L'ascolto tabù
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L'ascolto tabù

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L'ascolto tabù

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Chi ascolta musica mentre fa l'amore? I cantautori sono poeti? Perché nella terza strofa della «Canzone di Marinella» si sente una tromba? Da dove arrivano le scale «orientali» nel primo album dei Pink Floyd? Com'è nata l'idea che le radio potessero trasmettere in continuazione le stesse canzoni? I dj continueranno a esistere o saranno sostituiti dalle app? Perché nessuno al mondo chiama più le canzoni «musica leggera» tranne che in Italia? E cosa c'entra la «musica leggera» col Ventennio fascista? Quando è stata inventata la «musica classica»?Scritto con mirabile equilibrio fra chiarezza giornalistica e rigore scientifico, L'ascolto tabù di Franco Fabbri affronta il complesso tema della popular music focalizzandosi sull'epoca dello «scontro globale» che ha travolto gli ultimi due decenni: uno scontro politico, economico e culturale al quale le musiche non sono sfuggite. Che si tratti di musica elettronica, di cantautori, di musiche del mondo, di rock, di industria musicale e dello spettacolo, di radio e televisione, di Internet, di insegnamento della musica nelle scuole, nei conservatori, nelle università, non è più possibile rinchiudere il discorso in uno specialismo tranquillizzante: se si parla solo di musica, la musica non si può capire.Il tabù del titolo è quello dell'ascolto disattento, fonte di panico per musicologi sussiegosi e critici conservatori di ogni provincia, incapaci di comprendere un ascolto che si svolga fra le corsie di un centro commerciale e non in una sala da concerto. Ma se non si riconosce che ogni genere esiste in funzione di altri generi, che ogni modo di fare e ascoltare la musica esiste in funzione di altri modi e in relazione con loro, ogni ascolto può diventare tabù. E la lezione di questo libro è che i tabù vanno sempre infranti.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788865765722
Storie della radio
Prima di cominciare a leggere (nota alla seconda edizione)
Nel 2011 sono stato nominato membro della giuria del Prix Italia, per il Premio speciale della Presidenza della Repubblica: era il segnale della fine di un lungo embargo dalla Rai, iniziato poco meno di dieci anni prima, delle cui origini – tra l’altro – parla quest’ultima sezione del libro. Nel 2012, poi, sarei stato chiamato di nuovo a condurre Radio Tre Suite, per l’ultima volta. Ma torniamo al 2011, a Torino. Alla fine di una giornata di lavori, partecipo a un generoso buffet offerto dalla Rai. Giovanna Milella, la presidentessa del Prix Italia, si prende cura degli ospiti. Mi vede solo e mi accompagna vicino a un tavolo dove c’è un altro invitato solitario, e dice: «Vi conoscete? Sergio Valzania, Franco Fabbri». Ci lascia. Inizia una serata surreale. Valzania, ormai ex direttore di Radio Tre (sostituito da Marino Sinibaldi nel 2009), e io, dopo esserci combattuti a distanza con una certa ferocia – fino alla mia cacciata dalla radio, e oltre – passiamo insieme, solo noi due, tutto il tempo compreso fra l’aperitivo e l’accompagnamento in albergo in autobus.
Di quello che ci siamo detti in quelle ore non ho un ricordo chiaro. Avrei voluto avere con me i testi di quest’ultima parte de L’ascolto tabù, per essere più preciso nelle risposte a Valzania, che comunque continuava a difendere le sue posizioni. Per quanto in larghissima parte le motivazioni del mio avversario mi fossero sembrate legate a un puro esercizio del potere in stile democristiano (o casiniano, per la precisione), fui colpito – se possibile, favorevolmente – dalla sua convinzione. Nel frattempo, i disastri del Terzo Anello (se ne parlerà diffusamente qui sotto) erano stati in parte rimediati, ma secondo me Radio Tre, anche sotto la direzione di Sinibaldi, non avrebbe mai potuto ritornare a essere quella pre-Valzania, e i temi del rinnovamento del pubblico e dell’innovazione tecnologica sono ancora allo stesso punto. C’è un sacro furore a infilare in ogni trasmissione le opinioni degli ascoltatori espresse via sms o attraverso i social media: ma avendoli visti, quei messaggi, dubito fortemente che possano essere la base su cui costruire una nuova radio. Come, del resto, le sparate di lettori frustrati, incattiviti o narcisisti (o tutte queste cose insieme) non hanno fatto granché per l’evoluzione dei giornali online. Qualcuno, alla fine, avrà voglia di ragionarci sopra?
Amo la radio
2005
La radio fa parte della mia storia personale e di quella della mia famiglia. Mio padre e mia madre si sono conosciuti alla radio, dove entrambi lavoravano; andando a trovare mia madre negli studi di corso Sempione, a Milano, ho scoperto lo Studio di Fonologia e ho saputo delle zuffe leggendarie tra Luigi Nono e Marino Zuccheri (il tecnico che ha collaborato con tutti i compositori che si sono avvicendati lì, dove è nata in Italia la musica elettronica); con Gino Negri e le sue trasmissioni per ragazzi e adulti ho imparato a conoscere la storia della musica; più o meno nello stesso periodo ho prestato chitarra e voce alla realizzazione di un radiodramma sulla carriera dei Beatles (dove Carletto Romano, il doppiatore di Jerry Lewis e dei vecchietti dei film western, dava la voce a Brian Epstein). Ho collaborato a trasmissioni come Per voi giovani e Un certo discorso, intervistando Alvin Lee, John Mayall, Jimmy Page e altri musicisti. Nel 1976 sono stato uno dei «giovani» portati ai microfoni della Rai dal presidente che doveva gestirne il cambiamento, Paolo Grassi: presentavo dischi a Radio Due, in prima serata, mescolando (in un modo piuttosto ardito, perfino per quei tempi) musica colta, rock, jazz, musiche di tradizione orale. Lavoravo negli studi di via Asiago, a Roma, o in quelli di Milano, dando vita anche a programmi nuovi: uno basato sui materiali musicali che la Rai otteneva richiedendoli alle altre radio pubbliche in giro per il mondo (rock di Hong Kong, musica leggera egiziana, musica da ballo dei night club del Ghana, tanghi finlandesi); un altro che portava alla radio cantanti e gruppi di vario genere e diversa fama, tutti rigorosamente dal vivo. Troppo presto, si direbbe.
Vent’anni dopo, un’intervista a Radio Tre in occasione dell’uscita di un mio libro, Il suono in cui viviamo, mi ha procurato un’offerta a collaborare per una rubrica (Sound Trek, con Michele Dall’Ongaro), e poi a condurre il contenitore serale, Radio Tre Suite. Sono stato una delle voci di Radio Tre dal 1997 al 2002 (anche con un programma «mio», Diario sonoro), e ho vissuto un’esperienza lavorativa ricca ed emozionante, sempre a contatto con persone (tecnici, registi, redattori, dirigenti) di grande valore. Non tutto funzionava come mi sarebbe piaciuto, e in particolare mi sembrava che ci fosse un certo scollamento, un girare in folle, fra la direzione dei programmi, l’apparato tecnico, il sistema di rilevazione degli ascolti e quello dedicato alla raccolta pubblicitaria. Non credo di essere mai stato un ingenuo, e comprendevo che dietro a questa mancanza di coordinamento ci fossero politiche divergenti, legate a interessi diversi e spesso contrapposti: ma come a molti altri probabilmente anche a me sfuggiva il modo specifico in cui questi ingranaggi avrebbero cominciato a girare dopo la vittoria elettorale della coalizione di centrodestra nel 2001.
Quest’ultima sezione del libro contiene gli articoli che ho scritto sulla radio, e in particolare sulla vicenda di Radio Tre, a partire dal novembre di quell’anno. A quell’epoca a dirigere Radio Tre c’era ancora Roberta Carlotto, nominata durante il governo precedente, e non è affatto un caso se il mio primo articolo, apparso su l’Unità, venne citato da esponenti del centrodestra per tacciare i dirigenti «di sinistra» di arretratezza tecnologica e di voler nascondere chissà quali crolli dell’ascolto. Pochi mesi dopo il centrodestra attuava la sua occupazione sistematica di tutti i posti di comando in Rai, e a quattro anni di distanza (naturalmente?) nessuno dei cambiamenti che invocavo nel 2001 e che ho continuato a sollecitare in seguito è stato attuato: Radio Tre si ascolta sempre peggio, il digitale terrestre radiofonico non è stato realizzato (ma è stata sospesa la trasmissione in onde medie di Radio Due e Radio Tre), i sistemi di rilevazione dell’ascolto sono ancora quelli, obsoleti, basati sulle interviste retrospettive, e la raccolta pubblicitaria è inadeguata. In cambio sono state introdotte varie «innovazioni» che hanno snaturato il carattere dell’unica radio di cultura in Italia, infastidendo moltissimi ascoltatori abituali (che presto si sono organizzati nella vivace associazione degli Amici di Radio Tre) e fallendo nel progetto di portarne di nuovi. Credo che la lettura degli articoli che seguono contribuisca a cogliere, sia pure in un ambito ristretto, l’essenza della politica del governo di centrodestra guidato dall’imprenditore dei media Silvio Berlusconi, nel suo svolgimento attraverso gli anni: l’occupazione del potere, la soppressione delle voci critiche, la mancata realizzazione delle innovazioni promesse, la depressione anziché lo sviluppo dell’economia e dell’informazione. Trattandosi di un settore molto specifico, contiguo a quello centrale negli interessi del primo ministro e certamente suscettibile di collegamenti internazionali (si veda la concentrazione monopolistica nella radiofonia dell’America di Bush), anche il valore dei dettagli è essenziale: per questo ho riportato gli articoli sostanzialmente così come sono stati scritti in origine, senza tagliare quelle che a una lettura di seguito possono apparire come ripetizioni e perfino mie piccole ossessioni. Il diavolo, si dice, sta nei particolari.
Il braccialetto d’oro
2001
Una rivoluzione dalla Svizzera? A prima vista sembrerebbe, più che una notizia, una definizione scolastica della figura retorica dell’ossimoro. Eppure è proprio così: una rivoluzione nel mondo dei media, con conseguenze inimmaginabili sull’offerta informativa e anche musicale, potrebbe arrivare proprio dalla Svizzera, sotto forma di un orologio da polso. Finora, i sondaggi sull’ascolto radiofonico sono stati basati sulla memoria di un campione di ascoltatori, i quali devono annotare su un diario o addirittura solo ricordare al volo, se intervistati telefonicamente, che stazione hanno ascoltato e per quanto tempo. Ovviamente potrebbero sbagliarsi. Potrebbero segnalare più volentieri la stazione che preferiscono o che conoscono meglio, anche se ne hanno ascoltata di fatto un’altra. Potrebbero indicare un ascolto ininterrotto, quando magari hanno lasciato la radio accesa per andare altrove. Potrebbero dimenticarsi – o non essere in grado – di segnalare le stazioni ascoltate al bar, al supermercato, in macchina. Eppure con queste memorie così vaghe si costruiscono dati di ascolto che influenzano le fortune pubblicitarie delle stazioni, le carriere di programmatori e conduttori, le scelte musicali. Ma qui arriva l’orologio da polso. In realtà è un piccolo computer, ideato da un ricercatore svizzero, il dottor Matthias Steinmann, che ha qualche fama (e qualche risparmiuccio in banca, s’immagina) per aver ideato anche il Telecontrol, il congegno che è alla base dell’Auditel. Ma il microcomputer da polso è molto più intelligente e sofisticato. Grosso modo è un piccolo registratore digitale, con un microfono, che raccoglie pochi campioni audio invece delle decine di migliaia al secondo che servono per un cd o un minidisc. Ma quei pochi campioni sono sufficienti, se confrontati con la memoria completa di un computer centrale, a ricostruire con esattezza quale programma radiofonico fosse compreso nel paesaggio sonoro del portatore dell’«orologio» in qualunque momento della giornata. E questo è precisamente ciò che avviene col nuovo sistema di rilevazione: settimana per settimana, gli «orologi» vengono raccolti, il contenuto delle loro registrazioni viene messo a confronto con l’archivio sonoro del computer centrale, e i dati sono elaborati.
Ovviamente l’«orologio» rileva solo le stazioni che sono state ascoltate per davvero: la radiolina lasciata accesa in cucina mentre si passa l’aspirapolvere in camera da letto non «fa» ascolto. E nemmeno la stazione più famosa o prestigiosa, o semplicemente di cui ci si ricorda il nome, rispetto a quella sentita magari per caso, ma con attenzione. Ecco, l’attenzione è fondamentale. Perché col sistema del dottor Steinmann si capisce se una stazione è veramente oggetto di ascolto, o si perde nel rumore di fondo. E questo, anche per gli inserzionisti pubblicitari, non è un dato da poco.
I risultati – nei paesi dove si è passati già al nuovo sistema – sono sconvolgenti. Le stazioni di intrattenimento superficiale, da chiacchiera di dj, hanno visto i loro ascolti decurtati. Fortissimo l’ascolto dei notiziari, e sorprendentemente più alte che nelle vecchie rilevazioni le percentuali di ascolto nel tardo pomeriggio e alla sera. Letteralmente triplicati gli ascolti delle radio di cultura, che vengono seguite con vera e fedele attenzione: Rete 2, l’equivalente svizzero di Radio Tre, è arrivata a uno share quasi del 10%, scavalcando la rete «giovanilista». E non è che siano cambiati i programmi: è che i dati precedenti erano fasulli. Gentile dottor Steinmann, la preghiamo, faccia un salto dalle nostre parti.
Sarà l’aglio che tiene lontana Radio Maria?
2001
Immagino che tutti voi sappiate cos’è un sintoamplificatore. Ma è facile spiegarlo a chi non se lo ricordasse: è un componente di un impianto hi-fi, che incorpora un amplificatore con tutte le prese necessarie per collegare lettore di cd, registratore, apparecchi ausiliari, casse, insieme a un sintonizzatore, cioè un ricevitore per la radio. Chissà quanti ne avrete visti, nei negozi o nelle case. Quanti ne ho visti anch’io, dicendomi: «Magari me ne compro uno». Negli Usa, paese moderno, il sintoamplificatore è il componente-base di quasi tutti gli impianti hi-fi. Lì ascoltano molto la radio, ed è bello farlo attraverso una buona apparecchiatura, con comandi che permettono di selezionare facilmente e memorizzare le stazioni preferite. Uno può godersi il suono stereofonico e registrarsi i concerti. Tutto questo mi attirava molto, ma la mia esigenza era molto più modesta. La mia radiolina, un piccolo gioiello fornito di Rds (quel sistema che c’è sulle autoradio e che indica il nome della stazione che si sta ascoltando, permettendo di ricercare il segnale migliore), riceve Radio Tre solo in cucina. Anzi, in un punto preciso della cucina: appoggiata sul recipiente dove conservo l’aglio e lo scalogno. Se la sposto da lì, ricevo Radio Maria. Non so se sia l’aglio che tiene lontana Radio Maria, perché in realtà se mi avvicino per prenderne uno spicchio addio Barcaccia, addio Teatro Giornale (Buddhabar e Le oche di Lorenz sono più fortunate perché a quell’ora non mi serve l’aglio, né lo scalogno). Sapete, vivo in una cittadina marginale della Lombardia, dove il segnale è debole: Milano, la conoscete? Quindi mi sono detto: se compro un sintonizzatore finalmente potrò sentire le mie trasmissioni preferite seduto in poltrona. E dato che il mio amplificatore comincia ad avere i suoi anni, ho pensato: «Sinto-amplificatore», un po’ come quel personaggio del Laureato che consiglia a Dustin Hoffman: «Una parola sola: plastica!». La soluzione dei miei problemi! Vado in vari negozi e chiedo se hanno sintoamplificatori. Ne hanno moltissimi. Ma vedo che sono tutti sistemi audio/video: centraline per collegare lettori dvd, videoregistratori, sistemi di ascolto a cinque casse con Dolby Pro-Logic, insomma un’iradiddio di possibilità per chi voglia farsi un cinema in casa (un home theater, dicono gli esperti). Sì, ma a me quelle cose lì non servono: ci sono sintoamplificatori solo audio? Delusione, aria di superiorità. «Non li teniamo.» Non tutti, devo dire: il mio negoziante preferito è gentilissimo, prende a cuore la questione, scartabella tutti i cataloghi. Ed eccoli lì i sintoamplificatori solo audio: ogni marca ne ha uno o due, sono belli, nuovi, hanno quello che ci vuole, ne vedo uno che costa centocinquanta euro di meno del suo equivalente audio/video, lo voglio. Bisogna ordinarlo, benissimo. Ripasso dal negozio: «Mi spiace: quel modello lì c’è sul catalogo, ma non lo importano». Sfogliamo altri cataloghi, eccone un altro: questo c’è perfino nel database on-line del distributore. Costa ancora meno. Comprare! Due ore dopo mi telefona il rivenditore: «Non importano nemmeno quello, ma esiste, eccome: mi hanno dato il codice, se va in Svizzera lo trova». Morale della storia: la radio pubblica è oscurata da stazioni che violano i regolamenti. Per ascoltarla decentemente dovrei comprare un apparecchio costoso che non mi serve (perché gli importatori ritengono che chi non vuol farsi un cinema in casa non sia un consumatore degno di nota), oppure andare in Svizzera. Andrò in Svizzera. Diceva lo slogan: «… e questa la chiamano libertà».
E se uno si comprasse la parabola?
2001
Se non ho un sintoamplificatore, figurarsi la parabola. Ma prima di affrontare i problemi della seconda, cari lettori, vorrei aggiornarvi sul primo: tanto ormai siamo in intimità, sapete perfino dove tengo appoggiata la radio. Dunque, non è più vero che non posseggo un sintonizzatore: al sintoamplificatore ho rinunciato, perché non me la sentivo di contrabbandarne uno dalla Svizzera, ma il sintonizzatore alla fine me lo sono comprato. Non costa tanto. Ho chiesto al commesso che differenza ci fosse fra i vari modelli, e lui mi ha spiegato che dal punto di vista della precisione della sintonia si equivalgono quasi tutti. Poi ha aggiunto (giuro che non mi conosce, ma è la tipica gentilezza milanese): «Tanto Radio Tre non si prende». Invece non è vero. Si prende benissimo. E anche il quinto canale della filodiffusione, con quella bella musica classica annunciata così: «Abbiamo trasmesso, di Franz Joseph Haydn, la Sinfonia numero 94 in Sol maggiore, “La sorpresa”, nei tèmpi…», e voi lettori non lombardi non potete immaginare che tenerezza, che nostalgia, non per la radio di una volta, ma per l’italiano di una volta, adesso che nelle trasmissioni regionali (televisive) fanno a gara a chi parla con l’accento più dialettale, e ci sommergono di perchè, di stèlle, di biciclètte (tutte con la «e» ben aperta), e ci strizzano anche l’occhio se il Milan o l’Inter hanno vinto, perché se sei di Milano e non sei tifoso dell’Inter o del Milan sei un essere inferiore, e se non sei tifoso del calcio non esisti proprio. Ecco, questa – invece – è la televisione. E nemmeno la peggiore. Cosicché il sintonizzatore assume una funzione strategica, perché nei momenti di pigrizia informativa (che non è la pigrizia di essere informati, ma il desiderio di essere informati mentre si è pigri) posso ascoltare Radio Tre, Radio Popolare o la filodiffusione, e contemporaneamente esplorare il video usando i due tasti ormai più consumati del telecomando: quello del televideo e soprattutto quello che azzera il volume. Mi sono fatto l’idea che la volgarità visuale della televisione sia comunque inferiore a quella acustica, e sicuramente meno invasiva: uno così può ascoltare della musica e vedere una gara di slalom, senza a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Dal videotelefonino allo smartphone: prefazione alla seconda edizione
  4. L'ascolto tabù
  5. La scena: gente che balla
  6. La musica, l’elettroacustica, i pensieri musicali
  7. Per una critica del fallacismo musicologico
  8. Studiare la popular music, in Italia
  9. Comprendere e fare popular music
  10. Non toccare le manopole
  11. Sui nomi delle musiche
  12. A chi piaceva «Lovely Rita»?
  13. «Paint It Black, Cat»: rock, pop e Mediterraneo
  14. Musiche del mondo
  15. Serve la musica, alle canzoni?
  16. Il cielo in una stanza
  17. Mettere in musica la poesia: una bella storia
  18. Essere cantautore oggi
  19. Il cantautore con due voci (e con molte mani)
  20. Quello che le parole non dicono
  21. Il suonatore Faber
  22. Sanremo, il Festival
  23. L’industria della musica
  24. Le canzoni, la politica, la guerra
  25. Rock in Opposition
  26. Il Trentennio: «musica leggera» alla radio italiana, 1928-1958
  27. Storie della radio
  28. Bibliografia
  29. Fonti