Blues e storia del rock'n'roll
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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788865761731

Dall’America all’Inghilterra: il blues dal beat all’hard rock

In Inghilterra i generi più in auge tra la metà e la fine degli anni cinquanta erano lo skiffle di Lonnie Donegan, il trad jazz, il rock’n’roll autoctono di Tommy Steele e Cliff Richard (piuttosto debole rispetto all’originale) e il rock strumentale degli Shadows. Lo SKIFFLE nacque come un mix di folk e blues suonato con strumenti improvvisati (come il washboard, già utilizzato dalle jug bands). Il modello di ribellione giovanile dell’epoca fu incarnato dai teddy boys, più tardi trasformatisi nei rocker (piuttosto conservatori a livello di gusto musicale, legati all’archetipo del rock’n’roll) che avrebbero dato battaglia ai mod durante gli anni sessanta.
Oltremanica, già negli anni venti, la musica americana contava su un seguito agguerrito di appassionati. Oltre ai vari tipi di jazz, uno dei generi preferiti era proprio il country blues. Negli anni cinquanta, il successo dello skiffle spinse molti giovani a interessarsi ai dischi di folk e blues che lo avevano ispirato. Non ci volle molto perché nascesse una scena britannica votata a questi generi.
L’alba del nuovo decennio sorse con i Beatles e la cosiddetta «British Invasion». Lo stile Mersey Beat, nato a Liverpool e di cui i Beatles erano la punta di diamante, mescolava il rock’n’roll e il rhythm and blues nero con linee melodiche più morbide e armonie vocali ispirate al doo-wop. Nell’ondata che invase le classifiche di tutto il mondo, molti gruppi si persero (complessi di minor spessore come Searchers, Swinging Blue Jeans, Herman’s Hermits, Gerry & The Peacemakers, Rory Storm & The Hurricanes non durarono più di una breve stagione) ma i migliori fecero storia a sé, ponendo le basi della nuova musica rock.

I favolosi quattro

Tra le migliaia di giovani gruppi nati sull’onda dello skiffle ce n’era uno chiamato The Quarrymen. Il loro concerto del 6 luglio del 1957 alla St. Peter’s Church di Woolton, un sobborgo di Liverpool, fu l’occasione dell’incontro storico tra JOHN LENNON, leader di quel gruppo di adolescenti, e PAUL MCCARTNEY, un ragazzo più giovane ma altrettanto dotato.
A Liverpool il rock’n’roll non era particolarmente apprezzato. Il Cavern Club, che più tardi avrebbe accolto i Beatles, era consacrato al trad jazz. Per due volte, tra il 1960 e il 1961, Lennon, McCartney e George Harrison (insieme a Stuart Sutcliffe e a Pete Best) portarono armi e bagagli ad Amburgo nei locali del Reeperbahn, il quartiere a luci rosse di quella che ai tempi era considerata una capitale del vizio. Per riempire le lunghissime esibizioni (le performance serali duravano oltre quattro ore), i nostri ingollavano anfetamine e birra a tutto spiano e dovettero rimpolpare il repertorio con cover di Elvis Presley, Little Richard, Fats Domino, Buddy Holly ed Everly Brothers (Lennon e McCartney amavano riproporne le armonie vocali) e brani blues, rhythm and blues, country, skiffle, pop, standard e tradizionali. L’eterogeneità di quel repertorio, che spiazzò la Decca al punto da indurla al più celebre caso di miopia discografica della storia (i Beatles furono scartati perché «i gruppi con le chitarre non sono più di moda»), nutrì però l’abilità compositiva del duo Lennon/McCartney.
Entrambi erano ancora lontani dall’ottenere risultati sbalorditivi: il primo 45 giri, Love Me Do, era sì blueseggiante, ma piuttosto scialbo; l’unica anomalia era costituita dall’armonica (che tuttavia di blues aveva ben poco). Quel piccolo germe però era il primo sintomo dell’abilità di mescolare i generi musicali, sia seguendo sia sovvertendo le regole dell’armonia classica, che l’arte dei Beatles avrebbe fatto propria. From Me To You, I Wanna Hold Your Hand, She Loves You univano il rock’n’roll allo stile della musica leggera. Abili nelle melodie e negli arrangiamenti vocali (più tardi, con l’aiuto di George Martin, si sarebbero sbizzarriti anche in quelli strumentali), i Beatles conquistarono il pubblico giovane con il loro stile semplice e diretto, l’effervescenza dei ritornelli e il romanticismo delle ballate, scatenando in breve tempo la «Beatlemania».
Il 9 febbraio del 1964 si esibirono per la prima volta all’Ed Sullivan Show. Anni dopo Lester Bangs avrebbe scritto: «Considerate l’epoca: l’inizio del 1964. L’America aveva appena perduto un presidente che era apparso – in particolare ai più giovani – come la divina personificazione degli ideali nazionali, che era divenuto egli stesso un idolo della cultura giovanile. Eravamo depressi, avevamo bisogno di un’iniezione di anfetamina culturale, di qualcosa di eccitante, veloce, forte e superficiale per superare la frattura; avevamo bisogno di una doccia fredda per svegliarci».1
I primi dischi dei Beatles alternavano cover di brani rock’n’roll e rhythm and blues (Twist and Shout) ai primi originali firmati Lennon/McCartney. All’inventiva compositiva, spesso noncurante delle regole tradizionali, i Beatles univano la freschezza delle melodie e delle armonie vocali e un suono piacevolmente grezzo (su disco) e trascinante. Dovevano molto alla musica nera e, almeno all’inizio, ne trassero alcuni dei loro spunti migliori, dando una sterzata al melenso panorama pop dei primi anni sessanta. «Gli stilemi vocali che il pubblico bianco degli Stati Uniti avrebbe poi avvertito come esotici, le sequenze armoniche scambiate dai critici di musica classica per citazioni mahleriane, erano nella maggior parte dei casi adattamenti di Lennon e McCartney dai 78 giri di doo-wop e dai dischi della Tamla Motown».2 Con il blues e il rhythm and blues, come in seguito accadde con il folk rock, Dylan e i Beach Boys, i Beatles seppero essere ispirati e ispiratori, assorbire come spugne influenze diverse e riscriverle adattandole alla propria sensibilità. Tutto ciò che passava attraverso il loro filtro si arricchiva di un taglio squisitamente «beatlesiano».
Dopo la crescita dimostrata con Help (1965) e Rubber Soul (1965), Revolver (1966) e Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (1967) aprirono nuovi orizzonti alla band, i cui interessi si espandevano verso la musica classica, la musica indiana con le sue scale e i suoi bordoni (già accennati in Norwegian Wood) e le manipolazioni sonore rese possibili dalle nuove tecnologie di registrazione. In questo clima psichedelico la scrittura dei Beatles (di Lennon in particolare) divenne più raffinata ed elaborata. Tomorrow Never Knows (in cui la voce di Lennon rimbomba in pieno trip tra bordoni di sitar, nastri carichi di eco e percussioni sfasate) e Strawberry Fields Forever (nella quale l’uso di nastri riprodotti al contrario ed esecuzioni rallentate produce una sensazione di sfasamento anche a livello armonico) evocavano le percezioni alterate dei «viaggi» causati dall’LSD; A Day in the Life riprendeva il tema della suite – sviluppato, tra gli altri, dagli Who con A Quick One While He’s Away – legando brandelli di canzoni come i movimenti di una sinfonia con sezioni orchestrali di stridenti glissati. Sgt. Pepper’s incoronò in modo definitivo il 33 giri come la nuova misura espressiva del rock.
Ian MacDonald nel suo monumentale The Beatles. L’opera completa sottolinea come dopo Good Day Sunshine, registrata nel giugno del 1966, la prima canzone dei Beatles a servirsi nuovamente della scala blues fu Lady Madonna, incisa nel febbraio del 1968. Il blues tornava decisamente a farsi vivo nelle strutture di brani come Revolution, Everybody’s Got Something To Hide Except Me and My Monkey, Come Together e nello stile di Let It Be (1970) e Abbey Road (1969). Gli ultimi dischi dei Beatles rispecchiavano il mutamento del gusto che stava attraversando parte della scena musicale (da un lato il rock blues, dall’altra il rock progressivo). Le disparità di The Beatles (1968), il sensazionale White Album, di cui alcuni brani erano stati scritti durante il ritiro in India presso il guru Maharishi, segnavano l’inizio della disgregazione del quartetto, sempre più somma di contributi singoli e sempre meno unito, fino allo scioglimento avvenuto nel 1970. I Beatles rappresentano il magistero della canzone rock, che hanno trasformato in forma d’arte totale assimilandone i diversi linguaggi.

Bianco o nero

Alcuni critici preferiscono distinguere il rock inglese dei primi anni sessanta in due filoni: il primo, scaturito dal rock’n’roll bianco, vede i Beatles in prima linea, seguiti, tra gli altri da Who, Kinks e Small Faces; il secondo, che si riallaccia in maniera più diretta al blues e al rhythm and blues, ha come forza trainante i Rolling Stones insieme a band quali Animals, Yardbirds e Them. In realtà, le linee evolutive del beat rock non sono così divergenti. L’amore per la musica nera era uno dei capisaldi dell’estetica mod di cui Who e Small Faces possono essere considerati i pilastri, e ha generato fenomeni di riflesso come il Northern Soul.

Dal beat al… protopunk

Alcune band considerate derivanti dal rock’n’roll bianco avevano radici ben salde anche nella musica nera. Un focoso e adrenalinico rhythm and blues (Maximum R&B è il titolo di un celebre box retrospettivo) contrassegnava il sound degli WHO a partire dagli esordi a nome High Numbers. Se lo splendido lp di debutto non contenesse anche due cover di James Brown e una di Bo Diddley accanto ai potenti anthems a base di rock’n’roll, beat violento e pop acido, per capire il nesso con il rhythm and blues basterebbe l’iniziale Out in the Street, con il timbro nero da shouter di Roger Daltrey e l’attacco rovente della band. Raccontano le cronache che l’inno My Generation nasceva come un blues, ma anche nella versione definitiva contiene comunque il più memorabile call and response del rock, tra il balbettio di Daltrey, i cori, l’incredibile giro di basso di John Entwistle, le sciabolate della chitarra di Pete Townshend e la rutilante batteria di Keith Moon. Gli Who hanno trasformato il rhythm and blues in rock duro proprio come i Led Zeppelin e i Cream hanno fatto con il blues; a differenza di Page, Pete Townshend non era un virtuoso ma il più spettacolare dei chitarristi ritmici e un compositore straordinario: con i suoi accordi potenti, l’uso massiccio del feedback e il suo mood distruttivo ha contribuito a scrivere con anni di anticipo la grammatica di quello che sarebbe stato il punk.
Sul versante opposto di Londra, gli SMALL FACES, i rivali mod degli Who, iniziarono come una cover band di soul e rhythm and blues reinterpretando gli originali americani con dosi intensive di energia e feedback. Ed è con lo stesso spirito che la scrittura di Ronnie Lane e Steve Marriott (i due hanno firmato i maggiori successi della band) insegnava come si potevano trasformare gli elementi della musica nera – dal rhythm and blues al blues, al soul, a spruzzate di jazz – in un pop trascinante e riverberato di effetti psichedelici, annunciando il rock duro che Marriott avrebbe praticato con gli Humble Pie e il resto del gruppo nei Faces (insieme a Ron Wood e Rod Stewart).
A porre le basi dell’hard rock contribuì in maniera decisiva un brano dei KINKS, You Really Got Me: una canzone veloce, appena di due minuti, che gira intorno al riff più ossessivo e coriaceo dell’epoca, nel quale è evidente l’influenza del blues elettrico. I Kinks nascevano come gruppo rhythm and blues e da lì traevano la spinta per il loro beat irruente e minimale; nel giro di qualche album sarebbero diventati il gruppo britannico per eccellenza e Ray Davies, che concepiva le canzoni come vignette icastiche della vita contemporanea con un’eccentricità tutta inglese, uno degli autori pop più originali di sempre. Verso la metà degli anni sessanta, quando i gruppi contemporanei si convertivano alla psichedelia o al rock blues, Davies e i suoi guardavano indietro, alla tradizione del music hall e al folklore popolare, e riuscirono ad anticipare tendenze come il concept album e l’opera rock. Soltanto una serie di coincidenze sfortunate impedì ai Kinks di godere appieno dei frutti di queste intuizioni.
Una versione di You Really Got Me ancora più grezza fu il biglietto da visita dei TROGGS. La loro Wild Thing è uno dei pezzi clou di tutto il garage rock: di una semplicità disarmante, è basata su una sequenza di tre accordi in cui risuona la Louie Louie dei Kingsmen e la cui eco ritornerà in Blitzkrieg Bop dei Ramones.

La prima fase: il beat rock «nero»

Le figure di riferimento per il blues inglese degli anni sessanta sono due: Alexis Korner e John Mayall, ispiratori rispettivamente del filone «nero» del beat rock e del vero e proprio british blues. Se Mayall ha avuto un ruolo cruciale per il rock blues della seconda metà degli anni sessanta, Korner è stato il primo a diffondere il verbo del blues elettrico nella terra d’Albione.
All’inizio degli anni sessanta, ALEXIS KORNER e l’armonicista Cyril Davies lasciarono la band di Chris Barber – un musicista trad jazz che aveva dimostrato grande interesse nei confronti del blues – per formarne una propria, i Blues Incorporated. Si trattava di una formazione aperta in cui militarono molte delle future stelle del rock inglese e che rappresentò per l’epoca il primo gruppo bianco di blues elettrico. I Blues Inc. trovarono «casa» prima all’Ealing Club e poi al Marquee, un club jazz in Wardour Street, a Londra; qui registrarono il primo lp R&B From The Marquee (1962), una rilettura del blues moderno americano secondo i nuovi canoni inglesi. In Blues Incorporated (1964), che tentò con successo l...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Introduzione
  3. Il blues innanzitutto. Di che cosa stiamo parlando
  4. Da Elvis a Bob Dylan
  5. Dall’America all’Inghilterra: il blues dal beat all’hard rock
  6. Soul, funk: dal rhythm and blues nasce la nuova black music
  7. Il nuovo rock americano degli anni sessanta
  8. Dagli anni settanta al Duemila
  9. Per approfondire