Monsieur Croche
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Acuti e irriverenti, severi fino alla stroncatura o talmente ironici da risultare dissacranti, gli scritti critici di Claude Debussy costituiscono una delle testimonianze più sfrontate mai offerte dalla critica musicale e una fucina sorprendente ed eclettica di riflessioni sulla scena contemporanea e sulle indimenticabili opere del passato.Presentati talvolta in forma di conversazione con un certo Monsieur Croche, ineffabile alter ego dell'autore, e ospitati a partire dal 1901 sulle riviste culturali e sui quotidiani più autorevoli del Novecento – La Revue blanche, Gil Blas, Musique e Le Figaro –, gli articoli e le recensioni di Debussy rivelano, nel loro tono sublimemente anarchico, il lato più intimo del compositore francese e, insieme, gli immaginari sonori che ne hanno nutrito la profonda sensibilità. Da queste pagine traspaiono la sua insofferenza per artisti come Gluck, Berlioz e Saint-Saëns e l'amore incondizionato per Rameau, Musorgskij e Carl Maria von Weber. Debussy vi matura le sue considerazioni più profonde e rivoluzionarie sui deleteri metodi del conservatorio nell'educazione dei giovani compositori, sul repertorio anacronistico dei teatri d'opera parigini e sulla nascente cultura di massa che, sull'onda di un incontrollabile progresso scientifico, proprio in quegli anni fa germinare l'industria discografica.Monsieur Croche, che per la prima volta il Saggiatore presenta in Italia, porta finalmente alla luce tutti gli scritti di Claude Debussy, restituendo interezza al suo pensiero e alla verve che ha scandalizzato i suoi contemporanei. Un'attività, quella di critico, che per Debussy ha rappresentato un ulteriore esercizio di libertà espressiva e che apre nuovi sentieri per avvicinarsi alla sua storia e alla sua opera, per sfiorare la natura misteriosa e irriducibile della creazione musicale e per riscoprire, da questa angolazione privilegiata, la scena artistica più fertile e policroma del xx secolo.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788865766569
Articoli
La Revue blanche, 1º aprile 1901
Il «Faust» di Schumann – Ouverture per «Le Roi Lear» di Augustin Savard – Terzo atto del «Sigfrido» – Una sinfonia di Witkowski
Visto che mi hanno chiesto di parlare di musica su questa rivista, consentitemi di spiegare in poche parole il modo in cui intendo farlo. Più che della critica, ci troverete impressioni sincere lealmente vissute. La critica infatti assomiglia quasi sempre a variazioni brillanti sull’aria «Voi avete sbagliato perché non fate come me», oppure «Voi avete talento, io non ne ho, non si può andare avanti così…». A partire dalle opere cercherò di individuare i molteplici movimenti che le hanno fatte nascere e la vita interiore che c’è dentro. Non è forse decisamente più interessante che giocare a smontarle come curiosi orologi?
Le persone non ricordano forse che da bambini era loro proibito aprire la pancia delle marionette?… (un crimine di leso mistero). Eppure non smettono di ficcare il loro estetico naso dove non ha niente a che fare. Non sventrano più marionette, no, ma spiegano, smontano e, a freddo, uccidono il mistero: è più comodo, e così dopo si può parlare. Mio Dio, c’è chi è giustificato da una notoria incapacità di comprendere, ma c’è chi, più ferocemente, ci mette della premeditazione: bisogna ben difendere la propria cara piccola mediocrità… e costoro hanno una fedele clientela.
Parlerò pochissimo delle opere consacrate dal successo o dalla tradizione. Una volta per tutte, Meyerbeer, Thalberg, Reyer… sono uomini di genio, e non parliamone più.
Ci saranno domeniche, quando il buon Dio sarà cortese, in cui non ascolterò musica per niente; me ne scuso in anticipo… E in ultimo, atteniamoci alla parola «Impressioni», ci tengo molto perché solo così sarò libero di tenere la mia emozione al riparo da ogni estetica parassitaria.
Ai Concerts Colonne: il «Faust» di Schumann
Potremmo confrontare questo Faust con altri Faust: si arriverebbe a dire qualcosa di cui poi pentirsi, e ciò non gioverebbe a nessuno, neanche a Goethe. A proposito di Schumann, ci si è mai resi conto di quanto abbia potuto lasciare influenzare il suo genio puro da quel notaio elegante e facile che era Mendelssohn? In particolare nel Faust: si inciampa troppo spesso in qualcosa che sa di Mendelssohn; Mendelssohn lo preferisco da solo, perché così si sa con chi si ha a che fare.
Ai Concerts Lamoureux: Ouverture per «Le Roi Lear» di Augustin Savard,1 prima esecuzione; Terzo atto di «Sigfrido»
L’ouverture del Roi Lear di Augustin Savard ha un sapore un po’ troppo wagneriano per il mio gusto e tipicamente wagneriana è l’impertinenza dei piatti che sternutiscono sul naso dei flauti; il tema del Roi Lear possiede quell’eleganza maestosa che si trova solo nel Götterburg. Dà comunque prova di una bella musicalità, soprattutto nella parte dove si delinea la dolce figura di Cordelia; il finale è brusco, e si direbbe che lo sia volutamente. C’è forse della musica dietro questa ouverture…? Ci sarebbe da augurarselo.
Le esecuzioni antologiche che Camille Chevillard ci ha proposto della Tetralogia hanno suscitato giudizi di vario tipo. Io le considererei dettate da un gusto sopraffino e da un tatto squisito. Le persone che si danno arie da intenditori quando parlano della Tetralogia in realtà non resisterebbero mai a un’esecuzione integrale di questo enorme catalogo musicale. Del resto, Camille Chevillard ha il talento orchestrale quasi unico di dar vita a quella paccottiglia tenuta insieme dalle pelli di animali indossate dai personaggi del Sigfrido. E poiché l’immaginazione ha la possibilità di trascendere scenari così poveramente fiabeschi, i personaggi ne vengono fuori più umani.
Dobbiamo ringraziare Camille Chevillard anche perché si astiene dalla pantomima della tauromachia così diffusa tra certi direttori d’orchestra di reputazione internazionale. È alquanto sconcertante quel modo di conficcare banderillas nella testa di un corno inglese o di ipnotizzare dei poveri tromboni con gesti da matador. Chevillard si accontenta di comunicare ai suoi ascoltatori la certezza che lui ha capito molto bene la musica che dirige: sembra tutto molto semplice, ma è molto difficile da realizzare. Stavo per dimenticarmene… Arthur de Greef ha suonato meravigliosamente un concerto per piano di Saint-Saëns (opera ormai consacrata).
Alla Société Nationale: Concerto d’orchestra del 16 marzo
C’è stata un’accoglienza entusiastica per la sinfonia di Georges Martin Witkowski.2 Dopo Beethoven, sembrava che non ci fossero più dubbi sull’inutilità della sinfonia, in Schumann e in Mendelssohn infatti la sinfonia non è altro che una replica rispettosa delle stesse forme con meno vigore. Eppure già la Nona era un’indicazione geniale, un meraviglioso desiderio di espandersi, di liberare le forme abituali conferendo loro le dimensioni armoniose di un affresco.*
La vera lezione di Beethoven non era certo quella di conservare la vecchia forma; e tantomeno l’obbligo di ricalcare le sue orme. Il compito era guardare attraverso le finestre aperte sul cielo, ma mi pare le abbiano chiuse per sempre; le poche cose riuscite in questo genere musicale mal compensano gli esercizi diligenti e stereotipati, che solo per abitudine chiamiamo sinfonie.
La giovane scuola russa ha tentato di rinnovare la sinfonia prendendo idee dai «temi popolari»: è riuscita a cesellare scintillanti gioielli; ma non c’è forse una fastidiosa sproporzione tra il tema e gli sviluppi che bisognava per forza estrarne?… Intanto la moda del tema popolare si estendeva sull’universo musicale: si setacciavano le province più sperdute, da est a ovest; a vecchie bocche contadine venivano carpiti ritornelli ingenui, sbigottiti di ritrovarsi in abiti di pizzi armoniosi. Un non so che di leggermente imbarazzato persisteva in quei temi, ma imperiosi contrappunti li costringevano a dimenticare la loro umile origine.
Bisogna allora concludere che, malgrado i tentativi di trasformarla, la sinfonia appartiene al passato per l’eleganza lineare, per l’organizzazione cerimoniale e per il suo pubblico filosofico e imbellettato? Si è forse fatto qualcosa di più oltre a sostituire la sua vecchia cornice d’oro sbiadito con l’ottone indisponente delle strumentazioni moderne?
La sinfonia di Witkowski è costruita su un corale bretone. La prima parte è la presentazione abituale del «tema» sul quale lavora l’autore; poi cominciano i dovuti spostamenti…; la seconda parte è qualcosa di simile a un laboratorio sul vuoto…; nella terza parte si scherza un po’ con un’allegria tutta bretone, attraversata da frasi di vigoroso sentimentalismo; il corale bretone intanto si è fatto da parte – meglio così –, ma poi riappare, e gli spostamenti continuano. La cosa interessa visibilmente gli specialisti, si tergono la fronte, il pubblico chiama l’autore alla ribalta… In ogni caso è la parte più riuscita. Qui Witkowski parla con un linguaggio più spontaneo e più persuasivo: d’altronde ha un’esperienza incontestabile, senza cedimenti anche nella lunghezza; ascolta voci certamente «autorevoli» che gli impediscono, mi pare, di sentire una voce più personale.
Non vedo molto altro da ricordare se non i Danish Songs per canto e orchestra di Fritz Delius: sono melodie dolcissime, candide, una musica per cullare i ricchi convalescenti dei quartieri alti… C’è sempre una nota che si trascina su un accordo; come sull’acqua, una ninfea stanca di essere contemplata dalla luna, o ancora, un piccolo aerostato bloccato tra le nuvole.
Davvero ineffabile questa musica! L’ha cantata C. Andray-Fairfax con una voce sognante e malinconicamente raffinata. Mentre la musica si lamentava, Mademoiselle Andray-Fairfax ha inscenato un confronto tra il pubblico e il lampadario, che si è risolto, devo ammettere, tutto a favore del lampadario. Questo gioco grazioso sembrava difendere la delicatezza delle melodie dal rumore barbaro delle ovazioni. È d’altronde singolare questo bisogno istintivo, che risale all’età della pietra, di battere le mani l’una contro l’altra lanciando gridi di guerra, per manifestare il proprio entusiasmo… Non c’è alcuna intenzione critica in questa osservazione, né la pretesa di mettere l’umanità sotto processo; avevo semplicemente bisogno di concludere queste «impressioni».
La Revue blanche, 15 aprile 1901
«La camera dei bambini» di Musorgskij3 – Una sonata per piano di Paul Dukas – Concerti sinfonici del Vaudeville
L’ultima domenica di marzo (domenica delle Palme), i concerti domenicali vendevano un po’ di Wagner… senza grandi risultati. Da Colonne il menu era vario; da Chevillard, un solo piatto, ma tetralogico! Il cielo si è vendicato riversando sugli infelici dilettanti tutte le sue riserve di pioggia. Colui che regna nei cieli o è wagneriano o non lo è, come diceva… (lo sapete, vero?)
«La camera dei bambini», poesia e musica di Musorgskij
Questo titolo designa una serie di sette melodie, ogni melodia è una scena infantile, ed è un capolavoro. Musorgskij è poco conosciuto in Francia; una scusante, è vero, può essere quella che non lo è molto neanche in Russia. È nato a Karevo (nella Russia centrale) nel 1839; è morto nel 1881, in un letto dell’ospedale militare Nicola a Pietroburgo. Da queste due date si può capire che non ha avuto tempo da perdere per avere del genio, non ne ha perso e lascerà nel ricordo della gente che lo ama, o che l’amerà, tracce incancellabili. Nessuno ha mai saputo parlare con accenti più teneri e più profondi a ciò che di meglio c’è in noi; lui è unico e lo resterà per la sua arte senza schemi, senza formule inaridenti. Mai un’anima così raffinata si è tradotta con mezzi più semplici; pare l’arte di un curioso selvaggio che scopre la musica a ogni passo fatto dalla propria emozione; non è nemmeno questione di una qualche forma, o meglio, questa forma è talmente molteplice che diventa impossibile associarla a forme prestabilite – potremmo dire burocratiche –; tutto si regge in equilibrio e si compone di piccoli tocchi successivi, uniti da un legame misterioso e dal dono di una luminosa chiaroveggenza; talvolta Musorgskij comunica anche sensazioni di brivido, di ombre inquiete che avviluppano e stringono il cuore fino all’angoscia. Nella Camera dei bambini, c’è la preghiera di una fanciulla prima di addormentarsi, dove sono annotati i gesti, il turbamento delicato di un’anima di bimba, e anche quel modo delizioso che hanno le fanciulle di posare a fare le persone grandi, con una sorta di verità febbrile nell’accento, che si trova solo lì. La Berceuse della bambola, grazie a una prodigiosa capacità di assimilazione, sembra presa parola per parola da quella facoltà che hanno le menti infantili di immaginare paesaggi di un mondo intimo fantastico; il finale di questa berceuse è così dolcemente riposante che la piccola ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Finalmente
  4. Prefazione
  5. Articoli
  6. Interviste
  7. Titoli originali
  8. Nota del traduttore