Mercato
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L'economia non può e non deve restare terreno riservato agli "esperti": oggi è chiaro che ci riguarda tutti, e tutti dobbiamo poter capire quei processi di cui siamo parte e che influenzano la nostra vita quotidiana. E allora: che cos'è davvero il mercato, quali sono i suoi pilastri? Come cambia, quali sfide deve affrontare? Il mercato si autoregola? Qual è il rapporto fra norme legali e regole morali? Si può immaginare che imprese sociali, cooperative e altre organizzazioni giochino un ruolo innovativo nella struttura della società?

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788878852846

Perché mercato?

Di tutto il lessico economico – e oggi anche politico – la parola mercato è senza dubbio alcuno la parola più frequentemente utilizzata nel discorso pubblico, oltre che nella conversazione privata. Forse è anche per questa ragione se la parola in oggetto è spesso fraintesa e soggetta a equivoci talvolta gravidi di pericolose conseguenze. Valgano alcuni esempi. Si fa confusione tra mercato come luogo in cui avvengono gli scambi di beni e servizi e mercato come modello di ordine sociale; tra mercato come meccanismo impersonale di coordinamento degli acquisti e vendite da parte di una moltitudine di individui e mercato come specifica istituzione sociale fondata su una particolare matrice culturale; tra mercato come cura e soluzione di tutti i mali esistenti nella società e mercato come causa remota degli stessi mali; infine, tra il mercato di cui tratta la scienza economica e quello di cui si occupano le altre scienze sociali. Queste e altre confusioni non porrebbero grossi problemi se ci si limitasse al puro confronto di idee o di opinioni. I guai sorgono quando la confusione di pensiero giunge a lambire il livello di chi è chiamato a prendere decisioni in ambito sia politico sia imprenditoriale. Per esempio, se il policy maker si acconcia a varare un certo provvedimento sulla base della credenza che il mercato funzioni così come descritto dalla teoria economica ufficiale, senza rendersi conto del fatto che le condizioni sotto le quali il mercato genera i risultati di ottimalità desiderati nella realtà mai possono essere soddisfatte, è evidente che le conseguenze di quel provvedimento non potranno che essere perverse. Non è forse questo ciò che è successo con la crisi economico-finanziaria tuttora in corso?
Le critiche, talvolta feroci o esagerate, contro l’ordine di mercato globale che l’uomo della strada sempre più spesso va oggi avanzando, sono bensì formulate in modo ingenuo o impreciso; ma esse esprimono comunque un disagio diffuso nei confronti di un sapere economico che dedica energie intellettuali e risorse finanziarie ingenti per raffinare la conoscenza di un ideal-tipo di mercato che mai potrà trovare concreta applicazione nelle nostre società odierne. È un po’ lo stesso tipo di disagio che si avvertirebbe nei confronti di una scienza medica che si dedicasse a studiare patologie che mai potranno diffondersi in una certa popolazione, anziché adoperarsi per lenire e curare le malattie già presenti in grande misura in quella popolazione.
Questo saggio è scritto avendo di mira un duplice intento. Per un verso, quello di contribuire a contrastare l’andazzo or ora denunciato. In una stagione come l’attuale, nella quale le forze del mercato controllano il pianeta, è quanto mai urgente cercare di comprendere cos’è il mercato, quale ne è cioè la natura propria; quando e perché l’economia di mercato è venuta in esistenza; come essa è evoluta nel corso del tempo; quali sfide il mercato deve oggi raccogliere e possibilmente vincere se si vuole che esso possa essere strumento di civilizzazione e luogo di umanizzazione dei rapporti economici. Per l’altro verso, l’intento è quello di sfatare il mito secondo cui quello economico sarebbe un sapere di esclusiva pertinenza degli addetti ai lavori, cioè degli esperti, i quali soli sarebbero in grado di padroneggiare e comprendere gli esoterismi e i tecnicismi della disciplina. Ciò non solamente è fattualmente falso, ma è pure inaccettabile da chi ha a cuore il principio democratico, dal momento che le questioni economiche coinvolgono tutti i membri della civitas, o come attori o come destinatari delle azioni altrui. Non ha dunque senso parlare di cittadinanza democratica se non si garantisce a tutti i cittadini una fruizione universalistica della cultura economica di base. Non è pertanto giusto privare la gran parte dei cittadini della comprensione di quei processi economici di cui essi sono parte e che influenzano la loro vita quotidiana.
In vista di ciò, mi occuperò in quel che segue del cosiddetto sapere ingenuo e dunque non mi attarderò a descrivere i tanti meccanismi di funzionamento del mercato, il più noto e importante dei quali è la celebre legge della domanda e dell’offerta. I manuali ai quali il lettore interessato può eventualmente rivolgersi sono ormai schiera: in bibliografia, ne darò sintetico conto. Né utilizzerò il breve spazio che ho a disposizione per descrivere con l’ausilio di strumenti statistici le performance dei vari mercati. Mi dedicherò, invece, ad approfondire i principi regolativi del mercato inteso come istituzione sociale. Proprio perché, oggi, non c’è alternativa credibile all’economia di mercato, è indispensabile far conoscere a tutti i presupposti di valore, i pregi e i difetti di tale fondamentale istituzione. In caso contrario ne risentirebbe pesantemente la difesa delle ragioni della libertà.
Se nel brano di Marco Tullio Cicerone, che riporto nel riquadro della pagina a fianco, alla parolacittàsi sostituisce quella di “mercati”, si ottiene la definizione forse più completa e afferente di cos’è in realtà il mercato. Nelle pagine che seguono chiarirò il senso preciso delle parole chiave che ricorrono in questo brano e indicherò una via d’uscita pervia dalla soffocante dicotomia che vede dominare, su un fronte, la tesi neoliberista secondo cui i mercati funzionano quasi sempre bene e dunque non ci sarebbe bisogno di invocare speciali interventi regolativi, e sull’altro fronte, la tesi neostatalista secondo cui i mercati quasi sempre falliscono e pertanto occorre chiamare in campo la mano visibile dello Stato. Mostrerò invece che, proprio perché i mercati talvolta o anche spesso non funzionano bene – come la realtà di tutti i giorni ci conferma –, è necessario intervenire per rimuovere le cause dei vari fallimenti piuttosto che limitarsi a correggere effetti degli stessi, come invece si preferisce fare. È questa la via che – come indicherò alla fine – è favorita da chi si colloca nell’alveo dell’economia civile di mercato. L’economia di mercato ha determinato, nel corso della sua rapida evoluzione, un cambiamento delle relazioni umane. Il mercato non è solo – anzi, non è tanto – un meccanismo efficiente di regolazione degli scambi. È anche – e forse soprattutto – un éthos, uno stile di vita. Il mercato scaturisce dall’Umanesimo civile del XV secolo e sviluppa poi un suo umanesimo. Comprendere questo è necessario per darsi conto di quel che oggi accade sotto i nostri occhi e per attrezzarsi a raccogliere le grandi sfide che globalizzazione e terza rivoluzione industriale vanno ponendo alle nostre società.
«Le città senza la convivenza umana non si sarebbero potute né edificare né popolare; di qui la costituzione delle leggi e dei costumi; di qui l’equa ripartizione dei doveri e una sicura norma di vita. Da tutto ciò ne conseguì la gentilezza degli animi e il rispetto reciproco. Onde avvenne che la vita fu più sicura e noi, col dare e col ricevere, cioè con lo scambiarci a vicenda i nostri averi e i nostri poteri, non sentimmo mancanza di nulla» (Dei doveri, II, IV).

Pilastri su cui si fonda il mercato

Primo pilastro: la divisione del lavoro

Quando si può dire che l’organizzazione della vita economica di una società avviene secondo il modello del mercato? In altro modo: quali sono le componenti fondamentali del mercato inteso quale istituzione sociale? È noto che quello economico è basicamente il problema di cosa produrre (quali beni e servizi gli uomini che vivono in società hanno bisogno o desiderio che vengano prodotti); di come produrre (con quale tecnologia e con quale organizzazione del lavoro si pensa di realizzare i molteplici piani di produzione); per chi produrre (a vantaggio di quali gruppi sociali devono andare i frutti del processo produttivo, cioè a dire come tali frutti si devono ripartire tra tutti coloro che vi hanno preso parte). Tre sono le soluzioni al problema economico che si sono storicamente realizzate. La più antica è quella delle cosiddette custom economies, delle economie cioè basate sulla tradizione e sul principio comunitario. Tale soluzione ha conosciuto, nel corso del tempo, una pluralità di varianti. Una di queste è stata quella della gerarchia sacrale. A partire dal XV secolo, invece, si è andata affermando in Europa continentale la soluzione del mercato di cui ci occupiamo in questo scritto, e a far tempo dalla Rivoluzione d’ottobre in Russia (1917) la soluzione dell’economia di comando basata sulla pianificazione centralizzata. Si rammenti che fino alla caduta del muro di Berlino (1989), il 60 per cento circa della popolazione mondiale viveva in paesi in cui si cercava, con scarso successo, di rispondere all’interrogativo del “cosa, come, per chi” produrre affidandosi al modello dell’economia di comando.
Un primo punto va dunque fissato: l’economia di mercato non è esistita sempre e ovunque, anche se oggi essa è rimasta l’unica forma di organizzazione della vita economica – le sole eccezioni essendo quelle di Cuba e della Corea del Nord, oltre che quelle poche realtà territoriali ancora caratterizzate dalla prevalenza di forme tradizionali di economia. Ciò non significa, però, che unico è il modo di realizzare nella pratica l’economia di mercato. Quest’ultima è bensì il genus, ma tante sono le species di economia di mercato che si possono attuare, ciascuna dipendente da una specifica matrice culturale. Per esempio, profonde sono le differenze tra il modello anglosassone e quello europeo-continentale di economia di mercato. Il primo è fondato su una netta separazione tra la sfera dell’economico e la sfera del sociale. «Gli affari sono affari» – insegnava negli anni Trenta il celebre studioso californiano di questioni aziendali Chester Barnard – per significare che la solidarietà e la giustizia sociale non appartengono al dominio del mercato. Sono gli enti filantropici il ponte che tiene collegate le due sfere. Sostanzialmente diverso è l’impianto concettuale che, fin dagli inizi, ha sorretto l’economia di mercato europea, dove l’impresa non è mai stata solo business – si pensi alle esperienze europee dei distretti industriali, delle società di mutuo soccorso, delle imprese cooperative, delle imprese pubbliche. Ma soprattutto al fondo del modello europeo c’è l’idea che il mercato è capace di ospitare al suo interno, oltre allo scambio di equivalenti, anche il principio di reciprocità. Su tale punto, di centrale rilevanza, ritornerò più avanti, per chiarire le differenze tra i due principi.

Specializzazione

Ciò precisato, ritorno all’interrogativo di partenza: cosa definisce l’identità di un’economia di mercato? Tre elementi costitutivi. Il primo è la divisione del lavoro. Si rifletta sulla seguente circostanza. In assenza di divisione del lavoro, ciascun individuo (o ciascuna famiglia) dovrebbe provvedere da sé a produrre tutti i beni di cui ha necessità per vivere. Ma cosa ne sarebbe per i meno dotati fisicamente o psichicamente? Sicuramente costoro non potrebbero sopravvivere in assenza della compassione o della benevolenza di qualcun altro (si legge nella Ricchezza delle Nazioni di A. Smith: «Solo il mendicante sceglie di dipendere principalmente dalla benevolenza dei suoi concittadini»). Il risultato vedrebbe un numero non irrilevante di persone perire se lasciate sole a far fronte alle forze della selezione naturale. Con la divisione del lavoro, invece, anche il cieco o lo storpio possono inserirsi con vantaggio nel processo produttivo, una volta che quest’ultimo venga reso adatto alle loro reali capacità. A sua volta, il processo di divisione del lavoro postula, di necessità, lo scambio sistematico e organizzato. Gli scambi irregolari durante fiere e feste religiose sono sempre esistiti, ma essi sono tutt’altra cosa rispetto agli scambi implicati dalla divisione del lavoro.
Il mercato, dunque, è un modo di organizzare la vita economica che consente alle persone di specializzarsi in quelle attività nelle quali sono relativamente più capaci – nelle quali cioè vantano un vantaggio comparato – e di ottenere poi, per via di scambio, quei beni e servizi necessari al loro adattamento (fitness) all’ambiente. In tal modo, anche gli individui meno dotati sono in grado di raggiungere lo stesso potenziale di sopravvivenza dei più dotati. Il mercato, operando contro la selezione naturale, è l’istituzione che consente una vasta diversità genetica, che consente cioè la sopravvivenza di molti tipi umani e pertanto è, di per sé, fattore di umanizzazione. Hanno scritto, recentemente, i filosofi-economisti David Schmidtz e Jason Brennan: «Di tutte le minacce e le speranze che riguardano il miglioramento delle condizioni di vita, le più grandi nel lungo periodo provengono da altri esseri umani. Storicamente, lo scambio è stato un grande liberatore». È lo scambio – si noti – a favorire l’unione in comunità dove si esercitano forme di cooperazione reciprocamente vantaggiosa.
Tra i primi a teorizzare in questo senso ci fu Erasmo da Rotterdam in Enchiridion Militis Christiani del 1503, quando avvertì che gli uomini, riconoscendosi mutuamente dipendenti in conseguenza della divisione del lavoro e del conseguente scambio, sono indotti a cooperare tra loro e a preservare la pace, perché la mutua dipendenza rende troppo oneroso il conflitto.
Sorge spontanea la domanda: come dimostrare che la specializzazione resa possibile dalla divisione del lavoro è economicamente ...

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  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. VOLUME I
  6. VOLUME II