Bombardate Auschwitz
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Bombardate Auschwitz

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L'attacco aereo su Auschwitz era richiesto dalle organizzazioni ebraiche più influenti e dagli stessi deportati, che lo invocarono più volte come estrema speranza nella fase culminante della Shoah, tra il maggio e il novembre del 1944. Ma dagli alti comandi alleati l'ordine – tecnicamente attuabile – non fu mai dato, e la macchina di sterminio nazista, lasciata indenne, poté aggiungere almeno centomila vittime al suo immane bottino. Dando voce a protagonisti come Elie Wiesel, sopravvissuto ad Auschwitz e premio Nobel per la pace, Henry Morgenthau iii, figlio del segretario al Tesoro dell'Amministrazione Roosevelt, Alfred Weber, ingegnere di volo della 15 Us Air Force, e David Wyman, tra i maggiori storici dell'Olocausto, oltre che a documenti e materiali d'archivio inediti, Bombardate Auschwitz ricostruisce la tremenda sfida politica, militare, burocratica che si giocò sulla testa di migliaia d'innocenti condannati a morte. Una sfida che coinvolse i vertici del governo statunitense.Già alla fine del 1942, il presidente Roosevelt, letto il primo rapporto sullo sterminio, dichiarò che l'America avrebbe fermato l'abominio, impegnandosi con queste parole: «I mulini degli dèi macinano lentamente, ma macinano straordinariamente fino». Nel 1944 le macine restarono ferme. Perché?Questo libro contiene molte domande e alcune risposte sul prolungato «silenzio degli Alleati», e sulle responsabilità morali di inglesi e americani, evocate da Elie Wiesel in una frase che esprime tutto il suo abbattimento: «Quando vedevamo i bombardieri passare sulle nostre teste speravamo, pregavamo che colpissero il campo. Ma non l'hanno fatto…».

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788865764060
Argomento
History

1. Il cielo sopra Auschwitz

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Sembrano formiche, nere file di formiche disposte in ordine irregolare. Un’anomalia cromatica nel bianco geometrico, sinistramente ortogonale, delle baracche allineate, delle strade che tagliano il terreno, nelle sagome grigie dei tanti vagoni ferroviari, fermi a fine corsa. Se ne contano trentatré. Dall’alto sembra un treno normale, non si vedono né gli sportelli piombati, né il filo spinato che circonda in una morsa le strette prese d’aria.
Le file si dirigono verso due grandi edifici oblunghi, sopra i quali si disegna l’ombra delle ciminiere.
Gli analisti della Cia che, alla fine degli anni settanta, trovarono queste immagini negli Archivi nazionali di Suitland, Maryland, identificarono i due blocchi come «Camera a gas e crematorio» II e III, rispettivamente. Siamo nel campo di sterminio nazista di Auschwitz-Birkenau, nell’attuale Polonia. La luce netta dell’estate fa risaltare ogni dettaglio: gli uomini e le donne in fila accanto ai vagoni si spingono fino a quell’estremità del campo dominata dalle due alte torri delle ciminiere. Forse vengono dall’Ungheria, come molti altri in quell’estate del 1944; probabilmente sono già stati selezionati per il «trattamento speciale», appena arrivati ad Auschwitz. I fotogrammi questo non possono dirlo con certezza. Non possono mostrare i volti di quegli esseri umani incamminati verso l’inconcepibile, né dar conto delle decine di migliaia di internati – in gran parte ebrei – che in quell’istante erano alloggiati nelle grandi baracche degli oltre quaranta campi della galassia concentrazionaria di Auschwitz-Birkenau: il «bosco delle betulle» che per oltre quattro anni, tra il 1940 e il 1945, inghiottì centinaia di migliaia di vite. In quell’immagine dimenticata per trent’anni in un archivio, però, c’è qualcosa che nessun altro documento o testimonianza aveva mai raccontato prima: un frammento di Olocausto in presa diretta.
È il 25 agosto 1944 quando questo frammento viene impresso su pellicola da un ricognitore statunitense in volo verso la zona industriale dell’Alta Slesia, incaricato di verificare i danni inflitti il giorno prima dai bombardamenti alleati a sette impianti petroliferi. Si calcola che tra l’inizio dell’aprile 1944 e l’arrivo dell’Armata rossa – il 27 gennaio 1945 – il campo di sterminio di Auschwitz fu fotografato dagli aerei alleati non meno di trenta volte. Ma nessuno interpretò quelle foto, nessuno disse agli equipaggi dei bombardieri – che partivano dalle basi attivate in quei mesi intorno a Foggia – su cosa avrebbero volato.
Al Weber ricorda: «La rotta di avvicinamento che ci avevano assegnato in una delle missioni passava esattamente su Auschwitz. Ma quando guardi giù dall’alto, da 22 000 piedi, un campo di concentramento ti sembra un normale campo militare».
Weber aveva vent’anni quando si infilò nella torretta sferica di un bombardiere B24 Liberator, preparandosi a volare per centinaia di chilometri sul territorio nemico: Jugoslavia, Austria, Cecoslovacchia, Germania e Polonia.
Ventisei missioni in tutto, due volte abbattuto dalla contraerea. Il suo gruppo di volo – il 464º del 776º squadrone della 15th Us Air Force – dalla primavera del 1944 era di stanza nelle basi della Puglia settentrionale, ed ebbe un ruolo chiave nella cosiddetta «guerra del petrolio», la campagna di massicci bombardamenti che doveva mettere in ginocchio l’industria petrolifera tedesca. La campagna culminò proprio nell’estate del 1944, e proprio la regione in cui si trova Auschwitz – l’Alta Slesia – era il cuore della martellante offensiva aerea. «All’epoca non sapevo neanche che esistesse un posto chiamato Auschwitz, non avevo idea che stessi volando sopra un campo nel quale stavano sterminando il mio popolo» racconta Weber, ingegnere di volo ma soprattutto americano di origine ebraica.
Gli aerei passano senza vedere. Le fotocamere registrano istantanee dell’orrore, ma solo a futura memoria. Il giorno prima di quegli scatti, ad Auschwitz, il rombo dei bombardieri in avvicinamento si comincia a sentire da lontano. Fa vibrare le assi di legno delle baracche e i cuori del popolo internato nel campo di sterminio.
Allora cominciammo a sentire gli aeroplani. Quasi subito le baracche si misero a tremare.
«Bombardano Buna!» gridò qualcuno.
Io pensavo a mio padre. Ma ero ugualmente felice. Vedere la fabbrica consumarsi nell’incendio, che vendetta! Avevamo sentito parlare delle sconfitte delle truppe tedesche sui diversi fronti ma non si sapeva se dovevamo crederci troppo. Oggi era diverso!*
Elie Wiesel non ha ancora compiuto 16 anni, quel giorno di agosto del 1944. È arrivato ad Auschwitz-Birkenau quattro mesi prima, deportato dai nazisti con tutta la famiglia dal villaggio di Sighet, in Transilvania, al confine tra Ungheria e Romania. Con il padre Shlomo è costretto a spaccarsi la schiena a Buna-Monowitz, un campo di lavoro che dista otto chilometri da Auschwitz ed è annesso alla famigerata fabbrica di prodotti chimici e petrolio sintetico IG Farben. Nella disperazione assoluta di Buna e Birkenau, quegli aerei carichi di micidiali ordigni da 500 libbre rappresentano una paradossale visione di speranza.
Nessuno di noi aveva paura, eppure se una bomba fosse cascata sui blocchi avrebbe fatto centinaia di vittime in un colpo solo. Ma non temevamo più la morte, e in ogni caso non quel tipo di morte. Ogni bomba che esplodeva ci riempiva di gioia, ci ridava fiducia nella vita.
Una visione, quella di Wiesel, condivisa anche da altri prigionieri, se non da tutti. Il rombo degli aerei alleati, le bombe che cadevano dal cielo sulla macchina da guerra nazista: per la prima volta, nelle baracche del lager, arrivava la manifestazione tangibile che esisteva ancora un mondo al di fuori del filo spinato, e che quel mondo non avrebbe tollerato ancora che esistessero posti come Auschwitz. Wiesel racconta di aver visto per la prima volta «le tracce di una grande paura» sul volto del capo del campo di Buna-Monowitz: il terrore del carnefice risvegliava la fiducia e la voglia di vivere della vittima.
Mark Liebowitz non era a Buna come Wiesel, era nel campo principale di Birkenau. A distanza di decenni ricorda ancora nitidamente le immagini del primo giorno in cui i bombardieri americani proiettarono la loro sagoma nel cielo sopra Auschwitz. Lo racconta allo storico americano Stuart Erdheim, autore del documentario They Looked Away («Guardarono da un’altra parte»). Quelli che volsero lo sguardo furono gli Alleati, che non fecero nulla per fermare le macchine di sterminio naziste. «Sentivamo quel rumore che si avvicinava» racconta Liebowitz. «All’improvviso alzammo gli occhi. Vedemmo che il cielo, tutto il cielo sopra di noi, era diventato simile a un grande specchio.»
Decine di migliaia di internati inchiodati con i piedi nel fango alzano la testa simultaneamente, a bocca aperta di fronte a una scena inattesa, che tutto cambia: si specchiano in quei colossi volanti, scintillanti, come in un sogno fatto in un’altra vita. È Liebowitz a descrivere quel momento di stupore che si fa speranza: «Le pance dei bombardieri che a decine riempivano il cielo riflettevano la luce del sole. Vedemmo quello specchio accendersi e illuminare il mondo».
L’illusione di Mark Liebowitz e degli altri internati ad Auschwitz dura poco più di un’ora.
I bombardieri americani non erano venuti per loro. Le 127 Fortezze volanti della 15th Us Air Force erano venute per distruggere l’impianto petrolifero di Buna-Monowitz, a soli otto chilometri dalle ciminiere dei crematori di Birkenau. 1336 bombe da 500 libbre caddero, in quel giorno di agosto, sugli impianti industriali tedeschi. Nessuna su Auschwitz.
Le incursioni alleate sul suolo di Germania e su quello dei territori ancora occupati erano aumentate esponenzialmente. Dallo sbarco in Normandia, avvenuto due mesi prima, americani e inglesi avevano ormai il dominio dei cieli. La Luftwaffe di Göring – che aveva promesso «mai una bomba nemica cadrà sul suolo tedesco» – era ridotta in brandelli.
Applicando la strategia del moral bombing, le flotte aeree di Harris e Spaatz colpivano ovunque: dalle grandi città, alle centrali elettriche, agli impianti industriali. Ci furono anche continui attacchi alle ferrovie della Reichsbahn, che distrussero locomotive, binari, ponti e scali.
Elie Wiesel racconta che una bomba cadde al centro del campo dove erano alloggiati gli internati costretti ai lavori forzati in fabbrica. Si conficcò nei pressi del piazzale principale, ma non esplose e fu successivamente rimossa dagli stessi prigionieri su ordine dei tedeschi.
All’orizzonte si alzava una larga striscia di fumo nero. Le sirene si rimisero a urlare: era la fine dell’allarme. Tutti uscimmo dai blocchi. Respiravamo a pieni polmoni l’aria piena di fuoco e di fumo, e gli occhi erano illuminati di speranza.
Una speranza incongrua, non tanto perché sia inconcepibile trarre ragione di fiducia dal trovarsi nel mirino di decine di bombardieri, che torneranno ancora in ripetute missioni a scaricare tutta la loro potenza distruttiva, quanto perché sulle carte dei navigatori alleati i campi di sterminio semplicemente non esistevano. L’ordine era di distruggere gli impianti che permettevano a Hitler di fabbricare petrolio sintetico per le sue armate e quindi di sperare ancora di poter vincere la guerra, non certo quello di porre fine allo sterminio pianificato di milioni di esseri umani.
Molti anni dopo, nel 1983, Dino Brugioni – uno degli analisti della Cia che trovarono le foto – scriverà:
Parallelamente al tragico fallimento degli allora specialisti di foto aeree nell’identificare il complesso di sterminio di Auschwitz-Birkenau, c’è da registrare l’ugualmente tragico fallimento degli alti comandi alleati che non si accorsero dell’esistenza stessa di queste fotografie. Ci furono molti appelli da diverse organizzazioni per bombardare il campo, i ponti e le linee ferroviarie che portavano ad Auschwitz. Questi appelli raggiunsero i livelli più alti, compresi il primo ministro Winston Churchill e il presidente Franklin Delano Roosevelt. Quando agli esperti fu ordinato di formulare i piani per colpire Auschwitz, gli ufficiali del ministero dell’Aviazione, del comando bombardieri della Raf e dell’8a Us Air Force lamentarono di non avere le riprese della ricognizione.
In realtà, queste foto erano agevolmente disponibili all’unità centrale di analisi Alleata alla stazione di Medmenham, 50 miglia da Londra, e all’ufficio Alleato ricognizione in Italia. Somma ironia, nessuna di queste strutture avviò una ricerca di queste immagini.**
Ecco allora che le parole di Wiesel suonano come un epitaffio:
Il bombardamento durò più di un’ora. Se avesse potuto durare dieci volte dieci ore… Poi il silenzio si ristabilì. Svanito col vento l’ultimo rombo d’aeroplano americano, noi ci ritrovammo nel nostro cimitero.***
Un silenzio di morte torna a gravare su Auschwitz, dopo che per un attimo un lampo di luce ha invaso gli occhi di Mark Liebowitz e dei suoi compagni.
Perché l’aviazione alleata non fece nulla per fermare la macchina di sterminio nazista?
* Elie Wiesel, La notte, Giuntina, Firenze 1995.
** Cit. in Military Intelligence, 9, n. 1, gennaio-marzo 1983.
*** Elie Wiesel, La notte, cit.

2. La memoria di Roosevelt

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Se c’è una risposta alla domanda «Perché non si mossero?», forse è nascosta nelle pieghe degli archivi del governo degli Stati Uniti d’America. La nostra ricerca comincia da Hyde Park, nello stato di New York. È qui che, a cavallo tra gli anni trenta e quaranta, Franklin Delano Roosevelt amava ritirarsi, mentre era in carica come trentaduesimo presidente degli Stati Uniti. Una grande casa in stile coloniale olandese sulle rive del fiume Hudson.
Qui riceveva gli ospiti privati, ma soprattutto i capi di stato e di governo ammessi nello spazio che andava oltre l’ufficialità di Washington, negli anni in cui il New Deal provava a lenire i mali della Grande depressione. È tra queste mura, nella cittadina in cui nacque, che Roosevelt pronunciò alcuni dei suoi celebri fireside chats, i «discorsi del caminetto» che attraverso la radio fecero entrare il presidente nel salotto di tutti gli americani, lasciando loro immaginare di essere dentro lo Studio ovale della Casa Bianca. Da qui Roosevelt lesse l’ultimo appello elettorale radiofonico prima delle presidenziali, in tutte e quattro le occasioni (1932, 1936, 1940 e 1944) in cui – caso unico per longevità nella storia degli Stati Uniti – venne scelto per guidare la nazione fuori dalla grande crisi e poi dentro l’evento bellico più tragico del XX secolo.
Resta memorabile il suo discorso all’America – e al mondo – dell’8 dicembre del 1941, dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor, passato alla storia come «il discorso dell’infamia»:
Ieri, 7 Dicembre 1941, una data segnata dall’infamia, gli Stati Uniti d’America sono stati improvvisamente ed intenzionalmente attaccati dalle forze aeree e navali dell’Impero del Giappone.
Gli Stati Uniti erano in pace con questo paese e, su richiesta del Giappone, erano ancora in contatto con il suo Governo e il suo Imperatore nel tentativo di mantenere la pace nel Pacifico […]. Il Governo Giapponese ha intenzionalmente cercato di ingannare gli Stati Uniti facendo dichiarazioni false ed esprimendosi in favore del proseguimento della pace. L’attacco di ieri alle Isole Hawaii ha arrecato un grave danno alle forze militari e navali americane. Un numero ingente di vite americane è stato perso […]. Gli accadimenti di ieri parlano da soli. Il popolo degli Stati Uniti si è già fatto un’idea ed è ben conscio delle implicazioni per la stessa vita e la salvezza della nostra nazione […] Rimarrà per sempre nelle nostre menti l’attacco furioso nei nostri confronti. Non importa quanto tempo occorrerà per riprenderci da questa invasione premeditata, il popolo americano con tutta la sua forza riuscirà ad assicurarsi una vittoria schiacciante. Ritengo di farmi interprete della volontà del Congresso e del popolo quando affermo che non solo ci difenderemo fino all’ultimo, ma faremo quanto necessario per essere sicuri che questa forma di tradimento non ci metta mai più in pericolo. […] Accordando fiducia alle nostre forze armate, e con la sconfinata determinazione del nostro popolo, raggiungeremo l’inevitabile vittoria, in nome di Dio.
Ma facciamo un passo indietro. Mentre in Europa si addensano nubi di tempesta, in questo remoto angolo dello stato di New York, nel giugno 1939, vengono a trascorrere un fine settimana re Giorgio d’Inghilterra e la regina Elisabetta. Eleanor Roosevelt li descrive in abito da picnic, lei e la regina sedute all’ombra degli alberi mentre il re e il presidente nuotano in piscina. Una folla immensa, si dice, li salutò quando ripresero il treno nella piccola stazione ferroviaria. Alla vigilia del più devastante conflitto della storia umana, quell’incontro servì a rinsaldare un’alleanza che poi sarà messa a dura prova dalle vicende dei lunghissimi mesi successivi.
Roosevelt incontrerà Churchill sette volte, durante la guerra, di cui due nella residenza privata di Hyde Park, nel gennaio 1942 (nome in codice: Arcadia) e nell’agosto del 1943 (nome in codice: Quadrant). Veri e propri consigli di guerra durante i quali furono decise le mosse degli Alleati nel teatro europeo e in quello del Pacifico.
Eleanor Roosevelt ric...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Bombardate Auschwitz
  3. Introduzione
  4. 1. Il cielo sopra Auschwitz
  5. 2. La memoria di Roosevelt
  6. 3. L’ira di Morgenthau: io vi accuso
  7. 4. Nuove speranze e il freno dei militari
  8. 5. Le tabelle di Wisliceny
  9. 6. Dinieghi, ritardi e omissioni
  10. 7. Un ultimo tentativo
  11. Coda – L’ombra del presidente, l’imperativo morale
  12. Appendice
  13. Prefazione
  14. I. Auschwitz e Birkenau
  15. II. Maidanek
  16. III.
  17. Inserto
  18. Ringraziamenti