parte terza
Governance
7. Regalità
I re e le loro qualità
Governance e governo
Abbiamo dedicato la Parte terza al modo in cui l’impero era governato, mentre la Parte quarta esaminerà come la governance si rapportava agli sviluppi sociali. L’enfasi che poniamo su governance anziché su governo ha lo scopo preciso di superare le precedenti letture della politica imperiale come una serie di tentativi fallimentari di dare vita a uno Stato unitario: «governo» implica, infatti, uno Stato centralizzato e istituzionalizzato con una catena ben delineata di comando e responsabilità. La politica moderna si occupa in larga parte di stabilire chi controlla tali stati e quali linee debba seguire. «Governance» indica più comunemente la politica interna e l’autoregolamentazione, entrambe più vicine al modus operandi imperiale che prevedeva un sistema ampiamente inclusivo, basato più sul consenso che sul comando. Le prime pagine di questo capitolo spiegheranno il modo in cui si sceglievano i sovrani e le qualità che ci si aspettava da loro, quindi identificherà i loro assistenti principali e le risorse che avevano a disposizione. L’ultima parte ripercorrerà invece i principali sviluppi dai Carolingi ai Sali, aprendo così la rassegna per ordine cronologico che proseguirà lungo il Pieno e il Basso Medioevo nel capitolo 8 e fino alla prima età moderna sotto gli Asburgo nel capitolo 9.
La governance imperiale era programmatica perché si basava su ideali e obiettivi coerenti: tutti i re e gli imperatori (come nei governi moderni) dovevano reagire alle circostanze e improvvisare, ma non erano semplicemente alla mercé degli eventi: la differenza stava negli obiettivi che si ponevano. «Stato» e «nazione» non erano ancora concetti così ben delineati da poter rappresentare obiettivi politici mirati. Re e imperatori non erano costruttori di stati o nazioni, perché nessuno sentiva di doverne costruire. Ci si aspettava che i sovrani medievali costruissero chiese e cattedrali e, a parte questo, che facessero rispettare la pace, la giustizia e l’onore dell’impero. Avvenimenti mutevoli, come violenze, ribellioni o invasioni, non erano percepiti come «problemi» da «risolvere» con nuove leggi, istituzioni migliori o frontiere più solide. Molte delle incomprensioni che circondano la storia politica dell’impero nascono dal voler applicare aspettative anacronistiche al comportamento di chi lo governava, mentre per la maggior parte della sua esistenza la governance imperiale fu guidata dagli ideali prevalenti del buongoverno monarchico.
I poteri imperiali e reali non vennero mai definiti in modo esplicito. Fino al xii secolo si accettava che l’imperatore possedesse alcune prerogative esclusive (iura caesarea reservata) in gran parte legate a una migliore comprensione della sua posizione di signore feudale. Poteva poi esercitare i poteri supplementari a lui riservati (iura caesarea reservata limitata) con il consiglio dei feudatari maggiori, che si fecero più precisi a partire dalla metà del xiv secolo e comprendevano le dichiarazioni di guerra e il banno imperiale. Vi erano infine alcuni poteri condivisi (iura comitalia) definiti durante la riforma imperiale del xv secolo, ed erano appunto condivisi con tutti gli stati imperiali.1 Come mostreranno i capitoli successivi, questa graduale chiarificazione dell’impero come monarchia mista si evolveva di pari passo con ciò che ci si aspettava dalle autorità, più che dal desiderio dei principi di abbandonare l’impero.
I re ideali
Il tratto collettivo della governance si esprimeva soprattutto nel sistema con cui si sceglievano i re. L’elemento elettivo era combinato ad altre forme e sarebbe inesatto considerare il sovrano una sorta di presidente a vita, mentre i diretti interessati non esercitavano mai una scelta pienamente libera. Il numero di candidati era sempre ristretto a un gruppo selezionato considerato «cesarizzabile» e i criteri di scelta non furono mai specificati formalmente, ma è possibile estrapolarli dalle discussioni sui re ideali nelle cronache dei contemporanei, nelle vite dei santi, nei testi liturgici e nelle riflessioni sulla regalità dette «specchio dei principi» (Fürstenspiegel), diffuse in età carolingia e poi di nuovo a partire dal xii secolo.
Religione e morale sono il fulcro di questi testi, che in genere ricorrevano a esempi biblici come Mosè, Davide e Salomone,2 e, dal momento che prima del xv secolo la maggior parte degli autori apparteneva al clero, non c’è davvero di che sorprendersi. I re erano invitati a seguire i consigli degli ecclesiastici, a non abusare delle loro legittime prerogative e a dar prova di humilitas riconoscendo la propria mortalità e subordinazione al potere divino.3 L’umiltà mantenne la sua importanza fino a tutto il xiii secolo perché dimostrava la purezza delle intenzioni: il sovrano umile accettava le responsabilità del titolo reale come dovere verso Dio anziché per sete di potere. Enrico i fu detto l’Uccellatore perché, si diceva, dedicava più tempo a sistemare reti per la caccia agli uccelli che alla politica durante la sua elezione. Mostrarsi umili era un metodo efficace per segnalare che i rivali erano pericolosamente ansiosi di salire sul trono.
I chierici del ix e del x secolo sottolineavano spesso la purezza dell’indole intima della persona più dei successi materiali. Meglio un devoto «fallito» che un peccatore vittorioso, ma perfino un ecclesiastico come Tietmaro di Merseburgo si aspettava che i sovrani del x e dell’xi secolo ricorressero all’uso della forza e riteneva che l’astuzia e l’ira fossero legittime doti maschili, necessarie al successo politico.4 È possibile intuire veramente il punto di vista del laico prima del Basso Medioevo solo dall’approvazione o dall’opposizione che le azioni del sovrano incontravano di volta in volta. Le aspettative fondamentali rimanevano stabili: i re dovevano difendere la Chiesa, far rispettare la legge e uscire vittoriosi dal campo di battaglia. In ogni caso, la combinazione precisa di questi fattori variò secondo le epoche e i contemporanei si trovavano spesso in disaccordo sui metodi con cui i sovrani dovevano raggiungere questi obiettivi.5
Non era detto che tutti possedessero le qualità giuste fin dalla nascita. Il lignaggio restò sempre un elemento importante in tutta la storia dell’impero e spessissimo gli unici candidati papabili provenivano da quella che Tacito chiamava stirps regia, o stirpe regale. La parola tedesca moderna König (re) deriva dal più antico kunja, che indica tanto la consanguineità quanto il clan guerriero e il suo capo.6 Il legame di sangue vero o presunto fu importante in ogni transizione lungo la linea reale almeno fino al xiii secolo. I pretendenti rivali al di fuori di questa cerchia immediata dovevano ancora dimostrare di avere sangue reale. Il primo antiré eletto, Rodolfo di Svevia, era imparentato con l’ex famiglia reale di Borgogna e aveva prestato servizio sia come governatore di Borgogna, sia come duca di Svevia dal 1057. La sua prima moglie fu Matilde, sorella di Enrico iv, e la seconda, Adelaide di Savoia, era anch’essa di sangue reale. L’antiré successivo, Ermanno di Salm, inaugurò la prima successione di conti di Lussemburgo (estinta nel 1198) e di conseguenza era nipote dell’imperatrice Cunegonda, moglie di Enrico ii, nonché imparentato con gli Ottoni e, alla lontana, con i Sali. Tutte queste parentele ne fecero un candidato di compromesso ideale contro Enrico iv nel 1081, ma i suoi insuccessi bellici non tardarono a privarlo di sostenitori.7
I legami reali ideali restavano quelli con i Carolingi, in primis Carlo Magno. Berengario ii e il figlio Adalberto rivendicarono ascendenze carolinge mentre si opponevano alle manovre di conquista di Ottone i in Italia negli anni cinquanta del x secolo. I legami con Carlo Magno conservarono importanza fino al xvi secolo, epoca in cui gli apologeti reali inserivano i sovrani dell’impero in una linea ininterrotta che passava dagli imperatori dell’antica Roma fino a raggiungere i troiani.
Il lignaggio raccoglieva in s...