1. L’Europa senza politica
La mossa d’approccio
La separazione della sfera politica e della sfera economica costituisce la peculiarità assoluta del nostro tipo di società.
Karl Polanyi
La linea di divisione tra partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai, non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa coloro che concepiscono, come campo centrale della lotta, quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie, lasciando che la lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido Stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopreranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale.
Manifesto di Ventotene
L’Europa, perché?
Perché iniziare un viaggio alla ricerca della politica partendo proprio da uno degli ambiti in cui si è smarrita, ossia il processo di costruzione europea? Accertato che lo Stato-nazione è ormai irrimediabilmente incapace di adempiere alla gestione monopolistica del potere legittimo, e si rivela inadeguato ad affrontare le sfide poste dalla globalizzazione delle attività economico-finanziarie (comprese quelle criminali) e dalla comunicazione elettronica.
Per questo, la creazione di un grande spazio integrato in cui provare a governare consensualmente dinamiche travalicanti e «disancorate» (foot-loose) dalla sfera nazionale – eppure dall’enorme impatto sulle condizioni concrete dei territori e delle persone che vi abitano – è una scommessa vitale che non deve essere lasciata cadere. Grazie alla quale il principio di cittadinanza può mantenere ancora un senso; o ritrovarlo, visto che, attualmente, le ragioni che oltre mezzo secolo fa ispirarono l’avvio dell’unificazione europea sembrano essere sprofondate nell’oblio.
Al riguardo tornano alla mente le parole di Václav Havel, pronunciate nel discorso dell’8 marzo 1994 al Parlamento europeo: «C’è bisogno di una “carta dell’identità europea” che spieghi cosa significa esserne cittadini». Oggi più che mai si avverte la necessità di riscoprire l’Europa come «comunità di destino», come «comunità di valori». Il disegno inedito e ardito di costruzione istituzionale, il cui obiettivo si presentava fin dagli inizi come eminentemente politico, almeno nello spirito dei padri fondatori. Anche se i mezzi attuativi sono diventati – man mano che il progetto evolveva – sempre più economici.
Nell’immediato secondo dopoguerra si precisò un’idea di Europa che proponeva criteri di convivenza dai forti tratti originali, configurando un paradigma alternativo agli assetti sospettosamente nevrotici e pregiudizialmente malevoli propri del bellicismo soft imposto dalla Guerra fredda. La ricerca della «valle felice», in quanto pacifica e benevola, dopo la marginalizzazione del Vecchio continente in quel sistema-mondo che aveva dominato per cinque secoli.
Nel frattempo, il resto del «Primo mondo» (a centralità statunitense) e il «Secondo» (dominato dall’Unione Sovietica) imbarbarivano coltivando gli equilibri del terrore; mentre il «Terzo mondo» – che dopo la conferenza di Bandung (1955) si compattava nel rifiuto dell’alternativa secca tra le due superpotenze nucleari, scegliendo il «non allineamento» – seguiva con crescente interesse l’esperimento europeo, percepito quale uscita di sicurezza dall’impasse mortifera. (Anche se va riconosciuto che tale esperimento aveva il grave tallone d’Achille di maturare sotto l’ombrello protettivo, ma al tempo stesso impositivo e gerarchizzante, dell’arsenale militare americano.)
Proprio nello spazio dove si erano combattute ben due guerre mondiali, prendeva forma un’originale architettura, poggiata su quattro arcate di grande slancio: solidarietà, civismo, sussidiarietà, territorialismo. Il disegno vagheggiato – tra gli altri – da alcuni visionari democratici italiani, durante le loro discussioni immerse nelle solarità mediterranee del confino nell’isoletta di Ventotene (da cui scaturì, poi, il celebre Manifesto), dove erano stati relegati dal regime fascista: Eugenio Colorni, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli. Nel 1941.
Ciò che iniziava a prendere corpo era l’idea di una realtà sovranazionale per sperimentare il superamento dell’ordine istituito dalla Pace di Westfalia, che nel 1648 pose termine al disordine sanguinoso delle guerre di religione e formalizzò la devoluzione del potere politico da monarchia, nobiltà e clero agli Stati-nazione, ciascuno dei quali doveva essere libero dalle ingerenze di altri paesi e godere di una piena sovranità territoriale. Il progetto europeo. traduceva in politiche le migliori utopie dell’Occidente illuministico: la solidarietà, come apertura nei confronti dell’altro, nella ricomposizione dei conflitti distributivi e nell’affermazione della libertà individuale come impegno sociale; il civismo, inteso quale modello di partecipazione responsabile alla vita della propria comunità, in base all’antica regola repubblicana per cui non si possono avere Stati virtuosi, istituzioni virtuose in assenza di cittadini virtuosi; la sussidiarietà, che attualizza il principio di autogoverno proprio del pensiero cattolico, secondo cui «ogni problema dovrebbe essere affrontato da chi – essendogli più vicino – è meglio posizionato per risolverlo»; il territorialismo, come valorizzazione delle specificità locali per la rifondazione della democrazia dal basso.
In coerenza con queste tradizioni culturali, negli anni l’Europa si è spesso configurata come potente redistributore di risorse dalle aree più ricche a quelle meno fortunate (si pensi all’importante ruolo svolto dai cosiddetti fondi strutturali per la formazione e la competitività, che hanno destinato un terzo del bilancio dell’Unione a tali scopi). Ha promosso una cultura politica volta a creare coalizioni e perseguire partnership (ad esempio i progetti di cooperazione Inter-reg, che hanno favorito la condivisione di esperienze tra realtà transfrontaliere), ma anche orientata al reciproco riconoscimento e all’integrazione (i programmi Erasmus hanno consentito preziose esperienze extradomestiche a studenti provenienti da ogni angolo del continente, creando reti relazionali fondative di cittadinanza europea). Ha praticato l’«apprendimento per sperimentazione» e diffuso criteri e modelli eccellenti di governance (dalle prove di «amministrazione catalitica» – in cui il soggetto pubblico assume la funzione di architetto di rete, favorendo coalizioni per scopi condivisi di attori pubblici e privati –, alle esperienze di pianificazione strategica del territorio, che individuano specializzazioni urbane per superare la crisi «industrialista» – avviate negli anni ottanta dal sindaco di Barcellona Pasqual Maragall, con il suo il pionieristico Piano metropolitano).
Un mix integrato di azioni e direttive che sono diventate paradigma sistemico; e che – soprattutto – diffondevano una concezione politica complessiva volta ad accantonare le teorie dominanti (e democraticamente depauperanti) della relazione pubblica quale tecnologia del potere, a favore del dialogo come mezzo per definire scopi condivisi. Insomma, meno Machiavelli e molto più Erasmo.
Tale produzione concettuale induceva fenomeni imitativi anche nelle varie politiche nazionali. Magari più al livello del repertorio retorico, che non della sostanza, come nell’interminabile chiacchiera italiana a proposito del decentramento, tra federalismo e devolution, accreditata da un ipotetico «imprinting di Bruxelles».
In effetti, la finalità originaria dell’integrazione, come un retropensiero ansiogeno, era quella di evitare in futuro l’ennesimo conflitto tra gli Stati del continente, dopo la trentennale catastrofe (1914-1945) che segnò il declino dell’egemonia europea nel sistema-mondo. Quindi il primo passo fu la creazione, nel 1951, di un mercato comune del carbone e dell’acciaio: una scelta non casuale, poiché la Ceca rendeva impossibile uno sviluppo nazionale autonomo in settori che – all’epoca – erano di fondamentale importanza strategica per ogni eventuale sforzo bellico. Su questa strada – come si diceva – venne innestandosi il processo costruttivo di una realtà sovranazionale del tutto innovativa, che valorizzava le migliori tradizioni politiche e intellettuali europee.
Nell’attuale crollo di immagine di una Unione Europea travolta dalla crisi economica, si giunge a mettere in discussione persino l’onestà d’intenti di quei primissimi passi, per cui i costanti richiami alla liberalizzazione dei movimenti di capitali, merci e lavoro prefigurerebbero una sorta di «Bruxelles Consensus» neoliberista antecedente al Washington consensus, l’ortodossia predicata nelle cattedrali del pensiero unico economico (Fondo monetario internazionale, Banca mondiale e World Trade Organization, tutti con sede nella capitale statunitense). Tesi che sconta un eccesso di sospettosità dietrologica e risulta destituita di fondamento. Già per le coordinate temporali: il ritorno dei reazionari all’attacco dello stato sociale parte con un «falso movimento» nella metà degli anni sessanta (la candidatura di Barry Goldwater alla presidenza degli Stati Uniti) e giunge a compimento nel decennio successivo. Ma a quel tempo era una storia anglosassone, non ancora europea.
Il cartello di Bruxelles
Indubbiamente – secondo la consueta fisiologia della politica – alla forza morale dei princìpi si affiancarono presto le ragioni materiali dell’economia. Sicché il rinnovato impulso verso l’integrazione comunitaria, registrato intorno alla metà degli anni ottanta, potrebbe essere considerato «la conseguenza di un allineamento di due corposi interessi: l’interesse delle grandi imprese europee a colmare quelli che percepivano come vantaggi competitivi del capitale giapponese e Usa; e l’interesse delle élite statali che cercavano di restaurare, almeno in parte, la perduta sovranità politica a livello nazionale per effetto della crescente interdipendenza internazionale». In questo secondo caso l’obiettivo non era quello di costruire uno Stato federale, quanto invece un cartello politico («il cartello di Bruxelles») attraverso il quale esercitare un certo grado di controllo sui crescenti flussi globali di ricchezza, informazione e potere. Si tratta in sostanza del disegno di recuperare sovranità nel nuovo disordine globale – che già si intravedeva nel graduale cedimento dell’ordine bipolare (tra il Vietnam e l’Afghanistan) – per distribuirne i benefici tra i propri membri sulla base di ininterrotti (ed estenuanti) negoziati.
Insomma, accanto alla concezione politica dei primi federalisti europei emerge un’altra idea di Europa, mercantile e finanziaria (bancaria?), in una coesistenza rivelatasi per un lungo periodo non necessariamente conflittuale. Anche perché ben presto è risultato evidente che nessuna leadership degli Stati membri credeva realmente nell’opzione federale, preferendo battere la strada intergovernativa e dunque riservare le decisioni rilevanti alla concertazione tra esecutivi. Con l’inevitabile conseguenza che l’idea fondativa di Europa unita si è andata imbastardendo.
Non è un caso nemmeno che questo progetto complessivo – portato avanti per oltre sessant’anni – ora si sia incagliato sugli scogli della sua scelta più ambiziosa: l’unificazione monetaria attraverso la creazione dell’euro. Un esperimento, carico anche di implicazioni positive, che diventa fuga in avanti – o forse puro e semplice carro messo davanti ai buoi – laddove configura un regime valutario in assenza di soggetti regolatori. Fermo restando che le modalità della sua costituzione tradiscono la principale preoccupazione delle cancellerie europee al momento dell’imprevista caduta del muro di Berlino e del conseguente processo di riunificazione tedesca a partire dal 1989: mantenere la Germania saldamente ancorata al quadro comunitario, per evitare che potesse mettere il proprio primato economico e demografico al servizio di una rinnovata politica di potenza nel cuore dell’Europa. I governi dei paesi europei – davanti a una svolta decisiva della storia – rivelarono per intero la propria ingenerosa miopia escogitando – come ha sottolineato l’economista Marcello De Cecco – «il progetto, perseguito in tutta fretta, di una divisa unica che imbrigliasse la potenza tedesca, rendendola inoffensiva, ma che escludesse l’unione politica».
Difatti, grazie a questi apprendisti stregoni sono state evocate forze incontrollabili: l’abile uso delle risorse mobilitate per la riunificazione della Germania ha creato il fenomeno – imprevisto ma non imprevedibile, e per nulla compreso – di un gigantesco surplus della bilancia dei pagamenti tedesca, contestuale alla marcata diminuzione del peso specifico dei partner. Di conseguenza, lo squilibrio espansivo ha dettato tassi di cambio superiori a quelli sopportabili dagli altri paesi dell’Unione, mentre la moneta unica faceva esplodere i loro debiti nei confronti dei tedeschi (e viceversa i crediti dei tedeschi verso di loro).
I governanti di quello che oggi è lo Stato leader sono soliti attribuire le migliori prestazioni della propria economia alle virtù delle politiche adottate in materia di flessibilizzazione del lavoro, che vorrebbero imporre a tutti i paesi dell’area. In realtà, il principale vantaggio competitivo per un sistema d’impresa indirizzato all’esportazione – quale il made in Germany – va individuato nella cosiddetta «svalutazione-ombra»: il passaggio dal marco all’euro ha comportato un considerevole indebolimento della valuta in cui avveni...