Sovrane. L'autorità femminile al governo
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Sovrane. L'autorità femminile al governo

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Il patriarcato sembra ormai tramontare come forma di dominio sulla mente e sul corpo delle donne, che ovunque nel mondo fanno rete, inventano forme di lotta, denunciano prevaricazioni e violenze. Eppure le istituzioni politiche, culturali e religiose sono ancora largamente dominate da logiche monosessuate e da una misoginia spesso inconsapevole. Nessuna riforma istituzionale può essere efficace se non si realizza una convivenza nuova tra uomini e donne. Questa può nascere soltanto rivoluzionando il modo di intendere il concetto di sovranità, che deve essere radicalmente diverso da quello che ha orientato prima l'assolutismo monarchico, poi la democrazia rappresentativa e, infine, i tentativi di contenere la disgregazione degli stati-nazione.In «Sovrane», Annarosa Buttarelli interpreta pensieri, pratiche e politiche create da donne che nella storia hanno consolidato la propria autorità, basata sul principio ordinatore delle relazioni umane e regolata dalle leggi della vita più che dal diritto maschile, dalle gerarchie o dallo strapotere del denaro. Si compone così una galleria di ritratti brillanti, donne protagoniste che hanno indicato una via «differente» di fare politica e di governare. Da Elisabetta del Palatinato a Ildegarda di Bingen, da Elisabetta I a Cristina di Svezia, fino alle Preziose, dame dell'alta società francese che tra Seicento e Settecento sperimentarono un modello di socialità in cui, più che le armi o il censo, contava la fi nezza del pensiero e della condotta. Un modello in cui le donne potevano essere finalmente sovrane. Agli esempi illuminanti del passato si affi ancano due esperienze contemporanee: le battaglie contrattuali delle operaie tessili di Brescia e l'amministrazione di Graziella Borsatti, sindaca di Ostiglia, due casi di possibili vie di fuga dall'ideologia della rappresentanza, dal prevalere della quantità sulla qualità, dal dominio della funzione manageriale e dell'organizzazione tecnocratica del lavoro. Nell'operato di queste donne coraggiose e consapevoli si distingue la potenza liberatrice dell'autorità, purché questa mantenga la sua radice femminile e il suo ambito sapienziale, e la libertà sia intesa come recupero della priorità politica ed esistenziale delle relazioni – la trama che sostiene le nostre vite. Perché solo l'autorità femminile può originare una pratica della sovranità capace di rigenerare le istituzioni pubbliche. E di governare il mondo senza appropriarsene.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788865763346

1. All’origine della democrazia, rimozioni durature

La città è un gruppo di uomini – per essere precisi, di maschi; i greci dicono: andres – associati tra loro da una costituzione (politeia), che può essere democratica o oligarchica […]. La vita della città è politica e militare, poiché gli andres fanno la guerra e, riuniti in assemblea, prendono decisioni a maggioranza. La città ha una storia che è stata scritta dagli storici greci, a tutto vantaggio dei loro colleghi moderni. Questa storia parla di costituzioni e di guerre, e non sa che cosa farsene della vita silenziosa di donne, stranieri e schiavi.
Nicole Loraux, La città divisa

1. Una storia monosessuata e bloccata

In esergo faccio spazio a un promemoria, non a una citazione suggestiva. Il femminismo radicale di tutto il mondo, per quanta letteratura politica e storica abbia elaborato e offerto alla riflessione pubblica, assiste ancora oggi a un dibattito politico quotidiano, che si svolge coinvolgendo anche donne sapienti, del tutto bloccato dal non avere acquisito un elementare principio del pensiero della trasformazione: ripartire dalle origini dei processi e, se queste origini si rivelassero infauste, trovare la forza e l’intelligenza necessarie per crearne altre differenti. Seguendo il semplice buon senso, quando si nota che una pianta è stata messa a dimora in un terreno sbagliato non si interviene all’infinito sulla pianta, ma la si trasferisce in un terreno fertile e adatto alla sua crescita. Così potrebbe e dovrebbe accadere nella ricerca politica quando si nota che la nostra democrazia non funziona. Proprio la democrazia è la pianticella a cui desideriamo offrire forza e vita differenti.
Occorre ripartire dalle origini della «nostra», sebbene quella occidentale sia già stata ampiamente messa in discussione come l’unica forma esistente, e si sia acquisita la consapevolezza che nel mondo globalizzato postcoloniale il nome «democrazia» indica il modo in cui le aggregazioni umane possono affrontare e risolvere i loro problemi attraverso un processo di discussione pubblica sufficientemente aperto e unitario.1 Per forza di cose e di movimenti, si è aggiunta l’idea che la democrazia sia una pratica che nasce negli interstizi lasciati liberi dai poteri coercitivi e dagli Stati-nazione, in quelle zone di improvvisazione interculturale in cui aggregazioni diverse sono costrette a inventarsi nuovi modi per convivere.2 Queste novità e ridefinizioni sono senz’altro realistiche e rivestono un sicuro valore soprattutto all’interno della decostruzione della centralità politica e culturale dell’Occidente. Inoltre contribuiscono al superamento di una certa infausta ermeneutica che ha ridotto la ricerca di Michel Foucault al «foucaultismo» di maniera, l’ennesimo «ismo» secondo cui il potere coercitivo prevale sempre e non lascia scampo ad alcuna alternativa.
Tuttavia, anche in presenza di queste novità, la radice è compromessa da una rimozione continua che le pervade. E non mi riferisco alla ovvia constatazione che parlando di democrazia si fa riferimento a una forma politico-istituzionale nata escludendo le donne dalle pratiche che l’hanno inserita nella storia. Semmai, ancora una volta noi donne potremmo rivendicare come un merito il non avervi partecipato né al principio, né più avanti, mentre «stranieri e schiavi» sono entrati di frequente nelle vicende storiche per via di trasgressioni, ribellioni, lotte cruente, azioni per l’avvicendamento al potere. Mi riferisco, invece, ai motivi che hanno originato la democrazia e le sue modalità di funzionamento, motivi mai inscritti nella memoria occidentale e, proprio per questa mancata elaborazione, costitutivi del terreno rigido e infecondo su cui i riformismi contemporanei continuano invano a esercitarsi. Si tratta di un terreno interamente di segno maschile, in cui il seme della sovranità del popolo ha subìto una mutazione sorprendente e repentina, e ancora attende, il seme extrastorico della democrazia, di essere rimesso a dimora.
Nonostante si siano accumulati dagli anni settanta del secolo scorso a oggi innumerevoli studi critici sulla storia monosessuata maschile delle istituzioni politiche d’Occidente, restano definitive, fondamentali e impregnate di verità e forza sorgiva le opere di due grandi studiose delle origini: La città divisa (1997) di Nicole Loraux e Il contratto sessuale (1988) di Carole Pateman. Ripartirò dal loro contributo tentando di renderlo imprescindibile non tanto per gli studi satolli di citazioni avvertite, quanto per affermarne l’autorità trasformatrice, caratteristica delle scritture che meritano il nome di «fonti».
Cominciamo con l’apprendere da Nicole Loraux che «nonostante l’istituzione, in Atene, di un culto a Demokratia, nulla dimostra che demokratia – la cosa, ma anche la parola – sia diventata davvero presentabile».3 Come mai un’invenzione così celebrata fa quasi vergognare chi l’ha messa a punto a uso dei «colleghi moderni», come si dice nella citazione d’apertura? Per capire, bisogna togliere definitivamente dalla rimozione ciò che è accaduto nel 403 a.C. ad Atene, anno decisivo e fondativo nonostante si convenga che l’anno di nascita della democrazia sia il 426 a.C., quando Efialte guidò la lotta contro l’oligarchia dominante.
Ma è nel 403 che finalmente vengono cacciati i Trenta tiranni dopo una lunga, angosciosa guerra civile a cui, in quell’anno, si cercò di porre fine per sempre. In quel momento gli ateniesi vincitori inventano un patto che impone per legge ai cittadini di dimenticare la guerra civile, e allo scopo creano istituzioni e dispositivi che furono e restano ancora oggi caratteristici della democrazia occidentale: dibattito seguito dal voto, decisione con votazione a maggioranza, culto dell’unanimità, giuramento per ogni carica o esposizione pubblica, politica dell’agorà, giustizia del tribunale e arbitrato di conciliazione preventiva. Tutto questo per nascondere, per tenere a bada che cosa? Nicole Loraux ci fa scoprire con una meticolosa analisi linguistica che la «città» si forma come gruppo di maschi democratici nativi di Atene, associati da una costituzione indirizzata a scongiurare la stasis, parola anfibia che contiene al suo interno il senso di una posizione eretta e ferma assunta dal cittadino nel suo levarsi sanguinosamente contro altri cittadini. E poiché i cittadini democratici di Atene sono maschi (andres) autoctoni e facenti parte di una fazione che ha vinto contro un’altra costituita comunque da cittadini autoctoni, si fa di tutto per aprire la strada all’idea che tutti gli ateniesi siano homophyloi, imparentati da una comunità di razza:
Evocando la riconciliazione del 403, Platone loda gli ateniesi per essersi mescolati tra loro con una gioia decisamente familiare, dovuta alla parentela reale che si basa sulla comunità di razza (to homophylon). Del resto gli ateniesi sono ufficialmente homophyloi in quanto autoctoni e da questa parentela da lui concepita come fraternità, Platone aveva dedotto l’isonomia democratica, nome greco dell’uguaglianza davanti al politico.4
Ecco il segreto coperto dal patto fondativo dell’oblio: ogni cittadino ateniese deve giurare di dimenticare la stasis perché la guerra civile in realtà è intesa come guerra tra fratelli di sangue.5 È proprio attraverso l’analisi delle parole-concetto usate per costituire e descrivere la democrazia ateniese che veniamo a sapere dell’inesistenza di una sua lingua propria:
La democrazia, di cui gli oratori tessono a profusione l’elogio, trova il proprio fondamento nell’areté, nella qualità eminentemente aristocratica del valore. L’aspetto essenziale sta appunto nell’impossibilità, caratteristica della democrazia greca come regime modello, di inventare una lingua democratica per dire se stessa. In verità ciò ha inizio già col termine demokratia, che evoca la vittoria o la superiorità (kratos) del popolo, e che perciò viene pronunciato accompagnato da numerose precauzioni retoriche.6
Dunque, la vergogna non riguarda solo l’origine sanguinosa della città, ma anche il nome che si è dato il suo regime: «L’essenziale è che kratos, nel corso della sua storia – dai poemi omerici in poi – ha sempre indicato la superiorità, quindi la vittoria [non a caso il termine è spesso associato a nike, vittoria sui nemici esterni e interni]».7 Il kratos è propriamente la supremazia ottenuta con una vittoria militare, e dunque «democrazia» sta a indicare la vittoria militare della fazione popolare contro un nemico interno: non è un’istituzione politica. In una città in cui vige il giuramento dell’oblio di una vittoria ottenuta con la guerra civile, il nome democrazia, giustamente, non ha buon corso, poiché non fa che ricordare che tutto è nato da una guerra. Si tratta di comprendere che la città nasce da una pace imposta attraverso l’amicizia, altrettanto imposta, tra finti fratelli pensati come tali per poter consentire la pace: un ragionare che si morde la coda e che ci fa comprendere la preferenza di Aristotele per un altro termine al posto di democrazia: polis, da cui politeia, politica, nome che tramuta la democrazia ateniese in Politica tout court:
Accade persino che Aristotele, nel corso di una frase [nell’Etica eudemia, IX] assegni al «regime dei fratelli» il nome di politeia, e che lo valorizzi al punto da definirlo il Regime per eccellenza, poiché incarnerebbe l’essenza di ogni politeia. L’operazione filosofica è possente, tanto da farci dimenticare per un attimo che la comunità dei fratelli costitutiva della città e il Buon Governo fraterno sono mere finzioni, o quantomeno modelli.8
Rischiamo di dimenticare persino che le decisioni prese a maggioranza in Atene sono un ripiego rispetto all’anelito verso l’unanimità, anzi il dispositivo del voto a maggioranza sta pienamente al posto di questa, poiché ogni accenno a una possibile divisione è inteso come rottura del giuramento dell’oblio della divisione originaria. Così la vittoria (kratos) nel caso del voto viene a chiamarsi «legge della maggioranza» per evitare l’evocazione della stasis:
Votare significa accettare di separarsi. Va aggiunto però: accettare al tempo stesso che questa partizione porti con sé la vittoria di una parte della città sull’altra. Basta chiamare questa vittoria «legge della maggioranza» per avere l’impressione che tutto vada da sé.9
Una prassi che inconsapevolmente continua, come altre qui descritte. Ma l’inconsapevolezza, ci dice la psicoanalisi, adottata da Nicole Loraux come una delle sue ermeneutiche, crea molto spesso comportamenti pericolosi o quantomeno incontrollabili: «Non ci siamo mai liberati dal topos di Atena come paradigma della Città e della Politica»;10 e questo paradigma mitizzato è ancora egemone in quella parte del dibattito politico attuale che si rivolge ancora testardamente ad Atene per attingere ispirazione, nomi, concetti, suggestioni, ignorando che gli effetti della democrazia ateniese si sono già tutti dispiegati nel tempo della storia, per il meglio e per il peggio. Ritornare, anche solo con la mente devota, all’Atene antica si dichiara essere una flagrante coazione a ripetere.
Nicole Loraux ci consegna, infatti, un passato saldamente accampato nel presente e vede la «città divisa» delle origini anche attraverso la lente fornita dalla psicoanalisi: come la «scoperta» della rimozione ci ha consegnato un soggetto intimamente diviso, così l’orrore rimosso della guerra tra fratelli consegna alla storia una «città» irrimediabilmente divisa al suo interno, per il governo della quale la democrazia ateniese è stata la politica migliore finora inventata. Ma è una politica fatta per un mondo di soli uomini incapaci di contenere la loro violenza se non facendo appello alla forza della legge, la quale non ne ha a sufficienza per un tale contenimento.
Oltre ad avere constatato che la storia tradizionale non ci ha fatto conoscere la loro voce, che cosa sappiamo delle donne ateniesi? Di sicuro sappiamo che sono ritenute dai «fratelli» delle parenti acquisite:
Autoctoni sono gli andres di contro alle donne, questi parenti acquisiti o che si vorrebbero tali. Gli andres, inoltre, in quanto autoctoni, stabiliscono tra loro, lontano dalle donne, un luogo per pensarsi, un luogo in cui la città si dà come unitaria e costituita da identici.11
Ecco perché le donne non sono mai state «cittadine» a pieno titolo, ma molte nemmeno oggi lo vogliono essere, se divenirlo significa assumere le determinazioni storiche della Città.12 Delle donne ateniesi sappiamo dunque che sono finite nella lista delle rimozioni originarie:
Ho parlato molto di diniego: diniego da parte della democrazia della propria storicità, per meglio ancorarsi in un’origine nobile quanto naturale; diniego del contributo delle donne alla riproduzione della vita in Atene cancellato in favore del mito dell’origine autoctona; diniego del carattere fondamentale del conflitto.13
Gli ateniesi si ritenevano nati direttamente dalla Madre Terra, dal suolo, autoctoni, si suppone, per rinforzare la loro idea di fratellanza: volevano convincersi di essere tutti fratelli nati da un’unica madre. Ce n’è abbastanza per avviare la riflessione su qualche conseguenza. Innanzitutto, pare di capire che la rimozione più importante non riguardi tanto la stasis, o l’allontanamento delle donne dal campo della democrazia originaria, quanto la rimossa convinzione che alla base della nascita della città deve essere posta la violenza, che il sangue deve accompagnare ogni decisione politica. Il possibile emergere dell’orrore raddoppia la sua minaccia quando si scopre che, dietro la scomunica della stasis, si nasconde la convinzione degli stessi maschi di avere bisogno della violenza per fondare il politico proprio in quanto terreno di esistenza comune. Una terribile constatazione che a tutt’oggi non ha avuto prova contraria nelle teorie politiche di stampo patriarcale, tanto da indurre Nicole Loraux a sostenere con grande preoccupazione la necessità di rendersi conto che, all’origine, esiste uno «scenario in cui l’odio è più antico dell’amore, in cui l’oblio è valorizzato nella stessa misura della gioia ineffabile arrecata dalla collera che non dimentica».14 Ciò che oggi chiamiamo genericamente democrazia affonda le sue radici in un suolo costituito dal principio dell’odio violento, tenuto a bada a forza di finzioni e menzogne, ma necessario fin dalle origini a concepire la possibilità stessa della politica e della convivenza. Sappiamo bene, studiando un po’ di storia della filosofia e di filosofia della storia, quanto la convinzione della naturalità e della irrimediabilità della violenza sanguinaria percorra le azioni storiche di gran parte dell’umanità maschile e nutra ancora oggi, paradossalmente, anche l’ossessione virtuosa del proclamato pacifismo. Il problema è ben più grave dell’ovvia (e fortunata) esclusione delle donne dalla cittadinanza democratica.15
Non c’è nulla di naturale nella violenza e nella sua presunta capacità costituente di un regime apparentemente virtuoso come la democrazia tramandata per via storica; questo lo si sa o lo si intuisce, ma farà piacere avere anche qualche prova che illumini e consolidi l’intuizione, come quelle che ci porta il lavoro di una grande archeologa del secolo scorso: Marija Gimbutas (1921-1994). Lituana di nascita, ha insegnato nelle università degli Stati Uniti dove è divenuta la più grande specialista a livello mondiale dell’archeologia dei Balcani e delle sponde europee del Mediterraneo. In quello che si può considerare il suo testamento scientifico, Marija Gimbutas dichiara di voler «riportare alla nostra coscienza aspetti della preistoria europea rimasti nell’ombra o semplicemente non metabolizzati a livello paneuropeo. L’acquisizione di tale materiale potrebbe finalmente modificare la nostra percezione delle potenzialità del presente e del futuro. La memoria collettiva umana va rimessa a fuoco. Questa necessità diventa sempre più impellente mentre prendiamo pian piano coscienza del fatto che il cammino del cosiddetto progresso sta soffocando le condizioni stesse di vita sulla terra».16 Come si vede, l’archeologa allude a rimozioni avvenute anche nel suo campo di ricerca esteso alle popolazioni che vissero in Europa tra il VII e il III millennio a.C., prima cioè dell’arrivo degli indoeuropei, ma ormai stiamo imparando che le grandi distanze misurate sul tempo lineare non sono molto significative se concentriamo l’attenzione sui processi di trasformazione, alcuni dei quali attendono ancora di potersi dispiegare positivamente. Marija Gimbutas ci avverte attraverso i suoi monumentali ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Prologo
  3. 1. All’origine della democrazia, rimozioni durature
  4. 2. Un’altra storia, un’altra democrazia
  5. 3. Governare non è rappresentare
  6. 4. Saltando l’utile. Appunti per un’economia del soprammercato
  7. 5. La sapienza al governo
  8. 6. Rigovernare, non solo in cucina. Due esperienze contemporanee
  9. Note