1
Gute Nacht
Fremd bin ich eingezogen,
Fremd zieh ich wieder aus.
Der Mai war mir gewogen
Mit manchem Blumenstrauß.
Das Mädchen sprach von Liebe,
Die Mutter gar von Eh’—
Nun ist die Welt so trübe,
Der Weg gehüllt in Schnee.
Ich kann zu meiner Reisen
Nicht wählen mit der Zeit:
Muß selbst den Weg mir weisen
In dieser Dunkelheit.
Es zieht ein Mondenschatten
Als mein Gefährte mit,
Und auf den weißen Matten
Such’ ich des Wildes Tritt.
Was soll ich länger weilen,
Daß man mich trieb’ hinaus?
Laß irre Hunde heulen
Vor ihres Herren Haus!
Die Liebe liebt das Wandern—
Gott hat sie so gemacht—
Von einem zu dem andern,
Fein Liebchen, gute Nacht!
Will dich im Traum nicht stören,
Wär’ schad’ um deine Ruh’,
Sollst meinen Tritt nicht hören—
Sacht, sacht die Türe zu!
Schreib’ im Vorübergehen
An’s Tor dir gute Nacht,
Damit du mögest sehen,
An dich hab’ ich gedacht.
Come un estraneo sono comparso,
come un estraneo me ne vado.
Maggio mi è stato benevolo,
con qualche mazzo fiorito.
La fanciulla parlava d’amore,
la madre addirittura di matrimonio;
ed ora il mondo è tanto triste,
la strada è sepolta nella neve.
Per questo viaggio non m’è dato
di scegliere il tempo,
da me devo trovare la via
in quest’oscurità.
Mi accompagna
l’ombra della luna,
e sulla bianca terra
cerco la traccia di bestie selvagge.
Che cosa mi trattiene
da quando mi hanno cacciato?
Guaite, cani randagi,
davanti alla casa del padrone!
L’amore ama girovagare –
così l’ha fatto Dio –
dall’uno all’altro.
Amore mio, buona notte!
Non ti turberò nel sonno,
voglio la tua pace;
camminerò in punta di piedi,
pian piano chiuderò la porta!
Passando ti scriverò
sull’uscio: buona notte.
Così avrai la prova
che io t’ho pensato.
«Buona notte.» È così che terminano spesso le favole, no? È l’augurio che facciamo ai bambini arrivati all’ultima pagina. L’espressione ha in sé qualcosa di delicato, come delicato è questo Lied. Un Lied che, durante le prove o in concerto, è sempre suonato alle mie orecchie come la conclusione di qualcosa ma al contempo come il preludio al ciclo vero e proprio. Uniforme nella dinamica e smorzato per l’intera durata, mentre il viandante si allontana furtivo dalla casa in cui ha amato e che, in qualche modo, ha perduto, il pezzo contiene solo minimi accenni all’alienazione e agli eccessi emotivi a venire. E tuttavia tali accenni sono presenti, per essere registrati e rifratti nelle canzoni successive.
All’inizio del mio viaggio con la Winterreise, questo Lied mi incuteva ogni volta sgomento; o forse sarebbe meglio dire che provavo un enorme sollievo quando arrivava alla fine. Temevo che a causa dell’inesperienza, del limitato coinvolgimento e della mancanza di fiducia nell’idea del compositore, mi sarei annoiato, annoiando di conseguenza il pubblico (cosa ben più grave). «Gute Nacht» è più lungo di tutti gli altri Lieder della Winterreise, soprattutto considerando che è in tempo moderato, più che lento: è sostanzialmente ripetitivo e forse, in teoria, piuttosto monotono. Quando sentiamo parlare dei cani litigiosi che abbaiano nella terza strofa, la tentazione è di riprodurre un qualche cambiamento dinamico, di cantare più forte, con più enfasi, e imitarne i versi. In realtà bisognerebbe resistere a questo impulso, facendo insieme percepire tale resistenza. Questa tessitura ripetitiva e tranquilla, indicata con precisione da Schubert, è cruciale; cruciale per l’effetto squisitamente schubertiano nella strofa finale, quando la tonalità cambia come per magia da minore a maggiore. Come capita spesso in Schubert, la tonalità maggiore sembra più triste di quella minore, contrariamente all’idea comune di tonalità tramandata in «Ev’ry Time We Say Goodbye» di Cole Porter («and how strange the change from major to minor», e com’è strano il cambiamento da maggiore a minore). La tristezza qui è in parte una questione di fragilità: questo pensiero radioso della ragazza, addormentata e sognante, è esso stesso un sogno. I sogni di felicità, espressi in tonalità maggiore, e per questo tanto più strazianti, sono un aspetto ricorrente di questo ciclo di Lieder.
«Gute Nacht» è uno di quei Lieder che nel momento esatto in cui cominciano sembrano essere esistiti da sempre. Le crome ripetute, con passo moderato, arrancano attraverso la pagina e per tutto il brano, testarde, intrecciate dapprima con una malinconica figurazione discendente spezzata dalle stilettate degli accenti che nel manoscritto di Schubert sono stilettate di dolore. In quello stesso manoscritto, Schubert ha dato al Lied l’indicazione agogica «mässig, in gehender Bewegung» o «moderato, a passo d’uomo» (alla lettera «moto andante»), e questo passo, come una cadenza di morte, è la pietra di paragone dell’intera opera: un viaggio invernale, che porta da un luogo all’altro ma che, in un certo senso, privilegia il movimento sul resto, il bisogno di allontanarsi, di essere un viandante in senso ottocentesco (l’Ebreo errante, l’Olandese volante), di essere «sulla strada» in senso novecentesco (Jack Kerouac, Highway 61…). Schubert stesso aveva già usato l’indicazione in uno dei suoi adattamenti più cupi, uno dei canti del reietto dannato di Goethe, l’Arpista, che comincia così: «Mi trascinerò di porta in porta»; l’agogica può anche avergli ricordato la Sonata per pianoforte n. 26 di Beethoven, chiamata anche Les Adieux. Il primo movimento di questa sonata è basato su un motivo musicale su cui il compositore ha scritto «Lebewohl», un addio sentito; il movimento centrale è intitolato «Abwesenheit», assenza, con l’indicazione «Andante espressivo (in gehender Bewegung, doch mit viel Ausdruck)», cioè con moto andante, ma con molta espressione.
Perché l’uomo che canta questi Lieder sente il bisogno di partire? Non lo sappiamo in realtà, anche se spesso crediamo di conoscerne il motivo, crediamo che sia stato rifiutato dall’amata e che debba andarsene. L’informazione fornitaci, ricordiamocelo, è in una certa misura incompleta: la ragazza parlava di amore, la madre perfino di matrimonio. Nell’adattamento di Schubert, la frase viene ripetuta con altezza crescente, facendo aumentare l’aspettativa. Ma poi si spalanca un grande abisso, una specie di sconfortante cesura che segna la fine della speranza, l’abbandono del calore domestico del passato per il paesaggio inospitale che d’ora in poi abiteremo: «Ora il mondo è tanto cupo, la strada è sepolta nella neve». Ricordate, però, che non è chiaro cosa abbia spinto l’uomo a partire. Lui ha lasciato lei? O lei ha lasciato lui? Il discorso della madre sul matrimonio è apparso come un miraggio promettente o una visione da incubo per un vagabondo refrattario alle responsabilità? Si è comportato così tutta la vita? Perché si trova lì in quella casa, in quella città, a quell’ora? Vi abita, è lì in visita o è solo di passaggio? È notte. Tutti dormono.
La risposta risiede in parte nel totale coinvolgimento nelle tematiche byroniane del poeta Wilhelm Müller (che negli anni venti dell’Ottocento pubblicò importanti saggi in tedesco sul poeta del Pellegrinaggio di Aroldo e del Don Giovanni) e in quello che potremmo chiamare il metodo byroniano dell’assenza – che lo stesso Byron aveva preso e sviluppato da Walter Scott (il poeta di Marmion trasformatosi in seguito nel romanziere storico di Ivanhoe). Al pari di un eroe byroniano, il protagonista di Müller è ammantato di un’aura di mistero («Come un estraneo sono comparso, come un estraneo me ne vado» è il modo in cui si presenta) è una figura tragica che si trova in una situazione difficile le cui cause non vengono mai rivelate in maniera soddisfacente. Come dice lui stesso (significativamente, molto più avanti nel ciclo, quando l’imprecisione del poeta ha fatto il suo lavoro), quasi scimmiottando questo modello byroniano, «Habe ja doch nichts begangen, dass ich Menschen sollte scheu’n» (Non ho commesso nulla perché io debba evitare l’uomo). È quasi una domanda: «L’ho fatto? Ditemelo voi…». Questo mistero era al centro del culto stesso di Byron, un culto che alimentava la poesia. Il poeta era legato alla propria voce poetica in una maniera fino allora inaudita. «È difficile» scrisse una lettrice, Annabella Milbanke, nel 1814 (un anno dopo sposò Byron), «è difficile credere che abbia potuto conoscere questi esseri così a fondo solo grazie all’introspezione.» Byron incarnò la mitologia delle proprie narrazioni poetiche – narrazioni frammentarie, come quella della Winterreise – diventando un esule, un viandante, bandito per un crimine oscuro e misterioso (l’incesto commesso con la sorellastra, come si sarebbe scoperto alcuni decenni più tardi).
Eppure nella Winterreise non c’è traccia di un oscuro crimine: il nostro viandante non è Manfred o il Vecchio Marinaio. Non ci sono neanche indizi del fatto che, nel momento in cui scriveva, Wilhelm Müller, felicemente sposato, stesse vivendo le esperienze del suo protagonista (sebbene una storia d’amore precedente, vissuta a Bruxelles verso la fine delle Guerre napoleoniche, possa aver fornito materiale utile). La sua vita passata, o in realtà quella di Schubert, sono un altro paio di maniche, come vedremo; ma è solo come allegoria dell’alienazione politica tedesca nel periodo postnapoleonico, dominato da Metternich, che il ciclo si può collegare alle circostanze in cui lo stesso Müller si trovava quando scrisse le poesie. Questa è a malapena accettabile come interpretazione tradizionale di questi testi, anche se la esploreremo più avanti. In realtà, a produrre tale angoscia esistenziale è ...