L'arte di scomparire. Vivere con discrezione
eBook - ePub

L'arte di scomparire. Vivere con discrezione

  1. Italian
  2. ePUB (disponibile sull'app)
  3. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

L'arte di scomparire. Vivere con discrezione

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Il piacere baudelairiano di perdersi tra la folla della metropoli; la gioia profonda e silenziosa di osservare, inosservati, il proprio amato mentre dorme o i propri bambini mentre giocano tranquilli; il sollievo di poter placare finalmente l'ansia di mostrarsi. Lontano dalle vetrine sfolgoranti, dal calcolo prudente, dalla paura o dal desiderio di essere notati, l'anima discreta offre al mondo una presenza giusta, misurata. In una società che vive di apparenza e spettacolarità, la discrezione è una necessaria forma di resistenza. Spegnere i riflettori, abbassare il volume, godere dell'anonimato sono gesti politici prima che morali. La discrezione è un'arte, un atto volontario, una consapevole scelta di vita in un mondo che ci vorrebbe sempre connessi, protagonisti, inesorabilmente presenti, e in cui s'impone l'urgenza di una tregua, di staccare e sparire. Come quando, in un paese straniero, assaporiamo la massima libertà di non essere riconosciuti, la discrezione è arte della scomparsa: non nascondere nulla fino a non avere più nulla da mostrare, fi no a rendere la propria presenza impercettibile. È arte della sottrazione, non per negare ma per affermare se stessi, e al contempo far scomparire quello che ci definisce. È aprirsi al mondo senza toccarlo, è gioia di «lasciar essere» le cose. È ancora possibile oggi, tra selfie e YouTube, essere discreti? Secondo Pierre Zaoui la risposta è sì: anzi, la discrezione è la nuova faccia della modernità, frutto delle libertà offerte dalle nostre società democratiche. Nel suo saggio, Zaoui convoca i grandi pensatori della discrezione, da Kafka a Blanchot a Deleuze, passando per Virginia Woolf e Walter Benjamin, per delineare i tratti di questa esperienza «rara, ambigua e infinitamente preziosa». Le anime discrete, afferma Zaoui, sono quelle che fanno il mondo: senza di esse, più nulla può reggere. Dobbiamo augurarci che non venga mai il giorno in cui anime simili scompariranno, schiacciate definitivamente dall'onnivisibilità, che non venga mai il giorno in cui rimarranno soltanto riflettori e casse di risonanza, perché allora tutto crollerà. È anche questo, afferma Zaoui, il senso del fare filosofia: cercare lo spirito del tempo, e dunque tutto ciò che tende a scomparire, a essere, appunto, discreto.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a L'arte di scomparire. Vivere con discrezione di Pierre Zaoui in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Filosofia e Filosofia sociale. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788865764183
Argomento
Filosofia

La discrezione, un’invenzione monoteista
(schizzo di una genealogia)

«Allievo di Elieser era il rabbi Meir, uomo pio, la cui devozione era così grande che l’insegnamento del libero pensatore non gli recò nessun danno. Mangiava (così diceva) il gheriglio, buttava via il guscio.»
FRANZ KAFKA, Diari, 28 ottobre 1911 (dalla Cabala)
Ci sono tanti modi indiscreti di mostrarsi discreti: per paura dell’opinione pubblica, per sottomissione servile alle regole comuni della buona educazione, per prudenza, per astuzia e calcolo; per ravvivare la propria immagine sociale, darle quel tocco di eleganza e di cortesia che le mancava, per affinare quindi il proprio narcisismo; per farsi desiderare ancora, dunque per uno spiccato senso di seduzione ecc. Ma come ha potuto, allora, un’esperienza in sé della discrezione emergere, o piuttosto sopravvivere a tutte queste forme di strumentalizzazione, asservimento e – che è poi la nostra ipotesi generale – snaturamento? Un’esperienza «in sé» vuol dire almeno tre cose: un’esperienza restituita alla propria immanenza, che non dipende più da motivazioni o calcoli esterni; un’esperienza che valga per se stessa, dove quindi la paura si trasformi in gioia, l’angoscia in serenità, la sottomissione in libertà; e un’esperienza che ci faccia prima che siamo noi a farla, che ci colga dal di fuori, che ecceda in anticipo qualsiasi nostra previsione o aspettativa personali. È solo il sogno di un etnologo chiuso nel suo studio a Lignerolles, o piuttosto un’esperienza realmente e storicamente avvenuta?
Riascoltiamo la voce di Lévi-Strauss. Difficile, per un orecchio occidentale, non sentire nelle sue parole una sorta di giansenismo secolarizzato: «mettere il mondo prima della vita, e la vita prima dell’uomo»; «proteggere la purezza degli esseri e delle cose dall’impurità del soggetto»… Allo stesso modo, ascoltiamo per un momento Kafka, che è stato il nostro filo conduttore sotterraneo sin dall’inizio, quando fa l’apologia dell’umiltà: «L’umiltà dona a ciascuno, anche al disperato solitario, uno strettissimo contatto con gli altri uomini, e lo dà subito, a patto, s’intende, che l’umiltà sia assoluta e continua. Essa può farlo perché è la vera lingua della preghiera, insieme adorazione e fortissimo legame. I nostri rapporti col prossimo sono quelli della preghiera, i nostri rapporti con noi stessi quelli dell’azione; alla preghiera attingiamo le energie necessarie per l’azione». Come non sentirvi un’eco biblica: «La saggezza è presso gli umili»?1 O ascoltiamo Baudelaire, di cui abbiamo già sottolineato l’importanza per il pensiero della discrezione, quando in Razzi parla dell’«ebrezza religiosa delle grandi città» o, nei suoi Piccoli poemi in prosa, della «prostituzione santa dell’anima che si dà intiera, poesia e carità, all’imprevisto che appare, all’ignoto che passa».2 Come non sentirvi una rimasticatura insieme ironica e ossequiosa della grande favola mistica del XVII secolo?
La soluzione salterebbe agli occhi in modo ancora più evidente se ci dedicassimo allo studio dell’intera opera di Maurice Blanchot, il grande pensatore moderno della letteratura come esperienza della scomparsa, del rifiuto di essere autore in quanto «l’opera scritta, una volta fatta, non testimonia che la dissoluzione di esso, la sua sparizione, la sua defezione e per esprimersi più brutalmente, la sua morte». Perché in un simile invito a scomparire è difficile non sentir risuonare non soltanto la crocifissione e il sacrificio di Abramo, ma, come scrive nell’Infinito intrattenimento, tutta la notte mistica cristiana in cui si sperimenta «la suprema incertezza del supremamente certo, la presenza del Dio assente», tutta la mistica ebraica identificata, nell’Amicizia, con una «passione dell’anonimato», e la svalutazione hegeliana e iperteologica del sensibile che percorre la sua intera opera. Ma non possiamo soffermarci su Blanchot troppo a lungo, è troppo alto, e anche troppo lontano.
In ogni caso, è chiaro che i più grandi pensatori moderni e atei della discrezione hanno tutti attinto, ognuno a modo proprio, a un fondo religioso più o meno consapevole, e in particolare a un fondo monoteista (cultura occidentale oblige).3 Non è dunque lì che dobbiamo cercare? Non dovremmo forse ammettere che senza la comparsa del monoteismo, e in particolare dell’ebraismo e del cristianesimo, il pensiero occidentale non avrebbe conosciuto quell’esperienza della discrezione che la mitologia remota degli Indiani d’America ci ha fatto intravedere? Certo, ci vorrebbe forse una folta schiera di sapienti teologi e di storici delle religioni per rispondere in modo preciso a questa domanda. Ma qui, per fondare almeno l’ammissibilità – non dico la verità – di un’ipotesi genealogica abbastanza selvaggia, possiamo accontentarci, con le nostre scarse conoscenze, di individuare alcuni momenti in cui le forme di un’esperienza della discrezione sembrano emergere da un fondo greco – perché non c’è filosofia in Occidente o nel Vicino Oriente senza i Greci –, ma per farlo deviare, se non addirittura esplodere, verso un’esperienza che gli resterà sempre estranea.
Concentriamoci in particolare su tre momenti, che certo dipendono da registri radicalmente diversi, ma, come Nietzsche ci ha insegnato, a capo di ogni progetto genealogico serio non troviamo per l’appunto che disparità: l’analisi metodica della questione dell’umiltà nella Somma teologica di san Tommaso d’Aquino; l’invenzione dell’ipotesi cosmogonica del tzimtzum nel pensiero cabalista di Isaac Luria e della scuola di Safed nel XVI secolo; l’apologia del distacco e dell’abbandono nei trattati e nei sermoni di Meister Eckhart.
È evidente che di fronte a una simile impresa si presentano subito due massicce obiezioni. Eliminiamole rapidamente, poiché le obiezioni non aiutano ad andare molto lontano.
Il primo a insorgere è l’ateo: come si può pretendere di trovare le radici della discrezione nelle religioni monoteiste, quando non sono state che spettacolo e sistema di sorveglianza – ori e splendori delle sinagoghe, delle cattedrali, delle grandi moschee; miserabile assoggettamento di donne, deboli, poveri di spirito a regole insensate di schiavitù quotidiana; o, ancora, osservazione metodica delle deviazioni di ciascuno? Che l’ateo stia pure tranquillo. Da una parte, sempre seguendo la lezione di Lévi-Strauss sull’opposizione tra mitologia e rituale, la nostra ricerca riguarderà unicamente i grandi pensatori monoteisti, e non le infime e violente regole di pudore o di modestia promulgate da semplici dottori della legge: le religioni sono sempre più interessanti per il modo in cui studiano e pensano il mondo che per la maniera in cui raffinano, sino alla follia nelle loro espressioni integraliste, le forme di autocostrizione nel quotidiano. Dall’altra, è subito certo che il nome stesso di Dio è troppo chiassoso per chi si trova improvvisamente travolto dalle gioie della discrezione.
Poi, per il credente o per il dotto, si tratta di tre momenti del pensiero teologico estremamente complessi e commentati infinite volte da persone ben più erudite di noi. Un’impresa come quella che proponiamo può quindi solo suscitare la sua repulsione discreta ma innata, sotto forma di un: «In cosa mi immischio?». Ma, come direbbe san Tommaso, non bisogna mai avere timore del sapere, se lo si affronta con lo spirito modesto della studiositas e non della vana curiosità. Ora, a interessarci, qui, non è la verità delle religioni e della teologia, ma esclusivamente quella della discrezione. Concediamoci dunque, fino al punto in cui la nostra onestà può tollerarlo, di saccheggiare innocentemente i loro tesori più belli.

La discrezione come umiltà: la saggezza di san Tommaso

Se l’aidós, il pudore (o modestia o vergogna) dei filosofi greci, ci era davvero parso ancora troppo orientato da un lato verso la visibilità pubblica, dall’altro verso la sottomissione all’opinione altrui, per arrivare a costituire le premesse di un’esperienza della discrezione, anche l’umiltà sembra altrettanto opposta a una simile esperienza, ancorché in senso contrario. L’atto di rendere umili, l’umiliazione, vale a dire letteralmente sbattere l’altro faccia a terra (humilitas viene da humus, «terra»), oltre al suo carattere intrinsecamente odioso, non è l’atto in assoluto più contrario alla discrezione? Farsi discreti non è, prima di qualsiasi altra cosa, non voler essere umiliati e non voler umiliare? Esiste anche un’intera tradizione biblica e spiritualista del divenire-polvere-e-cenere dell’uomo, che sembra oscillare tra un sadomasochismo particolarmente perverso e un prebeckettianismo senza humour, che non può che stancare molto presto chi sta assaporando il fascino della discrezione. Nella nozione di umiltà ci sarebbe davvero troppa cattiveria ostentata per poterla prendere sul serio a lungo.
Ma forse è qui che entra in gioco tutta la saggezza di san Tommaso.4 Tentando infatti una sintesi improbabile tra rivelazione cristiana e tradizione aristotelica, in particolare tra l’anava o l’humilitas bibliche (l’umiltà degli ebrei e l’umiltà dei cristiani) e l’aidós o la modestia aristotelici, ha fatto saltare in aria sia il tenace orgoglio dei Greci, sia lo strano sadomasochismo dei giudeocristiani, per aprire la strada a un’esperienza più umana, più moderata, anche più alternativa (nel senso di corrente alternata: che non deve mai durare a lungo, a differenza di quanto pretendono gli spirituali fanatici, ma ritorna continuamente, a differenza dell’aidós aristotelico, che riguarda la giovinezza e deve sparire con la maturità). Un’esperienza del genere consisterebbe così in un doppio rapporto con gli altri e con tutta la natura creata: da un lato «ciascun uomo, in ciò che a lui appartiene, deve mettersi al di sotto di qualsiasi altra persona rispetto ai doni di Dio che sono in essa», ma dall’altro, «l’umiltà non richiede che uno metta i doni che egli ha ricevuto al di sotto dei doni di Dio che scorge in [qualsiasi] altro» (q. 161, a. 3, r.). In altre parole, l’umiltà consiste nel farsi piccini davanti alla divinità degli altri, serbando sempre coscienza di essere noi stessi di origine divina, quindi uguali, e che dunque non c’è alcuna ragione perché questa modestia duri per sempre: è una questione di percezione, di momento, e persino di godimento. Ma, a parte il richiamo a Dio, non si tratta quasi con esattezza di quanto sin dall’inizio consideriamo un’esperienza della discrezione?
Cerchiamo di essere più precisi, riprendiamo qualche passaggio dell’argomentazione di san Tommaso. Innanzitutto, è chiaro che egli non considera l’umiltà come una virtù fondamentale del cristianesimo (cosa che fa davvero al caso nostro: «Per pietà, che non mi si chieda di fondare nulla» continua a ripetersi il discreto). Là dove, nel De sancta virginitate, sant’Agostino poteva sostenere che «l’umiltà è il fondamento dell’edificio spirituale», san Tommaso afferma al contrario che l’humilitas non saprebbe collocarsi all’altezza delle virtù teologali;5 anzi, è una virtù doppiamente periferica. Da un lato, non è che una parte della modestia (che ne comprende quattro: l’humilitas che modera la superbia, l’orgoglio, senza condannare la giusta coscienza del proprio valore; la studiositas, o erudizione modesta, che modera la curiositas, o curiosità orgogliosa, senza condannare l’amore modesto del sapere; «la modestia negli atteggiamenti esteriori del corpo», che modera la passione del gioco senza condannarlo; e «la modestia nell’abbigliamento esteriore», che modera la passione della civetteria senza condannarla); dall’altro, sulla linea di un Aristotele un po’ forzato secondo le esigenze della propria tesi (dato che quest’ultimo non considerava affatto la modestia o il pudore come una virtù), la modestia stessa è pensata come una «virtù moderatrice delle piccole passioni», «annessa alla temperanza come virtù principale». La discrezione è esattamente questo: un’esperienza tutto sommato periferica, che non ha la pretesa di essere né centrale né decisiva, tanto è consapevole di dipendere da virtù più alte (l’amore sensuale, la generosità, l’ospitalità, per nominare le virtù cosiddette «a-teologali», ovvero pensate al di fuori dell’orizzonte delle tre grandi virtù teologali: la fede, la carità, intesa come amore del prossimo, e la speranza).
In secondo luogo, anche a rischio di permetterci qualcosa di quasi impensabile per un teologo, possiamo rilevare l’umorismo imbarazzato ma evidente di san Tommaso quando commenta il classico problema dei gradi di umiltà. San Benedetto ne contava dodici, e Tommaso ne compila un elenco completo, in cui i più curiosi sono senz’altro il sesto: «Credere e protestare di essere il più vile di tutti»; e il settimo: «Protestarsi e credersi inutile e incapace di tutto». Poi si passa a sant’Anselmo, che ne conta solo sette, ma ancora più rigidi dei precedenti: 1. Riconoscersi degni di disprezzo; 2. Addolorarsi di questo; 3. Confessarlo apertamente; 4. Convincerne gli altri; 5. Sopportare con pazienza che ciò si dice; 6. Tollerare di essere trattati con disprezzo; 7. Amare tutto questo. Ma cosa dice allora Tommaso degli uni e degli altri? Si accontenta di un’ellissi del tutto inattesa, dal momento che Anselmo non può essere un’autorità superiore a Benedetto: «I gradi suddetti [quelli di Benedetto] sembrano troppi». Poi fa appello alla chiosa del Vangelo secondo Matteo (3,15) per dire che l’umiltà non ha forse che tre gradi, molto più miti: 1. Sottomettersi ai superiori, senza preferirsi agli uguali; 2. Sottomettersi agli uguali, senza preferirsi agli inferiori; 3. Mettersi al di sotto degli inferiori: e allora si ha la totale giustizia. Infine si affida a sant’Agostino per ridurre questi tre gradi a uno solo, in realtà del tutto relativista: «La misura dell’umiltà per ciascuno deve essere la propria grandezza».
Cosa è successo? Furtivamente, facendo finta di niente (è quello che chiamiamo il suo «umorismo»), san Tommaso ha ridotto tutti i gradi di umiltà a uno solo, che egli rimanda alla sua stessa relatività, sdrammatizzando in questo modo radicalmente la questione. Una simile atmosfera di sdrammatizzazione è certo essenziale per pensare la nascita della discrezione, perché essere discreto è meraviglioso, saggio e giusto, e a contrario non è poi così grave essere a volte indiscreti, orgogliosi e vanitosi, dal momento che una cosa è condizione dell’altra. Ancora una volta una questione di moderazione rispetto alle piccole passioni.
Alla fine, non possiamo che ammirare, e di un’ammirazione senza riserva né ironia, il modo in cui Tommaso non fa della virtù dell’umiltà il sentimento di una relazione di sé con sé, come in Aristotele e nella maggior parte dei pensatori ebrei e cristiani, ma sostanzialmente il sentimento di una relazione di sé con l’altro, con la divinità dell’altro. In particolare, scrive: «Tuttavia uno può pensare che nel prossimo c’è del bene che egli non ha, oppure che in se stesso c’è del male che non si trova negli altri: e così può sempre mettersi [per umiltà] al di sotto del prossimo». Pensiero talmente straordinario che dobbiamo inchinarci: nell’umiltà non c’è in realtà alcuna umiliazione di sé, né psicologica, né sociale; non c’è che una percezione ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Introduzione
  3. La discrezione: virtù remota, greca o aristocratica?
  4. La discrezione, un’invenzione monoteista (schizzo di una genealogia)
  5. Modernità politica della discrezione
  6. Conclusione L’arte di scomparire
  7. Note
  8. Ringraziamenti
  9. Sommario