1. Da Odisseo a Edipo
Il 4 giugno 1941, al calar delle tenebre, una ragguardevole folla di profughi europei di ogni estrazione sociale si presentò al Wyndham Hotel, nel centro di Manhattan, per un evento senza precedenti: Stefan Zweig dava un cocktail party. Era il primo ricevimento di grosse dimensioni che organizzava da quando aveva lasciato la sua casa e la prima moglie Friderike a Salisburgo, sette anni prima. Anzi, in realtà non avrebbe mai potuto organizzare un evento simile neppure in Austria, dato che al Wyndham aprì le porte agli émigrés invitando chiunque conoscesse. Per l’occasione, Klaus Mann arrivò fin dalla casa di Brooklyn Heights che condivideva, tra gli altri, con W.H. Auden e Gypsy Rose Lee. Hermann Broch, la cui salute cagionevole non ne spegneva il desiderio di vedere gli amici, molto probabilmente sarà arrivato da Princeton in treno. Il romanziere tedesco Hermann Kesten e Jules Romains, presidente del Pen International, non avranno voluto esimersi dal partecipare. Friderike Zweig, la cui vita era ancora profondamente intrecciata con quella di Stefan, fu certamente invitata.
Vedere questo gruppo di uomini e donne – molti dei quali ora vivevano al limite dell’indigenza e avevano sofferto disgrazie ben peggiori di quelle toccate a Zweig prima di arrivare in America – diretto al lussuoso albergo avrà suscitato un certo stupore nei dintorni di Park Avenue, appena a est del Wyndham. Come annotato qualche tempo dopo il ricevimento da un sociologo émigré: «Un profugo è una novità, dieci profughi sono una noia, cento profughi sono una minaccia».
Tornato a Manhattan a fine gennaio dopo un ciclo di conferenze in Sudamerica, Zweig aveva fatto del suo meglio per evitare la fitta schiera di conoscenti finiti come lui nella città. Per tutto l’inverno aveva condotto quella che definiva un’esistenza da eremita. La sua vita sociale si era limitata ad Alfred, il maggiore dei suoi fratelli, che aveva guidato l’azienda tessile di famiglia in Europa e, prima dell’ascesa di Hitler, era riuscito a trasferire abbastanza fondi da stabilirsi nell’Upper East Side; a Ben Huebsch, il suo fedele editore della Viking Press; all’adorata nipote di Lotte, Eva, che a soli undici anni era stata mandata negli Stati Uniti per sfuggire ai bombardamenti e di cui gli Zweig erano tutori; e a Friderike. Con l’arrivo della primavera, però, le barriere che aveva tentato di erigere per prendere le distanze dalla comunità di émigrés avevano iniziato a sgretolarsi, mandandolo sull’orlo di una crisi di nervi.
Il tema più frequente, nelle lettere scritte a New York, è il senso di soffocamento causatogli dalle esigenze degli altri profughi. «Dover vedere cinque o sei persone ogni giorno mi esaurisce» lamentava. «Il telefono inizia a suonare all’alba e non smette fin nel cuore della notte… Ormai conosco tra le 200 e le 300 persone a New York e tutte loro si offenderebbero se mi rifiutassi di riceverle.» Cosa ancor peggiore, si preoccupava Zweig, al contrario di Thomas Mann lui non aveva acquisito la benché minima capacità di economizzare il proprio tempo. «Mentre lui riesce a liberarsi di qualunque visitatore nel giro di un’ora, i miei non si fermano mai meno di tre.»
A quanto pare, dunque, a nutrire perplessità su quel ricevimento non era soltanto il vicinato. Molti invitati, consci della deriva solitaria adottata da Zweig, si saranno chiesti cosa ci facessero lì. Che il loro anfitrione avesse qualche importante annuncio da fare? Che avesse finalmente deciso di dire la sua sulla difficile situazione degli ebrei in Europa esortando un intervento militare, come i suoi compagni di sventura si auguravano facesse ormai da tempo? Uno dopo l’altro, gli ospiti si riversarono nel piccolo atrio dell’albergo e da lì in ascensore per poi bussare alla porta di Zweig, andando ad aggiungersi alla densa moltitudine che saturava le due stanze di quella suite dall’aria straordinariamente modesta. Dalle finestre ammirarono quelle che una volta Zweig aveva definito i «miliardi di stelle artificiali» di Manhattan, disposte a adornare grattacieli che parevano «blocchi di roccia dalle estremità puntute». Chiacchierarono. Bevvero schnapps. Mangiarono salatini. Si guardarono intorno, in attesa di qualcosa in più.
Chi lo conosceva meno potrebbe essere rimasto deluso nel riscontrare una così scarsa evidenza della tanto millantata ricchezza di Zweig nelle sue stanze d’albergo di New York. Gli amici a lui più vicini, però, sapevano che aveva già svenduto tutto, comprese la sua collezione di centinaia di preziosi manoscritti originali, di cui aveva conservato solo un ridotto portfolio, e quasi tutta la sua biblioteca da diecimila volumi. Quel poco che aveva portato con sé in tutti i suoi viaggi, però, era estremamente significativo: gran parte di ciò che rimaneva dei suoi tesori era costituita da spartiti musicali, inclusi diversi pezzi di Mozart, Kurz ist der Schmerz (Breve è il dolore) di Beethoven, un’opera di Händel e una di Schubert. Aveva collezionato quasi solo brani della metà degli anni trenta e, quando nel 1937 disse a uno dei destinatari delle sue lettere che le vere basi del suo essere risiedevano nell’arte, era alla musica che pensava, in qualità di mezzo migliore per superare le sofferenze che dividevano l’umanità, forgiando la solidarietà dello spirito.
Questo tipo di convinzione si rifaceva alla credenza, profondamente radicata in tutti i viennesi, che la peculiare grazia della città derivasse dalla sua capacità di combinare sensuali tradizioni popolari con elevate aspirazioni estetiche. I devoti sognatori della capitale credevano che Vienna avesse trovato il modo di modellare lo spirito, convertendolo in materia e unificando così diversi settori della società. In un suo saggio su Zweig, Klaus Mann spiega che nella Vienna dell’epoca «i baroni e i cocchieri di fiacre si capivano alla perfezione: usavano lo stesso vocabolario e spesso condividevano le stesse idee». In occasione del loro primo incontro, nel 1930, Zweig illustrò al poeta operaio Walter Bauer la sua convinzione secondo cui la vita dello spirito fosse radicata nelle masse incapaci di esprimersi, che costituivano le profondità da cui sarebbe giunta l’illuminazione. La medesima convinzione potrebbe spiegare perché abbia conservato con maggiore cura i manoscritti della sua collezione che erano più scarabocchiati, consunti e macchiati, a testimonianza degli sforzi compiuti dall’autore per estrapolare il sublime dal corporeo nel suo momento più tormentato. A Vienna, il calamaio dell’inchiostro divino era stato rovesciato. Ovunque nell’aria gli angeli avevano lasciato le loro impronte, in particolare all’interno dell’ampio teatro dell’Opera, dove Zweig, come ricorda nella sua autobiografia, si introduceva di nascosto nel «palcoscenico cui lo spettatore s’accostava con l’emozione di Virgilio quando ascese le sacre sfere del Paradiso».
Tra gli amici di Zweig c’era chi era convinto che il suo amore per la musica avrebbe potuto salvarlo, se vi si fosse dedicato più attivamente. Madame Gisella Selden-Goth, una musicologa con cui intrattenne una vivace corrispondenza per l’intera durata del suo esilio, ha dichiarato che, se a Petrópolis Zweig avesse avuto a disposizione «un’orchestra di musica da camera che suonasse a casa sua, o la possibilità di ascoltare, di tanto in tanto, un concerto tenuto da uno dei direttori d’orchestra che conosceva così bene», sarebbe riuscito a sopportare la sua angosciosa visione del futuro dell’umanità e del proprio destino. L’immagine di un’orchestrina da camera terapeutica, ammassata nel piccolo villino tra le montagne di Zweig, sull’orlo della densa foresta brasiliana nel 1942 è tanto improbabile quanto commovente. Di certo Zweig faceva di tutto per «preservare il mondo della musica puro e libero dalla cacofonia della politica», come scrisse a un altro amico. Fu anche per questo che scelse di continuare a lavorare con Richard Strauss anche dopo che questi fu nominato presidente della Reichsmusikkammer da Goebbels.
Tuttavia, lo sforzo necessario per mantenere un impossibile distinguo tra l’arte e gli eventi che dominavano le prime pagine dei giornali lo condannò a dolorosi contorcimenti. Nel partecipare per l’ultima volta al festival di Salisburgo, nel 1935, quando era già partito in esilio volontario dall’Austria, non poté fare a meno di descrivere la cittadina che si era dimostrata tanto permeabile al nazionalsocialismo con generosità e amore, celebrandone la capacità di risolvere «melodiosamente, nella pietra come nell’atmosfera, ciò che nella realtà di norma si trova brutalmente agli opposti». Nelle parole di Zweig, Salisburgo aveva appreso il segreto di questa armonizzazione delle dissonanze grazie alla musica. E «in quelle rare giornate in cui il cielo si fonde con il panorama», mentre gli artisti più celebri dell’epoca suonavano «opere sublimi come il Fidelio, Il flauto magico o Orfeo e Euridice nel cuore di un mondo in frantumi, in quest’epoca ormai in frantumi, ci si sente attratti verso le sfere supreme e si sperimenta lo stato di grazia che si produce solamente quando natura e arte, arte e natura, si scambiano un bacio».
Il suono del tedesco fluiva dalle stanze d’albergo di Zweig, forse a volume tale da provocare in una qualche misura costernazione, se non addirittura avversione, negli altri residenti al Wyndham. I giornali traboccavano dei segnali di un’imminente entrata in guerra degli Stati Uniti: previsioni sulla necessità di assumere un milione di nuovi lavoratori nel settore della difesa per i mesi successivi; l’appoggio del presidente Roosevelt a una legge che consentiva l’esproprio di qualsiasi proprietà privata considerata utile ai fini dello sforzo bellico; le esortazioni a aderire alle «domeniche senz’auto» in modo da conservare il carburante per la battaglia di lì a venire. Due giorni prima del ricevimento di Zweig, un membro del Congresso del New Jersey era rientrato da un giro nella regione annunciando che le piazzeforti intorno a New York erano infestate di spie che avrebbero potuto «far crollare tutte le difese della zona».
Ad alimentare le tensioni in città c’era anche la questione della lealtà di una comunità tedesca che aveva ormai superato i duecentocinquantamila individui. Zweig non era ancora arrivato a New York, quando, due anni prima, ventiduemila membri del German-American Bund, la principale organizzazione nazista degli Stati Uniti, avevano indetto un raduno al Madison Square Garden nel giorno dedicato a George Washington: il Times riferì di un mare di «striscioni antisemiti o inneggianti al nazismo, membri del Bund in uniforme, emblemi e bandiere». Poco tempo prima, il parco di Flushing Meadows era diventato teatro di manovre militari mirate a preparare le milizie di simpatizzanti nazisti al giorno in cui il sangue avrebbe cominciato a scorrere per le strade degli Stati Uniti. Era emerso persino un complotto del Bund, che intendeva far fuori alcuni grossi banchieri per destabilizzare il governo. I cittadini più attenti drizzavano le orecchie ogni volta che sentivano un accenno di tedesco, sempre alla ricerca di potenziali sabotatori. L’Aufbau, il principale giornale in lingua tedesca dei profughi, pubblicò avvertimenti a caratteri cubitali per coloro tra i suoi lettori che speravano di americanizzarsi: «Non parlate tedesco per strada o nei luoghi pubblici! Se non sapete bene l’inglese, parlate a voce bassa».
La nuova parola d’ordine era discrezione. E Zweig, che due anni prima si trovava in Inghilterra, quando il paese aveva dichiarato guerra al Reich, era perfettamente consapevole di quanto fosse facile passare da «profugo» a «straniero nemico» (enemy alien) dal giorno alla notte.
Quella sera, però, pareva aver momentaneamente dimenticato le sue angosce. Fluttuava da un ospite all’altro con affabile cordialità, mentre Lotte lo assisteva con destrezza. Friderike si compiaceva del fatto che l’ex marito, il quale le aveva espressamente chiesto di continuare a usare il suo cognome, non si facesse scrupolo di apparire al suo fianco in pubblico. Dopotutto erano stati sposati per quasi vent’anni, mentre la gracile, riservata segretaria era sua moglie solo da due. Zweig assunse quindi ancora una volta il ruolo di perfetto anfitrione per il quale era tanto conosciuto in Austria. Eccolo passare da un gruppo all’altro «con un passo leggero e agile che ricordava un ballerino, un Mercurio» scrisse Charles Baudouin, psicanalista franco-svizzero. Baudouin era incantato dalla maniera in cui Zweig sfruttava «tutto il suo talento da intermediario». I suoi modi avrebbero potuto definirsi quasi felini, «se questo termine fosse in grado di evocare un’innata eleganza nei movimenti senza implicare malignità o astuzia». Dietro una creatura di grande intelligenza, scrisse ancora Baudouin, «c’è un essere fatto di istinto e di grazia, un gusto per la caccia convertito nella continua ricerca di contatto umano».
Un interessante spezzone di pellicola preservatosi fino a oggi mostra Stefan Zweig a un ricevimento in un giardino di Salisburgo nell’estate del 1933, sei mesi dopo l’elezione di Hitler a Cancelliere tedesco e sei prima che iniziasse il suo esilio permanente. Con il suo metro e settantaquattro di altezza, è il più alto tra i presenti. Sulla grossa testa, i capelli scuri sono tagliati corti e lisciati all’indietro. La fronte è lucida; gli occhi piccoli, scuri e brillanti. Il naso è aquilino. Non porta la giacca e la sua cravatta a righe è elegante e audace insieme. Tra le dita tiene con noncuranza un sigaro. Viene inquadrato solo per pochi secondi, ma l’incessante dinamismo, il s...