I demoni e la pasta sfoglia
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I demoni e la pasta sfoglia

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La letteratura è ossessione. È un demone polimorfo che può assumere le bianche fattezze di Moby Dick o l'aspetto mostruoso dei crostacei di Wells, che può abitare tra le nevi di London, sulle aspre montagne della follia di Lovecraft o nel condominio suburbano di Ballard. È nella luna precipitata in un camino di Landolfi, nell'occhio cieco del gatto di Poe, nei topi di Steinbeck. Si insedia tra le ecolalie di Gombrowicz come nello sdegno con cui l'ingegner Gadda oppone titanicamente un principio d'ordine al grottesco, alla vigliaccheria, all'ingiustizia del reale. L'ossessione è destino e forma, nevrosi e scrittura, e scrivere significa «consegnarsi inermi agli artigli dei demoni».I demoni e la pasta sfoglia è il libro in cui Michele Mari affida alla forma-saggio quel rapporto inquieto e vitale con la tradizione che altrove ha esplorato attraverso il racconto, il romanzo, la poesia. Testi che compongono un'indispensabile cartografia letteraria, seguendo punti di fuga inediti e rintracciando parentele inaspettate: il sadismo di Stephen King e quello di Collodi, la misantropia di Céline e la bibliolatria di Kien in Auto da fé, il riemergere del lupo in Buck nel Richiamo della foresta e la voluttà con cui Gregor Samsa si abbandona alla nuova identità di insetto. E poi gli innumerevoli mostri e le infinite stilizzazioni con cui ogni grande scrittore non fa altro che parlare di se stesso, dei propri desideri e delle proprie ferite.Accettando sfide spesso eluse della critica, Mari finisce per modellare le sembianze di un nuovo canone, che attinge tanto alla letteratura goticofantastica quanto a forme di scrittura come manierismi e pastiche che, grazie alla loro «natura esibitoria», rivelano la propria paradossale autenticità, il proprio osceno realismo. Ma I demoni e la pasta sfoglia è soprattutto una dichiarazione di poetica in controluce, in cui lo scrittore di Fantasmagonia e Tu, sanguinosa infanzia mostra il suo rapporto vampiresco con una tradizione eletta a dimora, in una dialettica serrata tra mostruosità e stile, morte e scrittura, persistenza dell'infanzia e attrazione per l'abisso.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788865765661
la violenza
della calligrafia
Casanova - Fellini
Prima di indagare, ero convinto che Fellini avesse utilizzato Casanova per coagulare ancora una volta il proprio mondo fantastico, se ne fosse cioè appropriato con una congruenza che mi sembrava poter nascere solo da profonda sintonia e simpatia. Non immaginavo quanto fossi lontano dalla verità; anche se poi una più profonda verità avrebbe confermato la bontà della mia impressione iniziale…
«I Mémoires li ho letti dopo aver firmato l’impegno per il film» ricorda il regista «e subito sono stato preso da un senso di vertigine e dal presentimento di aver fatto un passo falso […]. Dal punto di vista figurativo, il Settecento è il secolo più esaurito, esausto e svenato da tutte le parti. Restituire originalità, una nuova seduzione, una visione nuova di questo secolo è sul piano figurativo un’impresa disperata […]. Procedevo nello sconfinato oceano cartaceo dei Mémoires, in quell’arida elencazione di una quantità di fatti ammassati con rigore statistico, da inventariato, pignolesco, meticoloso, stizzoso, nemmeno troppo bugiardo, e il fastidio, l’estraneità, il disgusto, la noia, erano le uniche varianti del mio stato d’animo depresso e sconfortato»; «l’ho letto con una diffidenza e una rabbia crescenti, strappando le pagine: ogni volta che avevo finito una pagina non la voltavo: la stracciavo. Bernardino Zapponi era sbigottito nel vedermi fare a pezzi l’edizione Mondadori delle Memorie, che è introvabile»; «Settecento, secolo di merda! Non potrò farne che un museo delle cere elettrizzato»… Giudizi, questi, che per i pubblici clamori legati alla lavorazione del film vennero fatti propri da giornalisti che evidentemente non avevano letto Casanova: si diffuse così l’idea che la sfida di Fellini fosse quella di riuscire a ricavare qualcosa da uno scrittore stilisticamente “inesistente”.
Ma ancor più che dallo scrittore Fellini è irritato dal personaggio: «il maschio italiano nella sua versione bieca, un cialtrone, un fascista. Del resto che cos’è il fascismo se non un’adolescenza protratta? Casanova è un supervitellone, ma antipatico»; «un uomo tutto esteriore, senza segreti e senza pudori […], un presuntuoso, un saccente, è ingombrante come un cavallo in casa, ha una salute da cavallo, è un cavallo»; «gli italiani, che si sentono tutti in pectore dei grandi seduttori, hanno anch’essi creato il proprio precursore in Casanova. Nella terribile frustrazione sessuale in cui gli italiani si dibattono, era quasi fatale che si generasse il mito di un campione che riscattasse tutti […]. Casanova, io lo odio» (un concetto che sembra uscire dal gaddiano Eros e Priapo); «Cosa mai potevo avere in comune con un tipo così? Non è un artista, non parla mai della natura, dei bambini, dei cani, niente. Ha soltanto scritto una specie di elenco telefonico. È un ragioniere, un contabile, un playboy di provincia che crede di avere vissuto ma non è nemmeno nato, che ha girato il mondo senza mai esistere, che ha attraversato la sua vita come un fantasma errante».
Finché, inevitabilmente, tanta avversione si estende dal personaggio al progetto stesso del film: «Casanova non mi piace, è un personaggio che mi irrita, mi ripugna, mi avvilisce; perciò anche il film non mi piace e il doverlo fare mi provoca una rabbia, una vergogna, un disagio tali che mi impediscono di farlo davvero». Da qui, poi, la programmatica autonomia del film dall’Histoire de ma vie e, ciò che più conta, l’interpretazione stessa della figura e dell’opera casanoviane. Per quanto riguarda l’autonomia basta una rapida collazione fra gli episodi del film e le zone del testo che vi corrispondono (o meglio non vi corrispondono) per misurare in tutta la sua estensione la libertà di Fellini non solo dal racconto casanoviano ma dalla stessa sceneggiatura scritta insieme a Bernardino Zapponi. Per quanto riguarda invece l’interpretazione, ancora una volta le parole del regista sono di una chiarezza definitiva: «È stato questo rifiuto, questa nausea a suggerire il senso del film. E così mi sono messo in testa di raccontare la storia di un uomo che non è mai nato, le avventure di uno zombi, una funebre marionetta senza idee personali, sentimenti, punti di vista; un “italiano” imprigionato nel ventre della madre, sepolto là dentro a fantasticare di una vita che non ha mai veramente vissuto, in un mondo privo di emozioni, abitato solo da forme che si configurano in volumi, prospettive scandite con raggelante ipnotica iterazione. Vuote forme che si compongono e si scompongono, un fascino da acquario […]. Un film astratto e informale sulla “non vita”. Non ci sono personaggi, né situazioni, non ci sono premesse né sviluppi né catarsi, un balletto meccanico, frenetico e senza scopo, da museo delle cere elettrizzato. Casanova-Pinocchio». Dunque un film contro Casanova, con la consapevolezza di compiere una «operazione un po’ isterica, di oscura rivalsa contro questo personaggio», ma anche con la paura (fortunatamente fondatissima) di non avere la freddezza necessaria per evitare di risarcire esteticamente «il negativo».
Il tema della non-vita si traduce immediatamente nella visione di Casanova come golem, simulacro, burattino che non diventa bambino; la scena finale del film, in cui egli balla con la bambola meccanica, non è il contrappasso di chi ha sempre trattato le donne come cose, ma l’esplicitazione della sua stessa natura meccanica. Per questo, per «identificare l’inautentico», Fellini si impuntò per girare interamente a Cinecittà, laguna veneziana compresa: «Ho voluto evitare la trappola del pittoresco e ricreare una vita artificiale, soffocante: per questo ho girato tutto in studio, perché tutto fosse più vero del vero, ma nulla fosse realistico» (e di Donald Sutherland: «gli ho messo naso finto, un mento finto, un cranio finto, delle rughe finte, una pelle finta. Ho paura che non abbia ancora capito quel che gli è successo. Ed è proprio questo che rende tanto patetica l’unica cosa che gli ho lasciato, lo sguardo»).
E come l’insofferenza del regista aveva autorizzato gli ignoranti a dare per scontato il disvalore artistico del testo, così l’insistenza sulla non-vita ha indotto i critici a giudicare il film nei termini di un algido formalismo. Il carattere artificiale delle immagini è invece all’origine di un figurativismo che non ha eguali in tutta l’opera felliniana, e che nonostante la grande diversità avvicina il Casanova al coevo Barry Lindon. Lo stesso Fellini si sbilanciò in questa direzione con parole che non potrebbero riferirsi a nessun altro dei suoi film: «Cosa avrei voluto fare con questo film? Arrivare una buona volta all’essenza ultima del cinema, a quello che secondo me è il film totale. Riuscire cioè a fare di una pellicola un quadro […]. L’idea sarebbe fare un film con una sola immagine, eternamente fissa e continuamente ricca di movimento».
Questa lettura comporta una serie di interventi coerenti e consapevoli. Innanzitutto vengono trascurate tutte le zone del testo cui Casanova aveva affidato l’edificazione del proprio mito: esemplarmente, la prigionia nei Piombi e l’evasione. In secondo luogo non viene considerato lo “statista”, l’uomo che conferiva con re e principi suggerendo riforme economiche, piani urbanistici e misure difensive. Ora, se è vero che l’atteggiamento di Fellini rasenta in questo senso il sadismo, è anche vero che un uomo come lui non avrebbe mai speso tre anni della sua vita solo per infierire su un proprio personaggio. Vide giusto Piero Chiara, quando affermò: «Non escludo che Fellini riesca addirittura a celare se stesso nel suo personaggio. Quindi questo odio apparente può nascondere, sotto sotto, un vero amore». E infatti lo stesso Fellini confessò poi di avere riempito di tutte le proprie paure la non-vita di Casanova: «avevo deciso di fare un film sul vuoto esistenziale, su un tizio che non smette mai di recitare e dimentica di vivere sul serio. Forse avevo già in mente di delineare il ritratto psicologico dell’artista: anche lui recita una parte sulla scena della sua vita, anche lui è in preda alla vertigine del vuoto […]. Perché in realtà è un film sull’inutilità della creazione, sul deserto arido in cui il creatore finalmente si ritrova dopo essersi ingegnato a vivere soltanto con le sue marionette, o con le sue parole […]. Casanova […] è anche il simbolo dell’artista bloccato nella dimensione nevrotica dell’illusione creatrice […]. Per me il film era proprio questo: avevo varcato un confine e mi avvicinavo all’ultimo versante della vita […]. E forse inconsciamente ho messo nel film tutte queste ansie, tutta la paura che mi sento incapace di affrontare. Forse il film si è nutrito della mia paura».
Che il Casanova esprima un’idea di morte non può sfuggire a nessuno. A prescindere dalle scelte stilistiche che implicano questa idea, il film è costellato di immagini luttuose, dalla plastica nera che surroga la laguna come un’ustione di Burri alla nave altrettanto nera con cui Messer Grande comunica l’arresto a Casanova; dallo spegnimento dei giganteschi candelieri del teatro di Dresda al tentativo di suicidarsi nel Tamigi recitando un sonetto del Tasso fino allo stentato italiano della bernese Isabella: «Che uomo strano che sei, Iacomo. Non puoi parlare di amore senza immagini funebri […]. Forse che più di amare tu desideri di morire?». Ma la paura della morte, nell’intera opera felliniana, si confonde con la paura della donna: non a caso il film più ricco in questo senso è Amarcord, che per qualche mese si sovrappone all’inizio del progetto casanoviano, alcune figure del quale, dalla gigantessa Angelina alla gobba Tedeschina, prolungano fantasticamente quell’universo infantile-romagnolo. Ebbene nel Casanova c’è una scena in cui pulsione erotica e pulsione di morte sono unite come in nessun altro film felliniano: quella della balena. Questa balena è un’insegna prettamente felliniana innanzitutto perché e finta, né vuole spacciarsi per vera; poi perché è un mostro da baraccone; ma soprattutto perché la sua bocca è l’antro regressivo per il quale si scende alle Madri, ed è dunque, come recita la sublime poesia composta per l’occasione da Tonino Guerra, una «Grande Mouna» (in fondo alla quale Casanova e gli altri visitatori troverannno una lanterna magica che raffigura in modi mostruosi, per opera di Topor, l’organo femminile, in sintonia – scrisse Fellini a Zanzotto – con quel «mosaico di trasalimenti infantili ed angosciosi, fiabeschi e terrorizzanti, che più emblematicamente definisce il rapporto nevrotico di Casanova con la donna, cioè con qualcosa di oscuro, inghiottente, soverchiante»). Come della Balena-Mouna sarebbe inutile cercare traccia nell’Histoire de ma vie, così della grande testa di donna che apre il film. È lo stesso Fellini a esplicitarne il valore archetipico: «una specie di nume lagunare, la gran madre mediterranea, la femmina misteriosa che abita in ciascuno di noi». Non casualmente, dunque, il film si chiude sulla stessa immagine d’apertura: quando il vecchio bibliotecario di Dux sogna la città della sua giovinezza, e per un attimo, subito prima che si svolga il suo ballo con la bambola meccanica, si rivedono gli occhi della grande testa sbarrati sotto l’acqua del Canal Grande.
Ora della conclusione del film Giacomo e Federico sono diventati la stessa persona. Da questa scoperta Fellini fu spinto a reagire alle critiche definendo il Casanova, giudizio con cui concordo senza riserve, il suo film più bello: «Adesso Casanova è finito, ed è in giro per il mondo, seminando quasi ovunque delusione, sconcerto, antipatia, e anche rabbia […]. Forse, proprio perché è vittima di un malinteso così generale, e spesso così aggressivo, Casanova mi sembra il mio film più bello, il più lucido, il più rigoroso, il più stilisticamente compiuto». Naturalmente questa benedizione non rinnega, anzi ribadisce, l’interpretazione di Casanova come portatore di un’istanza di morte. La sua solitudine è, fin dagli anni giovanili, la solitudine dell’artista, come la solitudine del vitellone è quella di Fellini. Per questo non convince la vulgata che insiste sugli aspetti autocritici dell’operazione felliniana, quasi che per una forma di correttezza politica il regista abbia voluto stigmatizzare in Casanova il proprio stesso maschilismo, anche perché questo maschilismo, se proprio vogliamo considerare i film di Fellini come altrettanti referti, ha piuttosto un carattere vitalistico-favoloso che ben poco ha a che spartire con la nevrosi casanoviana. Se poi dal piano delle dichiarazioni programmatiche ci spostiamo a quello ben più significativo della forma, non possiamo fare a meno di riconoscere che il Giacomo Casanova di Fellini (come se inconsciamente il regista avesse creduto a tante proteste casanoviane) non ha assolutamente nulla della cupa misoginia che secondo qualcuno sarebbe la cifra principale del film, ed è tutto fuorché un collezionista, tutto fuorché uno smargiasso, tutto fuorché un cinico seduttore: astratto e meccanico sì, ma proprio per questo straordinariamente elegante. E la sua stessa meccanicità, poi, riflessa in quella dell...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Nota ai testi
  4. Introduzione
  5. Ossessioni
  6. Feticismi
  7. Furori misantropici
  8. Sadismo e voyeurismo
  9. Atavismo come destino
  10. Estroversioni
  11. La violenza della calligrafia
  12. Il beneficio dell'influenza