dimissioni dal sogno americano
di Marco Roth
Una pagina web, lettere bianche e rosse su sfondo nero, una galleria di volti, la maggior parte nascosti dietro fogli scritti a mano di ogni forma e colore. Su una foto si intravede il volto di un uomo calvo, con la barba bianca, che regge un bloc notes di fogli gialli su cui ha scritto a caratteri cubitali: HO TRE LAVORI, E NESSUNO MI DÀ UN’ASSICURAZIONE MEDICA. MIO FIGLIO HA MEDICAID. VIVIAMO DI BUONI ALIMENTARI. SIAMO A UNA BUSTA PAGA DAL DISASTRO. SONO IL 99 PERCENTO.1
Un’altra foto mostra solo le dita di una ragazza con un foglio in mano:
Mi sono laureata un anno fa e lavoro come giornalista. Sono fortunata. Ogni volta che facciamo una riunione di lavoro licenziano qualcuno. Nel mio ufficio lottiamo tutti per la sopravvivenza; siamo professionisti che guadagnano meno di trentamila dollari all’anno. Ogni giorno ho paura di perdere il lavoro e di non riuscire a ripagare i quarantamila dollari del prestito per gli studi che non estinguerò finché avrò quarant’anni. Pagata la rata del prestito e l’assicurazione della macchina, mi rimangono solo i soldi per la benzina. Sono molto fortunata, potrebbe andare peggio, almeno posso restare a casa dei miei per un po’. Sono il 99 percento.
E così via, le immagini scorrono per pagine e pagine: veterani tornati in patria senza un lavoro e con disturbi più o meno invalidanti; un potenziale professionista con «tre master, nessun lavoro e 80000 dollari di prestito da ripagare»; una coppia che ha paura di avere figli perché «saranno parte del 99 percento»; una donna che conclude la propria testimonianza con l’epitaffio: «Prima laureata in famiglia. Carriera folgorante nella cooperazione internazionale. Ora non riesco nemmeno a farmi assumere come cassiera allo zoo, perché la depressione cronica, la disoccupazione e l’impossibilità di accedere alle cure mediche mi hanno rovinato le credenziali. Ho rispettato le regole del gioco». Ci sono insegnanti, ragazzi spaventati all’idea di iscriversi all’università, figli di immigrati coscienti che li attende una vita peggiore di quella dei loro g...