Capitolo 1
Sono cresciuto in campagna – La scoperta della musica – I primi ricordi del cinema – Diventare pastore – Arrabbiato con tutto – Studente di filosofia – Il mio debutto alla radio e sui giornali – Il più giovane Dramaturg in Germania – Il 1968 e il terrorismo – Bergman, Bresson e il cinema d’autore – I miei film preferiti.
Beatrix von Degenschild e suo figlio Michael
Ha spesso affermato che una biografia non illumina l’opera di un autore…
Sì, perché in questo modo la portata delle questioni sollevate da un film ne risulta limitata, mostrando che sono legate alla biografia del regista. Lo stesso accade con i libri. Io voglio sempre confrontarmi direttamente con l’opera, senza andare a cercare altrove delle spiegazioni. Ecco perché mi rifiuto di rispondere a domande biografiche. Niente mi infastidisce quanto sentire: «Che tipo di persona dev’essere questo Haneke, per realizzare dei film così cupi?». Lo trovo sciocco e non voglio entrare in questo falso dibattito.
Le faremo lo stesso alcune domande sulla sua vita…
Ne saranno tutti delusi, perché non ho avuto un’infanzia triste. Sono una persona molto normale. Potrebbe essere difficile da credere, ma è così.
Suo padre era un attore e regista, sua madre un’attrice. È cresciuto in un ambiente artistico da cui sarà stato influenzato…
Non proprio, dato che non sono stato cresciuto dai miei genitori. Sono cresciuto a casa della sorella di mia madre, in campagna, in una grande tenuta. A Wiener Neustadt, una cittadina a cinquanta chilometri a sud di Vienna, dove ho ambientato il mio film Lemminge.
Ma sua zia era appassionata di musica. Non è stato inizialmente influenzato da un ambiente musicale?
Non particolarmente. Ma avrei potuto esserlo, dato che c’era un musicista in famiglia. Alla fine della guerra, mio padre, che era tedesco, è rientrato direttamente nel suo paese e non è più tornato in Austria. Mia madre si è così risposata con Alexander Steinbrecher, un compositore ebreo che, dopo essere fuggito dal nazismo in Inghilterra, divenne il Kapellmeister, ovvero il direttore musicale, del Burgtheater.
Lei è un melomane…
Ma non per merito della mia famiglia. È piuttosto l’incontro con la musica stessa ad avermi fatto nascere la passione. Quando ero bambino, mia zia voleva, come era tradizione per un figlio della buona borghesia, che imparassi a suonare il pianoforte. All’inizio, l’ho odiato. Volevo anche abbandonarlo. Va detto che quando suonavo, mia zia era sempre al mio fianco a ripetere: «Sbagliato! Sbagliato! Sbagliato!». Ma un giorno, me lo ricordo perfettamente, era il giorno di Ognissanti, dovevo avere intorno ai dieci anni, tutta la famiglia era andata al cimitero e non avevo voluto accompagnarli. Ho ascoltato alla radio un brano che ho trovato straordinario. Alla fine, hanno annunciato che si trattava del Messiah di Händel. È stata una rivelazione per me, perché fino ad allora mi ero interessato solo alla musica Schlager, le canzoni di successo che andavano allora. Ho iniziato ad ascoltare musica classica e un po’ più tardi – dovevo avere tredici anni – è uscito Mozart, un film molto kitsch, ma con un Oskar Werner eccezionale nel ruolo del protagonista. Quando sono tornato dal cinema, ho raccolto i miei risparmi e sono andato a comprare gli spartiti di tutte le sonate di Mozart. Ho iniziato a esercitarmi come un matto, senza fermarmi. La mia passione per la musica risale a quel tempo. Io, naturalmente, sognavo di diventare un pianista. Fortunatamente, il mio patrigno ha avuto modo di ascoltarmi in molte occasioni. Componeva delle specie di Singspiele, opere simili all’opera buffa, e anche dei Lieder. Ha avuto molto successo in Austria con diversi pezzi che sono un po’ dimenticati oggi. Era un uomo molto colto, ed era stato una sorta di bambino prodigio al pianoforte. E quando ho iniziato a scrivere piccole composizioni, molto ingenue – avevo addirittura iniziato a comporre una messa – mi ha detto che tutto questo era molto bello, ma che sarebbe stato meglio per me smettere di pensare di diventare compositore.
Le sue prime spinte creative erano dunque rivolte alla musica?
Sì. Poi, durante la pubertà, mi sono buttato sulla poesia, come molti adolescenti del tempo.
Si ricorda quali fossero le sue fonti di ispirazione? Leggeva molto?
Ho sempre letto molto, perché allora non c’era la televisione.
Che tipo di adolescente era? Era felice di vivere in mezzo alla natura?
La proprietà di famiglia era in campagna, ma avevamo anche una casa in città, sempre a Wiener Neustadt, ed è lì che sono cresciuto, dato che c’erano le scuole. Da adolescente, mi sentivo molto frustrato in campagna, dove non c’era niente da fare. Ma, allo stesso tempo, non mi sono mai annoiato. Ho sempre letto e ascoltato musica. Come tutti quelli della mia generazione, non avevo né computer né televisione. Però si facevano un sacco di cose insieme, come giocare a ping-pong e a scacchi.
Faceva molto sport?
Sì. Siccome ero già un po’ magrolino, i miei genitori hanno chiesto al nostro medico cosa si potesse fare per aiutarmi nello sviluppo. Ha raccomandato la scherma e mi è piaciuta molto. L’ho praticata fino all’età di sedici, diciassette anni; non me la cavavo male.
Ha mai gareggiato?
Sì, e mi piaceva. In seguito però non ho più avuto tempo. L’altro sport che ho iniziato a praticare da piccolo era lo sci, andavo ogni inverno a Bad Gastein. Possiamo dire che era la norma per la borghesia austriaca, ma io ero bravo. Ho anche vinto una volta una gara locale. Ancora oggi, adoro sciare. Io e mia moglie andiamo regolarmente a Zürs am Arlberg.
Aveva molti amici a Wiener Neustadt, usciva molto?
Non ho ricordi di quando ero piccolo. Ma non appena ho cominciato a frequentare le scuole medie, verso dieci, undici anni, sono entrato a far parte di una banda di ragazzi. A quel tempo, le scuole non erano miste. Solo con le lezioni di ballo, intorno ai diciassette anni, i ragazzi e le ragazze erano spinti a socializzare. Detto questo, la mia famiglia possedeva, a pochi chilometri da Wiener Neustadt, una proprietà che si affacciava direttamente su un lago, dove trascorrevo tutte le estati. E lì, con i figli dei vicini, che appartenevano tutti alla borghesia locale, formavamo un bel gruppo, ragazzi e ragazze insieme.
Da bambino, è anche stato in Danimarca. In che occasione?
È stato un episodio molto triste per me, che ho citato nel mio saggio su Au hasard Balthazar di Robert Bresson. Fu subito dopo la guerra. Avevo cinque o sei anni. Mia zia e mia madre hanno pensato, a causa della mia magrezza, che mi avrebbe fatto bene partecipare a un programma organizzato dai paesi vincitori per aiutare i bambini delle nazioni sconfitte. Pensavano che la Danimarca, con la sua grande produzione di burro, avrebbe fatto del bene al loro piccolo malaticcio. Ma non avevano immaginato cosa potesse significare per un bambino di cinque anni – mai uscito di casa fino ad allora – ritrovarsi in una famiglia straniera di cui non conosceva nulla. Mi ha davvero scioccato. Tanto che quando dopo tre mesi sono tornato, non ho parlato con nessuno per qualche settimana.
E cosa faceva in Danimarca?
Niente! Le persone si sforzavano di parlarmi in tedesco, pe...