Roma, il Papa, il Re. L'unità d'Italia e il crollo dello Stato Pontificio
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Roma, il Papa, il Re. L'unità d'Italia e il crollo dello Stato Pontificio

  1. 480 pagine
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Roma, il Papa, il Re. L'unità d'Italia e il crollo dello Stato Pontificio

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Messa spesso in ombra da vicende più eclatanti - una su tutte, l'impresa dei Mille di Garibaldi - la storia di Roma e dello Stato Romano alla metà dell'Ottocento è poco nota al grande pubblico. È invece uno snodo cruciale: fra il 1859 e il '60 lo Stato Pontificio cade come un castello di carte. È finito di fatto il potere temporale del papa, l'Italia è fatta e Roma attende di conoscere il suo destino. Come già in "Storia avventurosa della Rivoluzione romana", di cui questo libro costituisce il seguito, Tomassini racconta la storia della capitale mescolando i vizi e le virtù del clero, le ironie e le ire del popolo ai pensieri e alle azioni di Vittorio Emanuele e Pio IX, Cavour e Napoleone III, Garibaldi e Mazzini: tutti i grandi protagonisti del Risorgimento.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788865760864
Argomento
History
Categoria
World History
SECONDA PARTE
La partita
Una vacanza, un matrimonio, una guerra
Erano passati dieci anni dal grande incendio dell’Europa. Era sembrato che tutto si fosse calmato, tornato in ordine: era trascorso un tempo piuttosto lungo, forse tedioso, magari rassicurante, certo molto più lento di quello che lo aveva preceduto. Ora, però, tutto, di nuovo, stava per cambiare. E il tempo riprendeva a correre.
L’attentato di Orsini aveva fatto gravi danni anche politici in Francia: il regime autoritario si stava trasformando in regime di polizia. I rapporti con gli stati confinanti, tutti accusati di troppa benevolenza verso i rifugiati politici e di eccessiva libertà di stampa, si erano fatti molto tesi. Napoleone III aveva imposto un irrigidimento alla Svizzera e al Belgio. Aveva provato con più grazia, ma molto maldestramente, a fare la stessa cosa con l’Inghilterra, provocandovi una crisi di governo e la più grossa manifestazione antifrancese che si fosse vista a Londra dai tempi dello zio. Con il Piemonte le cose andarono in maniera diversa e molto curiosa. Il ministro degli Esteri Walewski, che fino allora aveva più che altro subìto la politica italofila dell’imperatore, poteva finalmente sfogarsi a trasmettere le sue richieste draconiane al governo di Torino: misure di polizia severe, chiusura della stampa rivoluzionaria, stretto controllo dei rifugiati politici ed espulsione dei più turbolenti. Cavour aveva tutta la volontà di compiacere l’importante alleato, ma non poteva mandare in malora lo Statuto. I rapporti fra Parigi e Torino erano a una svolta drammatica, resa più difficile dal cattivo carattere del nuovo ambasciatore francese Henri Godefroy Bernard de La Tour d’Auvergne, che aveva preso il posto di Antoine Alfred Agénor de Bidache de Gramont, mandato a Roma a sostituire Rayneval. La Tour d’Auvergne non era simpatico: «C’est un triste sire» diceva di lui Cavour, e Vittorio Emanuele, che era più diretto, lo definiva semplicemente «lo scellerato». Proprio il carattere diretto del re, unito all’ingegno del presidente del Consiglio, contribuì in quelle settimane a superare la crisi. Vittorio Emanuele, che verso la fine di gennaio aveva spedito a Parigi con un suo messaggio personale l’aiutante di campo Enrico Morozzo della Rocca, fu molto irritato dalla relazione che questi gli aveva fatto del colloquio avuto con Napoleone III. L’imperatore aveva detto al generale che non comprendeva perché il Piemonte non desse soddisfazione alle sue richieste: che cosa sperava il Piemonte? di poter fare senza di lui? credeva davvero di poter ricevere aiuto dall’Inghilterra? Con questo atteggiamento il Regno di Sardegna rischiava di costringere la Francia a riavvicinarsi all’Austria e lui, l’imperatore dei francesi, a rinunciare al suo più vivo desiderio, che era quello di lavorare alla felicità e all’indipendenza dell’Italia. Vittorio Emanuele, forse con la consulenza dello stesso Cavour, riprese carta e penna per scrivere una lettera indirizzata al generale Morozzo della Rocca, ma destinata a essere almeno vista da Napoleone III. «Dite all’Imperatore nei termini che credete migliori» scriveva il re al generale «che non si tratta così un fedele alleato. Che io non ho mai sopportato violenze da nessuno. Che io seguo la via dell’onore sempre senza macchie, e che di quest’onore non rispondo che a Dio e al mio popolo.» Poi aggiungeva: «Sono ottocentocinquanta anni che portiamo la testa alta e nessuno me la farà abbassare e, con tutto ciò, non desidero altro che essere il suo amico».
Napoleone III scorse la lettera e qua e là forse ne trasse anche divertimento, considerato che le istruzioni a Morozzo della Rocca erano accompagnate dalla raccomandazione: «[…] non fate l’imbecille, caro generale». Ci si può immaginare l’imperatore che in silenzio legge la lettera e il generale piemontese che in silenzio ne attende l’esito. Napoleone la restituisce a Morozzo e magari per qualche istante il silenzio continua, con tutte le minacce che può contenere. Finalmente si scioglie e l’imperatore dice: «Ecco ciò che si chiama avere coraggio. Il vostro re è un valoroso: mi piace la sua risposta. Scrivetegli subito; tranquillizzatelo sulle mie intenzioni; esprimetegli il mio dispiacere di avergli causato pena».
Pochi mesi dopo, alla fine di maggio del 1858, arrivava a Torino il dottor Henry Conneau, medico personale di Napoleone III e soprattutto suo vecchio e fedele amico: portava a Cavour l’invito dell’imperatore a raggiungerlo nella stazione termale di Plombières, nei Vosgi. Il 2 giugno Cavour scriveva all’ambasciatore sardo a Parigi Salvatore Pes di Villamarina:
Mio caro Marchese,
ho visto il dottor Conneau al suo passaggio a Torino. Mi ha detto cose molto gentili da parte dell’Imperatore. Sembra che le spiacevoli impressioni prodotte dagli eventi dell’anno scorso e aggravate dai buoni uffici dei nostri amici si siano interamente cancellate. Da qualche parola che il dottore mi ha detto ho potuto pensare che l’Imperatore non sarebbe dispiaciuto di discutere con me dello stato dell’Italia. Mi ha ripetuto che l’Imperatore, andando a passare un mese a Plombières, si ritroverebbe per quel tempo più vicino alla nostra frontiera.
È un errore geografico che non diminuisce la portata dell’allusione politica. Gli ho detto che per parte mia contavo di andare a riposarmi qualche settimana in Svizzera, e che se avessi qualche giorno disponibile, sarei ben felice d’impiegarlo a fare una visita all’Imperatore. È probabile che il dottore scriverà della nostra conversazione a Parigi e che in seguito l’Imperatore v’incaricherà di farmi sapere le sue intenzioni. Comprendete che è della più grande importanza che né Walewski né alcuna altra persona sospetti di ciò che si è concordato fra il dottore e me.
Si era aperto un canale diretto di comunicazione, che lasciava da parte Walewski. A questo punto ci si può certo chiedere cosa mantenesse Napoleone III così fedele al proposito di «fare qualcosa per l’Italia». Abbiamo già visto come l’attentato di Orsini e dei suoi complici avesse alla fine prodotto l’effetto, abbastanza inaspettato, di legare ancor più l’imperatore dei francesi alla causa italiana. «Dopo l’episodio del processo Orsini e della famosa lettera che il terrorista scrisse all’Imperatore per esortarlo a pensare all’Italia» ha scritto Francesco Cognasso «nell’animo di Napoleone III avvenne la misteriosa crisi spirituale da cui uscì la decisione di intervenire in Italia.» Il mistero di una «crisi spirituale» non si può certo di per sé negare, ma a ridurre il margine di questo mistero possono intervenire alcuni altri elementi che pure vanno considerati. Il primo è nella stessa biografia dell’imperatore: il figlio di Luigi Bonaparte è stato in gioventù carbonaro, ha partecipato, poco più che ventenne, all’insurrezione della Romagna, e si è legato d’amicizia con alcuni patrioti italiani, in modo speciale con il conte Francesco Arese di Milano. Ogni statista, ma anche ogni politico di qualche importanza, cerca di dare alla propria vita un carattere di continuità, di coerenza, un senso compiuto insomma. L’impresa non è sempre facile – e molte volte per Napoleone è stata difficilissima o impossibile, come nel 1849, quando ha dato l’ordine all’esercito francese di spegnere la Repubblica Romana – ma l’idea di una compiutezza dell’azione svolta e da svolgere resta un obiettivo reale e a volte molto potente. Nel 1858-59 il caso è questo. Parlando poi di sentimenti come l’amicizia, non se ne devono del tutto trascurare altri che possono influire altrettanto e, a momenti, anche di più. Quanto possa aver contribuito Virginia Oldoini, contessa di Castiglione, a tener viva la causa italiana nel cuore del suo augusto amante è cosa davvero difficile da mettere in numeri. Il fascino di quella donna è fuori discussione. Come è indiscusso, per altro, che Virginia aveva dovuto lasciare Parigi dopo che Napoleone era stato aggredito da tre maldestri attentatori, proprio mentre usciva dalla casa dell’amante il 2 aprile del 1857. La passione forse rimaneva intatta, ma il rapporto si era incrinato. Diversi altri elementi da considerare sono quelli che si legano appunto agli attentati subiti dall’imperatore, quello non riuscito e forse perfino finto del 2 aprile 1857, quello tragico del 14 gennaio 1858 e diversi altri. Un po’, va bene, si può ammettere la «crisi spirituale» nata con la lettera di Orsini, un po’, e forse più, bisogna ammettere l’affermazione progressiva di un’idea nella mente di Napoleone III: l’idea che la questione italiana, non portata a soluzione, sarebbe stata fonte continua di disordine in Europa e di pericolo imminente per la sua stessa vita. Era, d’altronde, ciò che Orsini gli aveva suggerito nella lettera e che Cavour e Vittorio Emanuele II non si stancavano di ripetergli. L’ultimo elemento, ma con tutta probabilità il più importante, è l’interesse diretto, materiale, che la Francia trovava nell’impresa italiana: un interesse che si chiarisce subito se andiamo a occuparci dei colloqui che l’imperatore ebbe a Plombières con il presidente del Consiglio piemontese.
Alla fine di giugno Napoleone lasciò Parigi per la programmata vacanza nella stazione termale. Domenica 11 luglio Cavour, terminata la sessione parlamentare, lasciò Torino: le prime tappe furono Bardonecchia e Modane, per un sopralluogo ai lavori del traforo del Fréjus, e poi Chambéry e Ginevra. Dalla città svizzera il 14 scriveva ad Alfonso La Marmora di aver avuto la conferma dell’invito a Plombières: «Il dramma s’approssima alla soluzione. Prega il cielo d’ispirarmi onde non faccia minchionerie in questo supremo momento. Ad onta della mia petulanza e dell’ordinaria mia fiducia in me medesimo, non sono senza grave inquietudine». A confortarlo pensarono qualche giorno dopo, il 17, i liberali ginevrini che gli fecero una serenata davanti all’albergo in cui era sceso e che stava per lasciare alla volta di Basilea. Martedì 20 luglio Cavour era a Plombières.
Il giorno dopo, mercoledì 21 luglio, alle 11 di mattina, cominciavano i colloqui che, con la sola interruzione di un’ora, dalle 15 alle 16, e con un cambio di scena, dallo studio dell’imperatore al mattino ai boschi e radure dei Vosgi percorsi in carrozza scoperta nel pomeriggio, sarebbero andati avanti per tutta la giornata. I contenuti sono noti grazie alla relazione, quasi un resoconto stenografico, che tre giorni dopo, il 24 luglio, Cavour fece in una lunga lettera scritta a Vittorio Emanuele II da Baden Baden. Dal suo racconto salta agli occhi che l’imperatore e il ministro sembravano fatti per intendersi: poco amanti dei giri di parole e pragmatici al massimo grado, tanto da sfiorare spesso il cinismo senza però abbandonarvisi, perché entrambi alla fine erano sorretti da pensieri alti, da disegni grandi; pensieri e disegni non in tutto coincidenti, è vero, ma abbastanza interessanti da incontrarsi. Senza giri di parole, appunto, Napoleone III disse subito a Cavour che era deciso ad appoggiare il Regno di Sardegna con tutte le sue forze. Poneva solo una condizione: «[…] che la guerra sia intrapresa per una causa non rivoluzionaria, che possa essere giustificata agli occhi della diplomazia e più ancora dell’opinione pubblica in Europa e in Francia». Dai tempi del Congresso di Parigi questo era il refrain di Cavour, che aveva sempre spiegato che la questione italiana andava risolta non per portare la rivoluzione in Europa, ma al contrario per garantirne l’ordine e la stabilità.
Confermati questi buoni propositi, i due dovettero passare in rassegna i diversi motivi che potevano giustificare un conflitto con l’Austria. Cavour provò qualche scorciatoia: il mancato rispetto da parte di Vienna degli accordi commerciali col Piemonte, l’estensione illegittima della potenza austriaca in Italia, l’occupazione prolungata di molte province dello Stato Pontificio. L’imperatore continuava a scuotere la testa e, quanto all’ultimo punto citato da Cavour, francamente gli obiettò: «Finché le nostre truppe sono a Roma, non posso certo esigere che l’Austria ritiri le sue da Ancona e da Bologna». Il conte dovette essere assalito dal timore che la trattativa a quel punto fosse già finita. Avrebbe poi scritto al re:
La mia posizione diveniva imbarazzante, perché non avevo più nulla di ben definito da proporre. L’Imperatore venne in mio aiuto, e ci mettemmo insieme a percorrere tutti gli Stati dell’Italia, per cercarvi questa causa di guerra così difficile da trovare. Dopo aver viaggiato per tutta la Penisola senza successo, arrivammo quasi senza accorgercene a Massa e Carrara, e là scoprimmo ciò che cercavamo con tanto ardore. Avendo fatto all’Imperatore una descrizione esatta di quel disgraziato paese, di cui egli aveva d’altronde un’idea abbastanza precisa, convenimmo che si provocherebbe un indirizzo degli abitanti a V. M. per chiedere la protezione e reclamare anche l’annessione di questi Ducati alla Sardegna. V. M. non accetterebbe la dedizione proposta, ma, prendendo la difesa delle popolazioni oppresse, indirizzerebbe al Duca di Modena una nota altera e minacciosa. Il Duca, forte dell’appoggio dell’Austria, risponderebbe in maniera impertinente. A quel punto V. M. farebbe occupare Massa, e la guerra comincerebbe. Siccome sarebbe il Duca di Modena che ne sarebbe la causa, l’Imperatore pensa che [la guerra] sarebbe popolare non solo in Francia, ma anche in Inghilterra, e nel resto dell’Europa, visto che questo Principe è, a torto o a ragione, considerato come il capro espiatorio del dispotismo. D’altra parte, non avendo il Duca di Modena riconosciuto nessuno dei sovrani che hanno regnato in Francia dopo il 1830, l’Imperatore ha meno riguardi da osservare verso di lui che verso qualsiasi altro Principe.
Le cose non sarebbero poi andate esattamente così, ma, insomma, l’aver trovato, dopo aver tanto girato sulla carta dell’Italia, un campione del dispotismo, amico giurato dell’Austria, Francesco V d’Asburgo-Este, a un passo dalla Spezia, aveva confermato a Napoleone e Cavour che la gran macchina poteva mettersi in moto e, con un po’ di fortuna propria e d’insipienza altrui, si sarebbe avuta la guerra voluta da entrambi. Ora bisognava parlare della macchina. «Prima di andare oltre» disse l’imperatore «bisogna pensare a due gravi difficoltà che incontreremo in Italia: il papa e il re di Napoli. Devo trattarli con riguardo: il primo per non sollevarmi contro i cattolici in Francia, il secondo per conservarci le simpatie della Russia, che si fa una specie di punto d’onore a proteggere Re Ferdinando.» Gli rispose Cavour: «Quanto al papa Vostra Maestà non avrà certo difficoltà a conservargli il tranquillo possesso di Roma, grazie alla guarnigione francese che vi è da tempo stabilita. Salvo lasciare» aggiunse subito «che le Romagne possano insorgere. Il papa non ha voluto seguire i consigli che gli avete dato al riguardo, Vostra Maestà non troverà dunque cattivo che quelle contrade approfittino della prima occasione favorevole per liberarsi d’un detestabile sistema di governo che la corte di Roma si è ostinata a non riformare. Quanto poi al re di Napoli, non c’è bisogno che ci occupiamo di lui, a meno che non voglia prendere partito per l’Austria. Dovremmo tuttavia lasciar fare ai suoi sudditi se, approfittando del momento, si sbarazzassero della sua paterna dominazione».
Era un colloquio privato e si poteva parlare con libertà: questo non escludeva certo che i due interlocutori mantenessero un certo grado di riserva, di circospezione. Cavour dovette essere quasi sorpreso, quando si sentì dire dall’imperatore che l’obiettivo della guerra non poteva essere che uno: cacciare gli austriaci fuori dell’Italia, non lasciar loro un solo palmo di terra al di qua delle Alpi e dell’Isonzo. Raggiunto quell’obiettivo, che cosa si sarebbe fatto dell’Italia? Anche qui le idee sembravano coincidere, anche se, lì per lì, non si sarebbe potuto misurarle precisamente sulla carta della penisola. Al Nord, esteso fino all’Adriatico, ci sarebbe stato il nuovo Regno di Vittorio Emanuele, poi un Regno dell’Italia centrale che avrebbe avuto per capitale Firenze, uno Stato Pontificio ridotto al territorio attorno a Roma, e un Regno dell’Italia meridionale corrispondente in via di principio ai confini del Regno delle Due Sicilie. «In via di principio» – en principe si dice in francese, che era certamente la lingua della conversazione – dovette essere un’espressione molto usata dall’imperatore e dal ministro, che sapevano bene quanto tutto quello che dicevano fosse soggetto a variazioni, sia da loro impreviste e imprevedibili, sia pensate ma ancora lontane dal dover esser dichiarate. Erano come due compagni di briscola, che non sempre si mostravano le carte. Cavour fece vedere una carta a Napoleone: una regina che si sarebbe potuta giocare per il Regno dell’Italia centrale, nel caso ritenuto molto probabile e d’altronde già verificato nel 1849, che il buon Leopoldo abbandonasse Firenze ai primi lampi del temporale. Maria Luisa di Borbone, duchessa reggente di Parma e Piacenza, poteva regnare sulla Toscana, l’Umbria e le Marche. Napoleone fece mostra di apprezzare l’idea del presidente del Consiglio sardo: non chiedeva di meglio – spiegò – che dimostrare di non aver interesse a perseguitare i Borbone di Francia, la famiglia alla quale Maria Luisa apparteneva. L’imperatore si tenne in mano l’altra carta, che teneva in serbo per un’altra partita: il cugino Girolamo, noto anche come principe Napoleone o più semplicemente Plon Plon. Di lui si sarebbe parlato più tardi. Se, come suggeriva Cavour, era possibile che il granduca Leopoldo II scappasse a Vienna, non era improbabile che Ferdinando II fosse costretto a lasciare Napoli. Giurerei quasi che i due interlocutori si trovassero in quel momento d’accordo nel riconoscere che il pover’uomo le stava sbagliando proprio tutte. Con chi sostituirlo, nel caso che ciò si rendesse necessario? Qui fu il turno dell’imperatore di mostrare un re al compagno: Napoleone Luciano Carlo, principe Murat, figlio del grande Gioacchino. Era da qualche anno che rivendicava il trono di Napoli, così dimostrando che tutti i legittimismi sono legittimi. Il fatto che il cugino lo esibisse così in apertura di partita era forse il segno che non sarebbe entrato nel gioco.
Non m’intendo molto di carte, e non so se la br...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. PRIMA PARTE. IL BENE E IL MALE
  3. SECONDA PARTE. LA PARTITA
  4. Nota
  5. APPENDICI
  6. Immagini