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David Graeber, l'antropologo alle origini del movimento di Seattle e del movimento Occupy (suo lo slogan «Siamo il 99%»), rivoluziona la teoria sociale ed economica in un libro destinato a rimanere nel tempo.In uno stile colloquiale e diretto, attraverso l'indagine storica, antropologica, filosofica, teologica, Graeber ribalta la versione tradizionale sulle origini dei mercati. Mostra come l'istituzione del debito sia anteriore alla moneta e come da sempre sia oggetto di aspri conflitti sociali: in Mesopotamia i sovrani dovevano periodicamente rimediare con giubilei alla riduzione in schiavitù per debiti di ampie fasce della popolazione, pena la deflagrazione di tutta la società. Da allora, la nozione di debito si è estesa alla religione come cifra delle relazioni morali («rimetti a noi i nostri debiti») e domina i rapporti umani, definendo libertà e asservimento.Mercati e moneta non sorgono automaticamente dal baratto, come sostengono gli economisti fin dai tempi di Adam Smith, ma vengono creati dagli stati, che tassano i sudditi per finanziare le guerre e pagare i soldati. In quest'ottica, il conio della moneta si diffonde per imporre la sovranità dello stato e assicurare il pagamento uniforme dei tributi. L'economia commerciale, basata sulla calcolabilità impersonale, eclissa così le economie umane, basate sulla reciprocità personale. Gli ultimi 5000 anni di storia hanno visto l'alternarsi di fasi di moneta aurea e moneta creditizia, fino al definitivo abbandono dell'oro come base del sistema monetario internazionale nel 1971.Graeber guarda agli sviluppi di Europa, Medio Oriente, India e Cina, e individua tre grandi cicli nella lunga storia del debito. L'Età assiale (dall'800 a.C. al 600 d.C.), in cui si impone il potere di conio degli imperi e le grandi religioni fanno la loro comparsa. Il Medioevo, dove l'economia viene demonizzata, in Europa come in Cina. L'età degli imperi capitalisti, delle grandi conquiste e del ritorno allo schiavismo, che vede il mondo inondato d'oro e d'argento.Graeber esplora infine la crisi attuale, nata dall'abuso di creazione di strumenti finanziari ilSaggiatore da parte delle grandi banche deregolamentate, e sostiene la superiorità morale di cittadini e stati indebitati rispetto a creditori corrotti e senza scrupoli che vogliono ridurre libertà e democrazia alla misura dello spread sui titoli pubblici.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788865762226
Argomento
Business

1. Sull’esperienza della confusione morale

DEBITO sostantivo: 1. somma di denaro che si deve; 2. la condizione in cui si deve del denaro; 3. un sentimento di gratitudine per un favore o un servizio.
Oxford English Dictionary
Se devi alla banca centomila dollari, la banca ti possiede. Se devi alla banca cento milioni di dollari, possiedi tu la banca.
Proverbio americano
Due anni fa, per una serie di strane coincidenze, mi sono trovato a partecipare a una festa nel giardino dell’abbazia di Westminster. Non ero proprio a mio agio. Non che gli altri invitati fossero spiacevoli o poco amichevoli o che l’organizzatore, padre Graeme, non fosse un padrone di casa cortese e affascinante. Eppure mi sentivo fuori luogo. A un certo punto, padre Graeme si è fatto avanti per dirmi che vicino a una fontana c’era qualcuno che sarei stato sicuramente felice d’incontrare. Era una gran bella donna, giovane e molto curata, che faceva l’avvocato. Il padre aggiunse: «Una sorta di attivista. Lavora per una fondazione che fornisce appoggio legale ai gruppi che combattono la povertà a Londra. Credo che avrete molto di cui parlare assieme».
Facemmo un po’ di chiacchiere e lei mi parlò del suo lavoro. Le dissi che da molti anni ero impegnato nel movimento per la giustizia globale, il movimento «no global», come viene chiamato di solito dai media. Era incuriosita: ovviamente aveva letto di Seattle, di Genova, degli scontri di piazza e dei lacrimogeni, ma be’, avevamo davvero realizzato qualcosa?
«In effetti» risposi «credo sia sorprendente pensare a quanto siamo riusciti a fare in quei primi due anni.»
«Per esempio?»
«Be’, per esempio, siamo riusciti a distruggere quasi completamente il Fondo monetario internazionale.»
Lei non sapeva proprio che cosa fosse il Fondo monetario internazionale. Le spiegai che il Fondo monetario internazionale sostanzialmente agisce come un racket del debito internazionale: «Sai, l’equivalente nell’alta finanza di quei tipi che vengono a spaccarti le gambe». Mi lanciai nella descrizione dello scenario storico spiegando che durante la crisi petrolifera degli anni settanta i paesi dell’OPEC finirono per riversare una copiosa quantità di nuovi capitali nelle banche occidentali, al punto che queste non sapevano come investirli; che pertanto Citibank e Chase cominciarono a mandare i loro agenti in giro per il globo per convincere i politici e i dittatori del Terzo mondo a chiedere prestiti (all’epoca lo chiamavano go-go banking, cioè attività bancaria d’assalto); che partirono con tassi d’interesse estremamente bassi che quasi immediatamente s’impennarono di circa il 20 per cento a causa delle severe politiche monetarie statunitensi dei primi anni ottanta; che durante gli anni ottanta e novanta questo portò alla crisi del debito dei paesi del Terzo mondo e a quel punto il FMI intervenne sostenendo che se volevano il rifinanziamento, i paesi poveri erano obbligati ad abbandonare le politiche di difesa dei prezzi dei generi alimentari di base, o le prassi di conservare riserve alimentari strategiche, e fare a meno di un sistema sanitario gratuito e della pubblica istruzione; che tutto questo ha portato al collasso dei programmi minimi di protezione per le fasce di popolazione più povere e vulnerabili del pianeta. Le parlai di povertà, del saccheggio delle risorse pubbliche, del collasso delle società, della violenza endemica, della malnutrizione, della disperazione e delle vite spezzate di milioni di persone.
«Ma qual era la vostra posizione?» mi chiese l’avvocato.
«Sul FMI? Volevamo abolirlo.»
«No, intendo la vostra posizione riguardo il debito dei paesi del Terzo mondo.»
«Ah, volevamo abolire anche quello. La nostra richiesta prioritaria era evitare che il FMI continuasse a imporre politiche di aggiustamento strutturale che danneggiavano direttamente la gente comune. Ci siamo riusciti in maniera sorprendentemente veloce. La richiesta a lungo termine era la cancellazione del debito. Una sorta di giubileo biblico. Per come la vedevamo noi, il flusso di denaro che da trent’anni scorreva dai paesi poveri verso quelli ricchi era più che sufficiente.»
La sua obiezione suonò come una verità lapalissiana: «Ma quel denaro l’hanno preso in prestito! Non c’è dubbio che bisogna ripagare i propri debiti».
A quel punto mi resi conto che la conversazione si stava facendo più difficile di quanto avessi immaginato.
Da dove cominciare? Potevo partire spiegando che quei prestiti erano stati inizialmente chiesti da dittatori non eletti democraticamente che avevano stornato gran parte del denaro direttamente sui loro conti svizzeri, chiedendole di riflettere se fosse giusto pretendere che il prestito venisse restituito non dal dittatore o dai suoi compari, bensì togliendo il cibo di bocca a bambini affamati. Oppure potevo chiederle di pensare che in realtà molti paesi poveri avevano già restituito tre o quattro volte quanto avevano preso in prestito, ma che il miracolo dell’interesse composto faceva sì che l’ammontare del debito non fosse stato ancora intaccato. Potevo poi farle notare che c’è una differenza tra il rifinanziamento di alcuni prestiti e la disposizione che tali prestiti vengano concessi solo se i paesi debitori seguiranno le politiche economiche ispirate all’ortodossia del libero mercato messe a punto a Washington o Zurigo, politiche con cui i cittadini di quei paesi non sono e non saranno mai d’accordo, e che è un po’ disonesto insistere sul fatto che tali paesi devono adottare costituzioni democratiche per poi pretendere che, chiunque venga eletto, non abbia comunque il controllo delle politiche economiche nazionali. O potevo anche farle notare che l’approccio di politica economica del FMI non funziona. Ma c’era un problema ancora più sostanziale e riguardava la convinzione stessa che i debiti devono essere saldati.
In effetti, la cosa più incredibile a proposito dell’asserzione secondo cui «ognuno deve saldare i propri debiti» è che, anche stando alla teoria economica ufficiale, non è vera. Chi presta denaro deve accettare una certa dose di rischio. Se tutti i prestiti, per quanto scellerati, fossero sempre recuperabili – se per esempio non ci fossero leggi che regolano la bancarotta – il risultato sarebbe disastroso. Per quale ragione i prestatori non dovrebbero concedere un prestito stupido?
«Be’, mi rendo conto che questo è il senso comune» aggiunsi «ma il bello è che, economicamente parlando, non è così che i prestiti dovrebbero funzionare. Se una banca avesse la garanzia che, in qualsiasi caso, potrebbe sempre riavere i propri soldi indietro con gli interessi, tutta la faccenda andrebbe a monte. Mettiamo che io vada nella prima filiale della Royal Bank of Scotland e dica: “Sapete, ho avuto una dritta su una corsa di cavalli. Pensate di potermi prestare un paio di milioni di sterline?”. Ovviamente mi riderebbero in faccia. Ma solo perché sanno che se il mio cavallo non si piazza, non avranno alcun modo di riavere indietro il denaro. Ma immaginiamo che esista una legge che consenta loro di riprendersi quei soldi accada quel che accada, anche se dovessero – che so? – ridurre in schiavitù mia sorella o vendere i miei organi. Bene, in quel caso, perché non prestarmi i soldi? Perché prendersi la briga di aspettare che qualcuno entri in banca con un progetto fattibile per avviare una nuova lavanderia a gettoni o qualcosa del genere? Fondamentalmente, questa è la situazione che il Fondo monetario internazionale ha creato su scala planetaria, ed è per questo che ci siamo ritrovati con tutte queste banche pronte a sborsare miliardi di dollari per una schiera di manifesti imbroglioni.»
Non riuscii ad arrivare fino a quel punto, perché a un tratto era comparso un esperto di finanza ubriaco che, resosi conto che parlavamo di denaro, cominciò a raccontarci delle barzellette sulla moralità del rischio economico, che in breve si trasformarono in un lungo e non troppo avvincente resoconto delle sue conquiste sessuali. Mi allontanai.
Ma per alcuni giorni quella frase continuò a ronzarmi in testa:
«Non c’è dubbio che bisogna ripagare i propri debiti.»
La frase sembra così inattaccabile perché non è un’affermazione economica: è un giudizio morale. Dopo tutto, che cos’è la moralità se non ripagare i propri debiti? Dare alla gente quel che le spetta. Accettare le proprie responsabilità. Adempiere ai propri doveri verso gli altri, così come ci si aspetta che gli altri facciano nei confronti altrui. Quale esempio più ovvio di una persona che si sottrae alle proprie responsabilità di chi rinnega una promessa o rifiuta di pagare un debito?
Mi resi conto che era la sua manifesta ovvietà a far sì che quell’asserzione fosse tanto insidiosa. Si tratta di una di quelle frasi che possono rendere ordinarie e poco rilevanti le cose più terribili. Può sembrare un giudizio pesante, ma è difficile non prendersela tanto a cuore una volta che si siano viste le conseguenze di una frase simile. E a me è successo. Per almeno due anni ho vissuto nelle regioni montuose del Madagascar. Poco prima del mio arrivo, c’era stata un’epidemia malarica. Si trattava di un’infezione molto virulenta, perché in quelle zone la malaria era stata debellata anni prima e la gente, dopo un paio di generazioni, aveva perso le proprie difese immunitarie. Il problema era questo: servivano soldi per tenere in vita il programma di eliminazione delle zanzare, perché bisognava fare una campionatura periodica per essere certi che l’anofele non si riproducesse e in caso contrario era necessario avviare dei cicli di irrorazione di agenti tossici. Non servivano troppi soldi. Ma a causa delle misure di austerità imposte dal Fondo monetario internazionale, il governo aveva tagliato i programmi di controllo della malaria. Morirono diecimila persone. Ho incontrato giovani madri addolorate per la morte dei loro bambini. Sembra difficile sostenere la tesi che la perdita di diecimila vite umane sia giustificata dal fine di garantire che la Citibank non debba ridurre le proprie perdite su un prestito concesso in modo irresponsabile, un prestito che in ogni caso non era una voce così importante sul proprio bilancio. Ma di fronte a me c’era una donna assolutamente rispettabile, che lavorava addirittura per un’organizzazione filantropica, che dava la frase per scontata: tutto sommato, dovevano quei soldi, e non ci sono dubbi che bisogna ripagare i propri debiti.
Nelle settimane successive, la frase non smetteva di ronzarmi in testa. Perché il debito? Che cosa rende questo concetto tanto potente? Il debito dei consumatori è la linfa vitale della nostra economia. Tutti i moderni stati-nazione sono stati eretti sulla spesa in deficit. Il debito è diventato la questione centrale della politica internazionale, eppure nessuno sembra sapere propriamente cosa sia, o come si debba pensarlo.
Il fatto che non sappiamo cosa sia il debito, la flessibilità di questo concetto, è il fondamento del suo potere. Se la storia c’insegna qualcosa, è che non c’è modo migliore per giustificare relazioni sociali fondate sulla violenza del farle sembrare morali per poi riformularle nel linguaggio del debito: soprattutto perché in questo modo sembra che sia stata la vittima a fare qualcosa di male. Lo sanno bene i mafiosi e i comandanti degli eserciti invasori. Per migliaia di anni, uomini violenti sono stati capaci di dire alle loro vittime che queste dovevano loro qualcosa. Se non altro «ci devono la vita», perché non sono state uccise. Una frase emblematica.
Ai nostri giorni, per esempio, l’aggressione militare è considerata un crimine contro l’umanità e le corti internazionali, quando sono chiamate in causa, di solito chiedono che gli aggressori siano puniti pagando un risarcimento. La Germania dopo la Prima guerra mondiale ha dovuto pagare enormi riparazioni di guerra e l’Iraq sta ancora indennizzando il Kuwait per l’invasione di Saddam Hussein del 1990. Ma il debito del Terzo mondo, quello di paesi come il Madagascar, la Bolivia e le Filippine, sembra funzionare all’incontrario. I paesi debitori del Terzo mondo sono quasi esclusivamente nazioni che un tempo sono state attaccate e conquistate da paesi europei (ovvero in molti casi gli stessi paesi a cui adesso devono denaro). Per esempio, nel 1895 la Francia ha invaso il Madagascar, sciolto il governo dell’allora regina Ranavalona III e dichiarato il paese colonia francese. Tra le prime cose che il generale Gallieni fece dopo la «pacificazione», come piacque chiamarla ai francesi, ci fu l’imposizione di pesanti tasse sulla popolazione malgascia, la quale doveva rimborsare i costi necessari all’invasione. Inoltre, dal momento che le colonie francesi erano obbligate all’autonomia finanziaria, le tasse servivano a sostenere le spese di ferrovie, strade, ponti, piantagioni, tutti progetti che il regime francese desiderava realizzare. Ai contribuenti malgasci nessuno ha mai chiesto se volessero ferrovie, strade, ponti e piantagioni, né i malgasci hanno mai avuto voce in capitolo su dove e come costruirle.1 Al contrario, per circa mezzo secolo l’esercito e la polizia francese trucidarono un rilevante numero di abitanti del Madagascar che avevano troppo risolutamente disapprovato quell’ordine di cose (più di mezzo milione di vittime, secondo alcuni resoconti, solo durante la rivolta del 1947). Nonostante il fatto che il Magadascar non avesse mai recato alcun danno comparabile alla Francia, la popolazione di quel paese, fin dal principio, si sentì dire che doveva soldi alla Francia. Anche ai nostri giorni il popolo malgascio deve soldi alla Francia e il resto del mondo riconosce la giustizia di questo principio. La «comunità internazionale» si rende pienamente conto che esiste un problema etico solo allorché realizza che il governo malgascio sta rallentando il pagamento del debito.
Ma il debito non è solo la giustizia del vincitore: può anche essere un modo per punire quei vincitori che non dovevano vincere. In questo senso l’esempio più spettacolare è quello della storia della Repubblica di Haiti, il primo paese povero collocato in una condizione di permanente schiavitù del debito. Haiti è una nazione fondata da ex schiavi delle piantagioni che trovarono il coraggio prima di ribellarsi formulando esemplari dichiarazioni di libertà e diritti universali e poi di sconfiggere gli eserciti di Napoleone inviati per ricondurli in schiavitù. La Francia sostenne senza esitazioni che la nuova repubblica le doveva centocinquanta milioni di danni per l’espropriazione delle piantagioni, oltre alle spese dell’equipaggiamento delle spedizioni militari sconfitte. Le altre nazioni, inclusi gli Stati Uniti, convennero sulla necessità di imporre a Haiti un embargo fino al pagamento di quel debito. Si trattava di una somma deliberatamente impossibile da restituire (l’equivalente corrente di circa diciotto miliardi di dollari) e l’embargo garantì che da quel momento il nome stesso di Haiti divenisse sinonimo di debito, povertà e miseria umana.2
Eppure, a volte la parola «debito» sembra avere un significato completamente diverso. A partire dagli anni ottanta gli Stati Uniti, che avevano severamente richiesto ai paesi del Terzo mondo di ripagare i propri debiti, accumularono essi stessi debiti alimentati dalle spese militari, debiti che presto fecero apparire minuscoli quelli dell’intero Terzo mondo. Il debito estero americano, tuttavia, prende la forma di buoni del tesoro detenuti da investitori istituzionali in paesi (Germania, Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Thailandia, i paesi del Golfo Persico) che in realtà sono spesso protettorati statunitensi, coperti da basi militari americane piene di armi e attrezzature acquistate con quello stesso deficit di spesa pubblica. Adesso che la Cina è riuscita a entrare nel gioco, le cose sono un po’ cambiate (la Cina è un caso a parte, per ragioni che vedremo in seguito), ma non poi così tanto. Anche la Cina ritiene infatti che possedere troppi titoli del debito americano la collochi in posizione supina agli interessi americani, e non viceversa.
Qual è allora la natura di tutto questo denaro che viene continuamente riversato nelle casse del tesoro americano? Sono prestiti? O tributi? In passato, le potenze militari che mantenevano centinaia di basi militari al di fuori del territorio nazionale venivano definite «imperi» e gli imperi esigevano tributi dai popoli sudditi. Ovviamente il governo statunitense nega di essere un impero, ma si può sostenere facilmente che l’unico motivo per cui pretende di trattare questi pagamenti come «prestiti» e non come «tributi» è proprio per non ammettere la realtà di quel che sta accadendo.
È pur vero che, nel corso della storia, certi debiti e certi debitori sono sempre stati trattati in maniera diversa da altri. Negli anni successivi al 1720 d.C. il pubblico britannico rimase scandalizzato quando la stampa popolare rivelò le condizioni di detenzione dei debitori. Le prigioni erano regolarmente divise in due sezioni. I detenuti aristocratici, che consideravano alla moda un breve soggiorno nelle carceri di Fleet o Marshalsea, avevano a disposizione la servitù in livrea che portava vino e pasti, e potevano ricevere regolari visite dalle prostitute. I «comuni», ovvero i debitori impoveriti, si ritrovavano ai ceppi in minuscole celle «colme di parassiti e lordura», come scrisse Hallam in un articolo, «soffrendo fino alla morte per fame e febbri, senza pietà».3
In un certo modo l’attuale sistema economico internazionale non è altro che una versione più estesa della stessa realtà, con gli Stati Uniti come il debito...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. 1. Sull’esperienza della confusione morale
  3. 2. Il mito del baratto
  4. 3. Debiti primordiali
  5. 4. Crudeltà e redenzione
  6. 5. Breve trattato sui fondamenti morali delle relazioni economiche
  7. 6. Giochi di sesso e di morte
  8. 7. Onore e degradazione (o dei fondamenti della civiltà contemporanea)
  9. 8. Credito vs. tesoro (e i cicli della storia)
  10. 9. L’Età assiale (800 a.C.-600 d.C.)
  11. 10. Il Medioevo (600-1450 d.C.)
  12. 11. L’età dei grandi imperi capitalisti (1450-1971 d.C.)
  13. 12. L’inizio di qualcosa ancora da definire (1971-?)
  14. Note
  15. Bibliografia