L'ultima Londra
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L'ultima Londra

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«Londra era, ma non è più.» Una pressione centrifuga l'ha fatta esplodere fino a invadere il Sud dell'Inghilterra, tanto che è quasi impossibile stabilire dove cominci e dove abbia fine. Londra è ovunque, è sfruttata e sfruttatrice, è multiculturale, ha fretta ma non sa dove andare. È un museo per turisti in cui un graffito di Banksy viene ricoperto entro poche ore da un plexiglass protettivo. La abitano cittadini stregati dagli smartphone e ciclisti che non hanno tempo di evitare i pedoni. La sconfitta della sua architettura la trascina lontano da sé, verso Dubai, Singapore o in un diverso, anonimo altrove. Qui, come a Madrid, Vancouver e Guadalajara, c'è sempre la vetrina di un McDonald's, e lì di fronte un uomo che cerca di dormire sotto una coperta. Londra sta per scomparire.La Londra di Iain Sinclair, fantasmagoria di miraggi e reliquie, è il compendio di ogni metropoli, emblematica come la città di fumo e fango raccontata da Dickens. È un avamposto del futuro che assomiglia a una nave da crociera alla deriva: la deriva della Brexit, dei cartelli leave come sintomo di una fuga da sé. L'ultima Londra è il regesto letterario di un vagabondaggio tra ospedali notturni, vestigia di tunnel segreti e opulente piscine difese da elicotteri di sorveglianza. Con humour nero e profonda empatia, Sinclair descrive incontri con un'ostinata umanità che bazzica i margini, fatta di santoni e senzatetto, di uomini immobili sulle panchine di un parco come Buddha vegetativi, di artiste che scattano fotografie a gomme da masticare abbandonate sull'asfalto.Scrittore, flâneur e psicogeografo, Iain Sinclair si muove a piedi per la città armato di taccuino, prendendo appunti da una cancellazione. Come un archeologo di fronte alle rovine, indica l'utopia fallita del villaggio olimpico e l'estuario fangoso del Tamigi, una finis terrae presidiata da cani che corrono e cagano sulla sabbia. Il suo è un viaggio sciamanico verso le origini dei luoghi, alla ricerca di una direzione smarrita. L'ultima Londra è un romanzo, perché ogni romanzo è l'esperienza di un fallimento. È letteratura, perché affonda negli interstizi tra il presente e il presente che verrà. È un antidoto a un luogo in cui anche chi vive da regolare si sente un migrante clandestino.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788865766842
Camminare
La via lattea (fino a Croydon)
Possiamo camminare tra due luoghi e così facendo stabilire tra essi un legame, un contatto affettuoso, come presentassimo l’uno all’altro due amici.
Thomas A. Clark
Forse era così, ma temeva di no. Ambiguità della distanza e memoria fallibile. I libri giusti nel contenitore sbagliato? Di sicuro era giusto lo zaino. Era stato Stephen a darmi quella storia. E ormai la foto a pagina 55 del tascabile di Austerlitz edizione Penguin era qualcosa di simile a un’icona. «Segno o simbolo che per rassomiglianza o analogia rappresenta un oggetto.» A una reliquia venerata. Santificata dalla sua stessa biografia, dai pellegrinaggi per l’Europa, dai viaggi che non aveva fatto e non avrebbe fatto mai attraverso le Alpi, dall’Italia alla Germania; una leggenda confermata o infiocchettata sulla pagina, fino al momento del suo acquisto a Charing Cross Road, in un negozio che non c’è più. La connessione del tempo che fu tra librerie di nuovo e usato e i fornitori di zaini e mantelle era congeniale. Chi veniva prima, il contenitore di tela o i libri che lo avrebbero riempito? Alla fine, disse Stephen, dopo tanti anni di fedele servizio e dopo la sua apparizione, illeso, dentro Austerlitz, lo zaino era stato rovinato dai libri.
Stephen Watts, poeta e traduttore, era tornato dalla Lituania alla stazione di Liverpool Street a bordo dello Stansted Express, dove gli avevano controllato i documenti e ispezionato il bagaglio. La stazione era la stessa da dove eravamo partiti la prima volta per Whitechapel e Mile End, e dove in altri tempi aspettava di veder scendere Sebald dal treno di Norwich per inaugurare l’ennesima delle spedizioni sconclusionate che permeavano e animavano il romanzo in corso. Trattenuto dalla barriera, aveva cercato di trascinare a forza lo zaino oltre il cieco ostacolo meccanico strappandone uno spallaccio. La Lituania era stata una miniera di poesia e racconti popolari, cibo e sostanza per progetti futuri. Stephen aveva riempito la sacca al massimo: esplose, tracimò. Non la si sarebbe più potuta appendere, come in Austerlitz, a un gancio sulla parete dei Toynbee Studios di Commercial Street. Lo zaino post-Lituania, quello che avevo fotografato nel cimitero ebraico di Alderney Road, era riparato con uno spago spesso, da pastore, annodato intorno alla fascetta di cuoio imbottita. Lo spago era bianco come il latte, sembrava intrecciato con le ciocche dei capelli sciolti di Stephen. Lo zaino era diventato sia la sua rappresentazione immortalata sia un oggetto concreto. Ma era ancora in servizio, ancora sfruttato in altre storie. Sulla fascetta rammendata i segni dei viaggi, del nomadismo compulsivo.
La fotografia della grotta del bibliofilo a pagina 43 di Austerlitz non era, come invece avevo ipotizzato, il laboratorio/biblioteca di Stephen Watts, il suo nido ai Toynbee Studios. Nel suo memoriale-spedizione On Brick Lane, Rachel Lichtenstein chiama il nascondiglio di Stephen «ufficio». Un ufficio in equilibrio precario sull’abisso della povertà. La cella di un erudito mendicante puntellata da colonne di libri, cartelle di ricerca, saggi messi da parte, poemi epici in corso di stesura, traduzioni che riportano in vita voci di migrazione, brevi apparizioni angeliche. «Perché non vendi un po’ di libri?» chiede Lichtenstein. Vede l’orrore sul volto di Stephen. «Sembrava persino più magro del solito, ed esausto.» Alla loro conversazione in un ristorantino indiano del quartiere assistono fantasmi familiari. Il poeta yiddish Avram Stencl. Lo storico e insegnante Bill Fishman. E naturalmente Sebald, «morto da poco». Si trasferiscono nell’ufficio di Stephen. Su scalini stanchi, Rachel segue Stephen con l’idea di scoprire una camera infestata come il solaio del recluso David Rodinsky sopra la sinagoga di Princelet Street (oggi Museo dell’immigrazione). «Pareti intere di libri, migliaia di volumi, anche di poesia in lingue straniere. Il pavimento brulica di bucce d’arancia, bustine di tè, torri di bicchieri di polistirolo e cialde del caffè, che Stephen considera girasoli. Nel disordine generale è sparpagliata una collezione in crescita costante di sassi, ossa e pezzi di legno logoro racimolati nelle sue tante escursioni. […] Da qualche parte, sepolto al centro di tutto questo, c’è il vetusto computer sul quale Stephen scrive e lavora.»
Gli elementi sono generici. Si trovano nell’istantanea che Sebald posiziona in Austerlitz, dove la stanza vuota è circondata da un congeniale bordo di parole. Rapporti di sorveglianza sulla verità. Stephen, dubbioso, collocava la foto dell’ufficio nella University of East Anglia di Norwich, l’antro dello studioso tedesco. Ma non ci avrebbe giurato.
«Di solito passavo qualche ora seduto in quella angusta stanza, che sembrava piuttosto un deposito di libri e carte e nella quale, tra i plichi accatastati sul pavimento e davanti agli scaffali sovraccarichi, non c’era quasi più posto né per lui né tanto meno per l’allievo» scrive Sebald. Evoca il rifugio di Stephen o forse il proprio e costringe entrambi, insieme al lettore abbindolato dalla storia, all’ispezione ravvicinata della foto la quale, poiché è così immobile nel tempo, serve ad ancorare la messinscena della fantasia. È come una finestra, oscurata, su un passato che non si è mai davvero manifestato.
Ma Stephen non si poteva localizzare. Dal 2016, quando aveva pubblicato Republic of Dogs/Republic of Birds, era sparito dalla circolazione. Avevamo i nostri rituali e di tanto in tanto le nostre strade si incrociavano. È rischioso, e io lo sapevo bene, risuscitare manoscritti abbandonati, libri che a un certo punto del loro viaggio hanno deciso di non permettere che li si completasse o pubblicasse. La poesia in prosa, tesa tra il doppio punto focale di North Uist nelle Ebridi Esterne, le Isole Occidentali di inizio anni settanta, e la Isle of Dogs pre-Docklands alla fine del decennio, fonda un campo di forza instabile e perciò seducente. Flashback. Insulti eidetici. Il ritrovamento di un testo composto a fine anni ottanta e considerato perso fino al 2012, tradotto su portatile nel 2013 e infine pubblicato da Test Centre, l’editore indipendente di Hackney.
È sulla mia scrivania. Lo maneggio. Libro visibile, poeta cancellato. «Non c’è limite di questa città che si allunghi fino al mare.» Stephen inneggia alla migrazione, al flusso della transumanza con il cambio delle stagioni, dal pascolo montano alla valle del fiume. Quella storia di insediamenti feriti, primi respiri, riabilitazione e recupero gli fa trovare il suo posto a Whitechapel, oltre le mura reali o immaginarie della città consolidata. Dove i soldi non smettono mai di premere sulla barriera, affamati d’altro, d’altro ancora e poi di tutto.
Avevamo pianificato un’escursione da Shadwell, dove per trentacinque anni Stephen aveva abitato in una casa popolare, fino a West Croydon, capolinea dello sperone meridionale della London Overground. Una scala di ferro lungo la quale nel 2011, spinto dalla comunicazione digitale, era sceso il fuoco delle sommosse. A West Croydon, emergente città di torri, il nonno materno di Stephen, Sebastian Longhi, aveva venduto caffè e gelati in una bottega davanti alla stazione. A Stephen piaceva pensare che fosse stata una risorsa democratica, un posto dove mettersi comodi, bere un caffè come si deve, parlare dei fatti del giorno. Molto simile al baretto vicino al Tamigi, vicino a una scalinata che portava alla battigia, dove nelle belle giornate Stephen andava ad aprire le e-mail, leggere e lavorare. Una seccatura che preferiva tenere lontana da casa. In questo intervallo di ritiro e rêverie, prima degli impegni e delle collisioni quotidiane, il poeta guardava i cormorani: che, appollaiati su treppiedi e ormeggi marci, facevano la guardia «ai docks morti». Cercava di ricordare cos’aveva scritto un certo russo. «Le graminacee nelle strade di città erano i primi germogli di ciò che avrebbe finito per coprire anche gli interstizi dello spazio contemporaneo.» In tasca aveva un manualetto sul rogo dei libri, «l’incendio delle biblioteche della Repubblica». Le foglie secche delle biblioteche del mondo raccolte in una capannuccia di Spitalfields. Corrispondenza. Versioni dal gaelico irlandese, dall’ungherese, dal russo, dall’islandese. «Archeologia viva della mia bocca.» Stephen era il vero custode, l’ultimo testimone.
In quegli ultimi anni avevano spesso ipotizzato un’escursione dal paese del nonno di Stephen, in Italia, oltre le montagne e fino al paese di Sebald in Germania. Avevano studiato cartine e tracciato percorsi, segnato baite dove fermarsi a dormire. Le poesie non scritte e i libri potenziali incombevano e artigliavano come uccelli nella stanza. «Praticare un taglio nelle Alpi / o un taglio nel cervello di un ghiacciaio» lo definiva Stephen in una poesia in memoria dell’amico. «Da Precasaglio / in Alta Val Camonica fino a Wertach nell’Allgäu.» Cammina in circolo nell’ufficio pieno, arranca e geme, ode Sebald parlare con il suo profondo brontolio bavarese: «Tornano sempre a noi, i morti».
La camminata la farà da solo, spera il poeta. Ma non sarà più la camminata. Le parole le farà da solo.
Stephen si proteggeva, trattava le reti di comunicazione elettroniche con sospetto, maneggiava il traffico delle e-mail con metaforici guanti. Perciò girava voce, e i suoi editori lo confermavano, che non fosse un uomo facile da trovare. Le mie e-mail rimasero senza risposta. Il poeta, che ci si poteva aspettare di veder comparire attento e sospeso alle letture, alle conferenze, alle proiezioni di film indipendenti, non c’era. Non stava bene. Aveva avuto a malapena la forza di raggiungere Cable Street per la presentazione del suo libro al Wilton’s Music Hall. Aveva donato sangue o midollo osseo o organi a un parente, si diceva. C’era stata una terribile tragedia familiare. Non era il momento di baloccarsi con l’idea di un’escursione fino a West Croydon lungo la Ginger Line.
Il difficile era che l’identità di Stephen si era in qualche modo fusa con quella del personaggio di Sebald in Austerlitz. «Con lui era praticamente impossibile affrontare argomenti personali e nessuno dei due sapeva da dove venisse l’altro. […] Stringeva così forte la consunta custodia degli occhiali, da lui solitamente tenuta nella sinistra, che si vedeva trapelare il bianco sotto la pelle delle nocche.» Aveva attraversato la Isle of Dogs insieme a Max fino al tunnel pedonale di Greenwich? Oppure ne aveva scritto il nitido resoconto in base a qualcosa che gli avevo detto io? Stephen se l’era dimenticato. E poi c’era la versione prodotta da Rachel Lichtenstein per On Brick Lane. Stephen Watts come santo laico, tormentato in mezzo a una zavorra di libri. Alle poesie in attesa di traduzione. «C’è una marea di suoni e memoria che inonda quella via.» Nel suo ritratto, scattato da Rachel, Stephen sorride.
Un pomeriggio andai a Whitechapel a vedere se Stephen era passato nel suo ufficio. Ma Whitechapel non c’era più. A parte una tragica facciata messa in piedi a mo’ di citazione beffarda, l’intero lato meridionale del mercato di Spitalfields era sparito. Polvere. Sabbia. Lo sentivi in bocca fino a Hanbury Street. E senza più il birrificio ad annegare il dolore. I turisti del patrimonio storico, i saprofagi modaioli, le eccedenze della City occupavano i marciapiede stretti, pozzanghere di rumore e chiacchiere da marmocchi. La lastra di cemento del parcheggio multipiano in costruzione a White’s Row nel luogo dell’ultimo omicidio dello Squartatore era un gorgo da incubo di olio e sporcizia. Ma questo orizzonte libero da intralci, con la Christ Church di Hawksmoor sullo sfondo, non si vedeva da generazioni. E presto sarebbe stato obliterato dall’ultimo affondo di torri ambiziose. La spianata di macerie era già cordonata da una recinzione verde pronta a ospitare promesse in computergrafica e slogan ottimisti. Toynbee Hall rientrava nel dilavamento glaciale, pozzo, upgrade distruttivo.
Per miracolo, gli studi sul lato erano ancora attivi. Temevo che avessero spazzato via il mito di Stephen insieme ai vecchi mattoni. Aveva la forza di volontà necessaria a fare buon uso di questi ultimi insulti e trarne vantaggio? Gli lasciai una lettera con lo stesso ottimismo di chi infila il foglio in bottiglia e la getta in mare. Un paio di settimane dopo, ebbi risposta. «Sono appena tornato dalla campagna rumena […] ma apprezzo la tua sensibilità e la matita.» Fissammo una data. Posticipammo. Ne fissammo un’altra. Appuntamento alla stazione di Shadwell il 24 ottobre alle 8 del mattino.
In anticipo di mezz’ora, un mattino fresco e corroborante, giravo lento in tondo per orientarmi e notai Stephen, caduto dal letto caldo, capelli fluenti, deciso a non crollare mentre si affrettava in cerca di caffè sulla via cultura...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Perdere
  4. Trovare
  5. Camminare
  6. Ringraziamenti