Nel tempo della lotta
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Nel tempo della lotta

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"La rivoluzione francese ha abbattuto molti privilegi, ha sollevato molti oppressi; ma non ha fatto che sostituire una classe ad un'altra nel dominio. Però ha lasciato un grande ammaestramento: che i privilegi e le differenze sociali, essendo prodotto della società e non della natura, possono essere sorpassate." "Nel tempo della lotta" raccoglie una selezione delle 2000 pagine di Gramsci pubblicate dal Saggiatore nel 1964. Gli articoli precedenti il 1926 – in particolare su lotta di classe, guerra, rapporti con la borghesia e ascesa del fascismo – si uniscono ad alcune delle lettere dal carcere, restituendo con intensità la figura politica, umana e intellettuale di Gramsci.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788865763131

Lettere (1926-1937)

[Carcere di] Roma, 20 novembre 1926

Mia carissima Julca,1
ricordi una delle tue ultime lettere? (Era almeno l’ultima lettera che io ho ricevuto e letto.) Mi scrivevi che noi due siamo ancora abbastanza giovani per poter sperare di vedere insieme crescere i nostri bambini. Occorre che tu ora ricordi fortemente questo, che tu ci pensi fortemente ogni volta che pensi a me e mi associ ai bambini. Io sono sicuro che tu sarai forte e coraggiosa, come sempre sei stata. Dovrai esserlo ancora di più che nel passato, perché i bambini crescano bene e siano in tutto degni di te. Ho pensato molto, molto in questi giorni. Ho cercato di immaginare come si svolgerà tutta la vostra vita avvenire, perché rimarrò certamente a lungo senza vostre notizie; e ho ripensato al passato, traendone ragione di forza e di fiducia infinita. Io sono e sarò forte; ti voglio tanto bene e voglio rivedere e vedere i nostri piccoli bambini.
Carissima mia, non vorrei in modo alcuno turbarti; sono un po’ stanco, perché dormo pochissimo, e non riesco perciò a scrivere tutto ciò che vorrei e come vorrei. Voglio farti sentire forte forte tutto il mio amore e la mia fiducia. Abbraccia tutti di casa tua; ti stringo con la più grande tenerezza insieme coi bambini.
Antonio

Ustica, 9 dicembre 1926

Carissima Tatiana,
sono arrivato a Ustica il 7 e il giorno 8 ho ricevuto la tua lettera del 3. Ti descriverò in altre lettere tutte le impressioni del mio viaggio, a mano a mano che i ricordi e le emozioni diverse si andranno ordinando nel cervello e che sarò riposato dalle fatiche e dalle insonnie. A parte le condizioni speciali in cui esso si è svolto (come puoi comprendere non è molto confortevole, anche per un uomo robusto, percorrere ore e ore di treno accelerato e di piroscafo coi ferri ai polsi ed essendo legato a una catenella che ti impegna ai polsi dei vicini di viaggio), il viaggio è stato interessantissimo e ricco di motivi diversi, da quelli shakespeariani a quelli farseschi: non so se potrò riuscire, per esempio, a ricostruire una scena notturna nel transito di Napoli, in un camerone immenso, ricchissimo di esemplari zoologici fantasmagorici; credo che solo la scena del becchino nell’Amleto possa eguagliarla. Il pezzo più difficile del viaggio è stata la traversata da Palermo a Ustica: abbiamo tentato quattro volte il passaggio e tre volte siamo dovuti rientrare nel porto di Palermo, perché il vaporetto non resisteva alla tempesta. Tuttavia, sai che sono ingrassato in questo mese? Io stesso sono stupefatto di sentirmi così bene e di avere tanta fame: penso che tra quindici giorni, dopo che mi sarò riposato e avrò dormito sufficientemente, sarò completamente liberato da ogni traccia di emicrania e inizierò un periodo nuovissimo della mia esistenza molecolare.
La mia impressione di Ustica è ottima sotto ogni punto di vista. L’isola è grande otto chilometri quadrati e contiene una popolazione di circa milletrecento abitanti, dei quali seicento coatti comuni, cioè criminali parecchie volte recidivi. La popolazione è cortesissima, noi siamo trattati da tutti con grande correttezza.
Siamo assolutamente separati dai coatti comuni, la cui vita non saprei descriverti con brevi tratti: ricordi la novella di Kipling intitolata: Una strana cavalcata nel volume francese L’uomo che volle essere re? Mi è balzata di colpo alla memoria tanto mi sembrava di viverla. Finora siamo quindici amici. La nostra vita è tranquillissima: siamo occupati a esplorare l’isola che permette di fare passeggiate abbastanza lunghe, di circa nove-dieci chilometri, con paesaggi amenissimi e visioni di marine, di albe e di tramonti maravigliosi: ogni due giorni viene il vaporetto che porta notizie, giornali, e amici nuovi… Ustica è molto più graziosa di quanto appaia dalle cartoline illustrate che ti invierò: è una cittadina di tipo saraceno, pittoresca e piena di colore. Non puoi immaginare quanto io sia contento di girellare da un angolo all’altro del paese e dell’isola e di respirare l’aria del mare dopo questo mese di traduzioni da un carcere all’altro, ma specialmente dopo i sedici giorni di Regina Coeli passati nel più assoluto isolamento. Penso di diventare il campione usticese nel lancio del sasso a distanza, perché ho già battuto tutti gli amici.
Ti scrivo un po’ balzelloni, così come mi viene, perché sono ancora un po’ stanco. Carissima Tatiana, non puoi immaginare la mia emozione quando a Regina Coeli ho vista la tua calligrafia sulla prima bottiglia di caffè ricevuta e ho letto il nome di Marietta;2 sono letteralmente ridiventato un bambino. Vedi, in questo tempo, sapendo con certezza che le mie lettere sarebbero state lette secondo le disposizioni carcerarie, mi è nato una specie di pudore: non oso scrivere intorno a certi sentimenti e se cerco di smorzarli per adeguarmi alla situazione, mi pare di fare il sacrestano. Perciò mi limiterò a scriverti alcune notizie sul mio soggiorno a Regina Coeli in relazione a quanto tu mi domandi. Ho ricevuto la giacca di lana che mi è stata estremamente utile, e così le calze ecc. Avrei sofferto molto freddo senza di esse, perché sono partito col paltò leggero e, sceso al mattino prestissimo, quando abbiamo tentato la traversata Palermo-Ustica faceva un freddo cane. Ho ricevuto i piattini che mi è dispiaciuto lasciare a Roma, perché ho dovuto mettere tutto il mio bagaglio nella foderetta (che mi ha reso servizi inestimabili) ed ero sicuro di romperli. Non ho ricevuto il Cirio, né la cioccolata, né il pane di Spagna che erano proibiti: li ho visti segnati nella lista, ma con l’avvertenza che non potevano passare; così non ho avuto il bicchierino per il caffè, ma ho provveduto io costruendomi un servizio di mezza dozzina di gusci d’uovo montati superbamente su un piedestallo di mollica di pane. Ho visto che ti sei impressionata perché i pranzi erano quasi sempre freddi: niente di male, perché ho sempre mangiato, dopo i primi giorni, almeno il doppio di quanto mangiavo in trattoria e non ho mai sentito il più piccolo disturbo, mentre ho saputo che tutti i miei amici hanno avuto malesseri e hanno abusato di purganti. Vado convincendomi di essere molto più forte di quanto mai potessi credere, perché, a differenza di tutti, me la sono cavata con la semplice stanchezza. Ti assicuro che, eccettuate pochissime ore di tetraggine una sera che hanno tolto la luce dalle nostre celle, sono sempre stato allegrissimo; lo spiritello che mi porta a cogliere il lato comico e caricaturale di tutte le scene era sempre attivo in me e mi ha mantenuto giocondo nonostante tutto. Ho letto sempre, o quasi, riviste illustrate e giornali sportivi e mi stavo rifacendo una biblioteca. Qui ho stabilito questo programma:
  1. star bene per stare sempre meglio di salute;
  2. studiare la lingua tedesca e russa con metodo e continuità;
  3. studiare economia e storia.
Tra noi faremo della ginnastica razionale, ecc.
Carissima Tatiana, se non ti avevo ancora scritto, non devi credere che ti abbia neppure per un momento dimenticata e non abbia pensato a te; la tua espressione è esatta, perché ogni cosa che ricevevo e in cui vedevo in rilievo il segno delle tue care mani era più che un saluto, ma anche una carezza affettuosa. Avrei voluto avere l’indirizzo della Marietta; forse vorrei scrivere anche alla Nilde; che te ne pare? Si ricorderà di me e gradirà il mio saluto? Scrivere e ricevere lettere è diventato per me uno dei momenti più intensi di vita.
… Carissima Tatiana, ti ho scritto un po’ confusamente. Credo che oggi, 10, il vaporetto non riuscirà a venire perché c’è stato tutta la notte un vento violentissimo, che non mi ha lasciato dormire, nonostante la morbidezza del letto e dei cuscini ai quali mi ero disabituato; è un vento che penetra da tutte le fessure del balcone, della finestra e delle porte con sibili e suoni di trombetta molto pittoreschi, ma alquanto irritanti. Scrivi a Giulia e dille che sto veramente bene, sotto tutti i punti di vista e che la mia permanenza qui, che del resto non credo sarà così lunga come l’ordinanza ha deciso, mi sradicherà dal corpo tutti i vecchi malanni: forse un periodo di riposo assoluto era proprio una necessità per me.
T’abbraccio teneramente, carissima, perché abbraccio con te tutti i miei cari.
Antonio

Ustica, 19 dicembre 1926

Carissima Tania,
ti ho scritto una cartolina il 18 per avvertirti che avevo ricevuto la tua assicurata del 14: antecedentemente avevo scritto una lunga lettera per te all’indirizzo della signora Passarge, che avrebbe dovuto esserti consegnata l’11 o il 12. Riepilogo gli avvenimenti principali di tutto questo tempo.
Arrestato l’8 sera alle dieci e mezzo e condotto immediatamente in carcere, sono partito da Roma il mattino prestissimo del 25 novembre. La permanenza a Regina Coeli è stato il periodo più brutto della detenzione: sedici giorni di isolamento assoluto in cella, disciplina rigorosissima. Ho potuto avere la camera a pagamento solo negli ultimi giorni. I primi tre giorni li ho trascorsi in una cella abbastanza luminosa di giorno e illuminata di notte; il letto era però molto sudicio; le lenzuola erano già adoperate; formicolavano gli insetti più diversi; non mi è stato possibile avere qualcosa da leggere, neanche la Gazzetta dello Sport, perché non ancora prenotata: ho mangiato la minestra del carcere che era abbastanza buona. Sono quindi passato a una nuova cella, più oscura di giorno e senza illuminazione la notte, ma che è stata disinfettata con la fiamma di benzina e il cui letto aveva biancheria di bucato. Ho incominciato a comprare qualcosa dal bettolino del carcere: le steariche per la notte, il latte per il mattino, una minestra con brodo di carne e un pezzo di lesso, formaggio, vino, mele, sigarette, giornali e riviste illustrate. Sono passato dalla cella comune alla camera a pagamento senza preavviso, cosa per cui rimasi un giorno senza mangiare, dato che il carcere passa il vitto solo agli abitatori delle celle comuni, mentre quelli delle camere a pagamento devono «vittarsi» (termine carcerario) del proprio. La camera a pagamento consistette per me nel fatto che aggiunsero un materasso di lana e un cuscino idem al saccone di crine, e che la cella fu arredata di un lavabo con catinella e boccale e di una sedia. Avrei dovuto avere anche un tavolino, un reggipanni e un armadietto ma l’amministrazione mancava di «casermaggio» (altro termine carcerario): ebbi anche la luce elettrica ma senza interruttore, sicché tutta la notte mi rigiravo per proteggere gli occhi dalla luce. La vita trascorreva così: alle sette del mattino sveglia e pulizia della camera; verso le nove il latte, che poi divenne caffè e latte quando incominciai a ricevere il vitto dalla trattoria. Il caffè giungeva di solito ancora tiepido, il latte invece era sempre freddo, ma io facevo allora una abbondantissima zuppa. Dalle nove a mezzogiorno capitava l’ora del passeggio: un’ora o dalle nove alle dieci, o dalle dieci alle undici, o dalle undici alle dodici; ci facevano uscire isolati, con la proibizione di parlare e di salutare chiunque e si andava in un cortile diviso a raggi con muri divisori altissimi e con una cancellata sul resto del cortile. Eravamo sorvegliati da una guardia issata su un terrazzino dominante la raggiera e da una seconda guardia che passeggiava dinanzi ai cancelli; il cortile era incassato tra muri altissimi e da una parte era dominato dalla bassa ciminiera di una piccola officina interna; talvolta l’aria era fumo, una volta dovemmo rimanere circa mezz’ora sotto uno scroscio di pioggia. A mezzogiorno circa arrivava il pranzo; la minestra era spesso tiepida ancora, il resto era sempre freddo. Alle tre c’era la visita alla cella col collaudo delle sbarre dell’inferriata; la visita si ripeteva alle dieci di sera e alle tre del mattino. Io dormivo un po’ tra queste due ultime visite: una volta svegliato dalla visita delle tre non riuscivo ad addormentarmi; era però obbligatorio stare a letto dalle sette e mezzo di sera fino all’alba. Lo svago era dato dalle voci diverse e dai brani di conversazione che talvolta si riusciva a cogliere dalle celle vicine o prospicienti. Io non incorsi mai in nessuna punizione: Maffi3 invece ebbe tre giorni di pane e acqua in una cella di punizione. In verità non sentii mai nessun malessere: quantunque non abbia mai consumato tutto il pasto, tuttavia mangiai sempre con appetito superiore a quello della trattoria. Avevo solo un cucchiaio di legno; né forchetta, né bicchiere. Un boccale e un boccaletto di terraglia per l’acqua e per il vino; una grossa scodella di terraglia per la minestra e un’altra per catino, prima della concessione della camera a pagamento.
Il 19 novembre mi fu comunicata l’ordinanza che mi infliggeva cinque anni di confino in colonia, senza altra spiegazione. I giorni successivi mi giunse la voce che sarei partito per la Somalia.4 Seppi che avrei scontato il confino in un’isola italiana solo la sera del 24, indirettamente: la destinazione esatta mi fu comunicata ufficialmente solo a Palermo; potevo andare a Ustica ma anche a Favignana, a Pantelleria o a Lampedusa; erano escluse le Tremiti perché altrimenti avrei viaggiato da Caserta a Foggia. Da Roma partii al mattino del 25 col primo accelerato per Napoli, dove giunsi alle tredici circa; viaggiai in compagnia di Molinelli, Ferrari, Volpi e Picelli,5 che erano stati anch’essi arrestati l’8. Ferrari però da Caserta fu distaccato per le Tremiti: dico distaccato perché anche nel vagone eravamo legati insieme a una lunga catena. Da Roma in poi rimasi sempre in compagnia, ciò che produsse un notevole cambiamento nello stato d’animo; si poteva chiacchierare e ridere nonostante che si fosse legati alla catena e con ambedue i polsi stretti dalle manette e che in tale grazioso abbigliamento si dovesse mangiare e fumare. Eppure si riusciva ad accendere i fiammiferi, a mangiare, i polsi si gonfiavano un po’, ma si ebbe la sensazione del quanto la macchina umana sia perfetta e possa adattarsi alle circostanze più innaturali. Nel limite delle disposizioni regolamentari, i carabinieri di scorta ci trattarono con grande correttezza e cortesia. Siamo rimasti a Napoli due notti, nel carcere del Carmine, sempre insieme e siamo ripartiti per via mare la sera del 27 con mare calmissimo. A Palermo abbiamo avuto un cameroncino molto pulito e arieggiato, con bellissimo panorama su monte Pellegrino; trovammo altri amici destinati alle isole, il deputato massimalista Conca di Verona e l’avvocato Angeloni, repubblicano di Perugia. Sopraggiunsero in seguito altri, tra i quali Maffi che era destinato a Pantelleria.
Sarei dovuto partire da Palermo il 2, invece riuscii a partire solo il 7; tre tentativi di traversata fallirono per il mare tempestoso. È stato questo il pezzo più brutto del viaggio di traduzione. Pensa: sveglia alle quattro del mattino, formalità per la consegna dei denari e delle cose diverse depositate, manette e catena, vettura cellulare fino al porto, discesa in barca per raggiungere il vaporetto, ascesa della scaletta per salire a bordo, salita di una scaletta per salire sul ponte, discesa di altra scaletta per andare nel reparto di terza classe; tutto ciò avendo i polsi legati ed essendo legato a una catena con altri tre. Alle sette il vaporetto parte, viaggia per un’ora e mezza ballando e dimenandosi come un delfino, poi si ritorna indietro perché il capitano riconosce impossibile la traversata ulteriore. Si rifà all’inverso la serie delle scalette, ecc., si ritorna in cella; intanto è già mezzogiorno, non si è fatto a tempo a comandare il pranzo; fino alle cinque non si mangia, e al mattino non si era mangiato. Tutto ciò quattro volte con l’intervallo di un giorno.
A Ustica erano già arrivati quattro amici: il Conca, l’ex deputato di Perugia Sbaraglini, e due di Aquila. Per qualche notte abbiamo dormito in un camerone: adesso siamo già accomodati in una casa a nostra disposizione. La casa è composta di una stanza a pianterreno dove dormono due: a pianterreno c’è anche la cucina, il cesso, e un bugigattolo che abbiamo adibito a sala comune di toilette. Al primo piano, in due stanze dormiamo in quattro, tre in una stanza abbastanza grande e uno nello stanzino di passaggio; un’ampia terrazza sovrasta la stanza più grande e domina la spiaggia. Paghiamo cento lire al mese per la casa e due lire al giorno per il letto, la biancheria del letto e gli altri arredi domestici (due lire a testa). I primi giorni abbiamo speso molto per i pasti; n...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Nota dell’Editore
  3. Nota all’edizione 1964
  4. Nel tempo della lotta
  5. Noi sentiamo il mondo
  6. Stenterelli e Machiavelli
  7. Si può, si deve
  8. Lettere (1926-1937)
  9. Appendice