Elogio del silenzio
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Elogio del silenzio

Come sfuggire al rumore del mondo

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Elogio del silenzio

Come sfuggire al rumore del mondo

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Che cos'è il silenzio? È l'assenza di qualunque suono? È una mera astrazione del pensiero, o forse – come scrisse José Saramago – solo il silenzio esiste davvero? Nel silenzio possiamo riordinare i pensieri scossi dalla frenesia della quotidianità, trovare pace dopo aver subito delusioni o prevaricazioni; ma possiamo anche vivere l'angoscia dell'attesa, l'inquietudine dell'ignoto, lo spettro della solitudine. Il silenzio dei vili può coprire nefandezze e sopraffazioni, ma il silenzio dei forti può essere un gesto di estremo coraggio, di fiera opposizione alle lusinghe e alle minacce del potere.Mentre oggi la scienza pone in dubbio la sua reale esistenza, autori come Shakespeare, Sterne, Twain, Poe e Rilke, artisti come Rothko e Duchamp, e musicisti come Cage si sono interrogati sul significato del silenzio e sulla sua rappresentazione nella letteratura e nell'arte. E proprio nella varietà e contraddittorietà delle risposte risiede il grande fascino del silenzio, che John Biguenet restituisce in questo libro indagandone le mutevoli e variegate sembianze: premio o punizione, arma letale o strumento di resistenza, vuoto da riempire o sensazione di pura pienezza, bene di lusso o disturbo da evitare.In un mondo che procede febbrile, snervante e caotico, sempre più spesso il silenzio sa esprimere meglio delle parole le passioni umane, dalle più esaltanti e virtuose alle più tristi: con prosa lieve e cultura sconfinata, Biguenet ci ricorda che inseguirne il fragile, utopico incantesimo è oggi il modo migliore per prenderci cura di noi stessi.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788865766019
parte terza
6. La rappresentazione del silenzio
Esistono gesti e segni che, per convenzione, indicano di fare silenzio (o almeno ciò che consideriamo tale) e che non lasciano spazio ad ambiguità riguardo al loro intento. Le mani sulla bocca, per esempio, o anche semplicemente un dito poggiato in verticale sulle labbra. Non c’è dubbio: ci troviamo all’interno di una zona in cui si deve mantenere il silenzio. Allo stesso modo, rivolgere i palmi delle mani verso il pubblico per porre fine a un applauso, il tintinnio della forchetta sul calice per zittire il baccano a una cena o quel sibilo che si emette per far tacere cortesemente un estraneo. Sono tutti gesti che raramente vengono fraintesi. Molte di queste convenzioni presuppongono che sia la voce umana la fonte del suono non desiderato, ma un cerchio rosso, attraversato diametralmente da una diagonale e posto sopra l’immagine di un megafono o di un altoparlante, estende il divieto di fare rumore agli amplificatori meccanici.
Insomma, non abbiamo difficoltà a segnalare il silenzio. Sappiamo persino come scriverlo: shht. Eppure la rappresentazione del silenzio continua a essere una sfida per molti scrittori, compositori e artisti.
La pagina nera che segue la morte di Yorick, in La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne, è un’immagine del dolore o semplicemente un segno di lutto? O forse si tratta di un momento di silenzio imposto dall’autore al loquace narratore del suo romanzo per onorare la morte di uno dei personaggi? Certo, è piuttosto semplice pensare che la pagina conclusiva del dodicesimo capitolo e il suo risvolto siano una rappresentazione dell’oscuro silenzio della morte, occhi e orecchie che si chiudono al mondo. Se così fosse, la parola buio potrebbe considerarsi affine a silenzio?
Ma quindi, la pagina bianca che segue l’invito del narratore, o della narratrice, a disegnare la propria visione della vedova Wadman, all’inizio del trentottesimo capitolo del sesto volume, è da considerarsi un’interruzione del flusso di parole di Sterne e, di conseguenza, anche una pausa, un silenzio? L’autore è convinto che il silenzio assoluto sia migliore di qualsiasi altra affermazione: «Libro tre volte felice! perché hai una pagina almeno, sotto copertina, che la malizia non potrà denigrare e l’ignoranza non potrà snaturare!».
Una pagina bianca, o un foglio nero, è il modo migliore per rappresentare il silenzio? O l’immacolata bianchezza e la totale oscurità sono immagini antitetiche dello stesso silenzio? Cos’è che interrompe la narrazione in quella marmorea pagina del Tristram Shandy, prima con il nero e poi con il bianco?
Può anche darsi che la vera differenza non riguardi il colore, bensì il contesto e la scena in questione. Dopo tutto, quando leggiamo diamo voce ai segni neri che costellano il foglio bianco su cui sono impressi, mentre quando stiamo in silenzio, anche se per poco tempo, comunichiamo gli spazi fra le parole. Il foglio bianco è il silenzio, mentre l’inchiostro nero è il suono. A dire il vero leggeremmo alla stessa maniera anche se le parole fossero bianche e il foglio fosse nero. In definitiva, leggere presuppone che il linguaggio sia ricamato sul silenzio e che quest’ultimo sia lo sfondo della parola?
Questo è, in realtà, il presupposto del linguaggio, non della lettura. La scriptio continua, ovvero non inserire né spazi né altri indicatori fra le parole, era molto diffusa nel mondo classico e diverse lingue asiatiche continuano a utilizzarla tuttora. Anche in alcuni utilizzi di Internet, per esempio negli indirizzi email e negli url dei siti web, non è necessario utilizzare spazi tra le parole. Almeno in apparenza la leggibilità non dipende dalla rappresentazione del silenzio da cui la parola viene distinta, ma la traslitterazione nel linguaggio parlato di ciò che è leggibile richiede tuttavia delle sottili inserzioni di silenzio.
Nella sua opera principale, Sterne può essere considerato un tipografo tanto quanto uno scrittore per il modo in cui utilizza i trattini, gli asterischi e altri espedienti tipografici (in un’occasione utilizza persino la manicula). La maggior parte di questi segni d’interpunzione vengono resi dal lettore con il silenzio. Qualsiasi grammatico affermerebbe, per esempio, che tre puntini di sospensione equidistanti fra di loro, specie se tra parentesi quadre, indicano un’omissione, una lacuna in una citazione e che, di conseguenza, nella lettura a voce alta, questa andrebbe fatta notare attraverso l’introduzione di un silenzio. Non bisogna preoccuparsi del tipo di silenzio da utilizzare per distinguere i puntini di sospensione, il punto, il punto e virgola, i due punti, le parentesi, il trattino e la virgola. Il silenzio, in fin dei conti, non è lo scopo della punteggiatura, ma lo è la sua struttura. Ascoltare un attore professionista mentre legge a voce alta consente di capire quanto sia particolare – e dunque eloquente – ogni silenzio.
L’uso più significativo della punteggiatura lo si riscontra in poesia. In questo caso si intende un tipo di silenzio che interrompe lo slancio ritmico del componimento. Viene chiamato cesura e, nella scansione metrica, è rappresentato da due linee verticali e parallele. Uno degli esempi più commoventi lo ritroviamo nei versi finali della terza quartina di «Quando io temo che potrei cessare», un lamento funebre offerto alla morte dal giovane poeta ammalato di tubercolosi. Nelle prime due quartine, John Keats esprime tutto il suo rammarico per quella letteratura che non potrà più scrivere. Nell’ultima parte del componimento sposta invece l’attenzione sulla perdita della donna amata. Il poeta è talmente sopraffatto dall’emozione che non riesce neppure a terminare l’ultimo verso della terza quartina. Ed è qui che troviamo la cesura:
e quando sento, bella creatura
di un’ora, ch’io mai più potrò mirarti,
né più mi sarà dato assaporare
l’incantata potenza dell’amore
che s’abbandona – allora sopra il lido
del vasto mondo sto solingo e penso
fin quando amore e fama al nulla affonda.1
Nel contemplare la separazione dalla donna amata, il poeta comincia a vacillare finché la sua voce smette di essere, anche solo per un momento, tramutandosi in un silenzio che interrompe proprio al centro del verso la prima parte del sonetto (presagio di quell’ultimo e improvviso interrompersi della voce, tanto temuto dall’ammalato poeta). Sebbene il testo termini con una sorta di consolazione, la cesura, quell’improvviso silenzio inserito al centro del dodicesimo verso di questo sonetto inglese, può essere considerata il momento più espressivo dell’intera poesia.
L’intrecciarsi di suono e silenzio tipico del linguaggio è presente anche in musica. I compositori hanno inventato un sistema di notazione musicale che, almeno nella rappresentazione del silenzio, non differisce in maniera significativa dal linguaggio scritto. Dove uno scrittore utilizza il punto, il compositore inserisce una pausa. Lo scarabocchio che rappresenta la pausa di semiminima, impresso con lo stesso inchiostro delle note che lo precedono e lo seguono, si contraddistingue dal silenzio di un pentagramma vuoto in maniera simile ai segni di interpunzione discussi in precedenza.
Così come accade per i segni di interpunzione, anche le pause non sono così semplici da comprendere e da realizzare. Chi studia canto apprende a cantare attraverso le pause, nonostante quello sia un tipo di canto non vocalizzato. Anche i musicisti jazz suonano attraverso i silenzi, siamo noi a non percepire certe note inudibili. La pausa è un elemento della composizione, non una sua interruzione. In realtà, ha una durata ben precisa che può equivalere a una nota intera, a metà, a un quarto o a un ottavo di essa ed è, quindi, un silenzio definito che prende parte alla struttura dell’opera. La pausa compare in mezzo a una sequenza di note, condividendo con esse la durata, ma non il tono, il timbro e l’intensità. Per queste ragioni la si può intendere come una nota che non va suonata. Il compositore, dunque, fa un largo uso del silenzio, proprio come uno scrittore utilizza la punteggiatura. Il silenzio è uno strumento per affermare la stretta relazione strutturale fra gli elementi che costituiscono un brano musicale.
Ieri sera sono andato a vedere una rappresentazione di Les préludes di Franz Liszt. Prima di cominciare il concerto il direttore d’orchestra ha chiesto, a voce alta, se il pizzicato fosse l’equivalente musicale del punto di domanda. Si sa che il poema sinfonico di Liszt è un tentativo di tradurre per l’orchestra la poesia di Alphonse de Lamartine, per cui è legittimo, per l’ascoltatore, ricercare le corrispondenze fra i versi scritti (inclusa la punteggiatura) e la tecnica musicale. Se il pizzicato equivale a un punto di domanda, possiamo quindi affermare che la pausa musicale sia meno eloquente di un punto e virgola o di un trattino? Anche la pausa, proprio come i segni di interpunzione, non esprime infatti il silenzio. Il silenzio è soltanto un’espressione di ciò che viene articolato dai mezzi tipografici.
Numerosi sono gli esempi a riguardo. Le pause che Liszt inserisce nella sua Sonata in Si minore ne sono una chiara dimostrazione anche per un ascoltatore non esperto. Allo stesso modo, la pausa che segue ognuno dei due accordi nella Sinfonia n. 3 di Beethoven, negli ascoltatori ha sicuramente lo stesso effetto di un punto esclamativo.
Tuttavia, la pausa non è l’unico espediente utilizzato dai musicisti per introdurre un silenzio all’interno delle composizioni. I compositori hanno a loro disposizione, come i poeti, anche la cesura, che viene indicata con due sbarrette verticali (simili a un binario ferroviario) e che, a volte, viene associata al cosiddetto «punto coronato». Quest’ultimo, segnalato da una corona posta al di sopra di una pausa, estende il silenzio per una durata soggetta alla volontà dell’esecutore. Anche se raramente lo si trova al principio di una composizione, il punto coronato viene spesso aggiunto dai solisti all’inizio di un’esecuzione. In un film documentario del 1998, diretto da Bruno Monsaingeon e intitolato Richter, l’Insoumis, il grande pianista russo Svjatoslav Richter ricorda la lezione più importante ricevuta dal suo maestro al conservatorio di Mosca, Heinrich Neuhaus:
A proposito della sonata di Liszt, mi ha insegnato una cosa f...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Parte prima
  3. Parte seconda
  4. Parte terza
  5. Parte quarta
  6. Parte quinta
  7. Bibliografia