L'arte di essere felici. Come sopravvivere alle avversità e riscoprire il valore della vita
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L'arte di essere felici. Come sopravvivere alle avversità e riscoprire il valore della vita

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L'arte di essere felici. Come sopravvivere alle avversità e riscoprire il valore della vita

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Sentirsi disarmati di fronte a una delusione amorosa. Avere paura di non superare un esame. Chiedersi quando finalmente si addolcirà il dolore del distacco.Ci sono occasioni in cui la sfortuna sembra farsi beffe di noi, giorni in cui lo sconforto ci lascia intorpiditi, frustrati; giorni in cui il mondo appare svuotato di senso. Come provare a essere felici nonostante le avversità? Come sopravvivere alla vita? Si può continuare a vivere e ad amare, quando ci si scopre risucchiati nel turbine dei piccoli e grandi problemi dell'esistenza?Questo libro di Pierre Zaoui – una delle voci francesi più autorevoli del pensiero contemporaneo, già autore dell'Arte di scomparire – è un piccolo, irrinunciabile manuale di sopravvivenza: convinto che l'ultima ancora di salvezza contro l'assurdità dell'esistenza sia il pensiero, Zaoui ci guida in una passeggiata filosofica nei territori più impervi della vita, affacciandosi con coraggio persino sugli scoscesi precipizi davanti a cui tanto spesso i sedicenti «intellettuali» arretrano timorosi: l'amore e le sue vertigini, il timore della fine, il dolore del lutto. Con la sensibilità del flâneur, e insieme il rigore del grande filosofo, Zaoui procede per svolte improvvise e accostamenti subitanei, oscilla tra Nietzsche e Flaubert, dirige il suo sguardo sui minuti dettagli del quotidiano che – sommersi dagli stimoli – non sappiamo più apprezzare: i piccoli momenti di tranquillità dell'anima, il piacere del silenzio, i fiori – i più belli – della generosità umana. Perché soltanto la filosofia, ci ricorda Zaoui, è in grado di cogliere la verità universale nascosta nei meandri di ogni singola esperienza, anche la più negativa. Con eleganza inconfondibile, L'arte di essere felici esalta il valore della vita e insegna al lettore non solo a convivere con le preoccupazioni quotidiane e i drammi più intimi, ma anche a sublimarli in un'idea di «vita superiore», più elevata, più intensa, più bella; una vita toccata dalla grazia dell'intelligenza, perché è l'intelligenza a regalarci il coraggio di essere felici.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788865765357

1. Il pendolo equivoco
Ammalarsi, rialzarsi nella vita

Dall’avventura si esce sperduti. Non ci si riconosce più: ma «riconoscere» non ha più senso. Si diventa rapidamente solo un ondeggiamento, una sospensione di estraneità fra stati non bene identificati, fra dolori, impotenze, cedimenti.
JEAN-LUC NANCY, L’intruso
Perché questa sera ho troppa paura per ascoltarmi imputridire, per aspettare le grandi cascate rosse del cuore, le torsioni dell’intestino cieco senza sbocco, per aspettare che si adempiano nella mia testa i lunghi assassini, l’assalto ai pilastri incrollabili, l’amore con i cadaveri. Mi racconterò dunque una storia…
SAMUEL BECKETT, «Il calmante»
Scoprire all’improvviso di essere malati, gravemente malati. Di una vera porcheria, finora poco curabile, ben nota dal punto di vista nosografico e decisamente sconosciuta dal punto di vista terapeutico, ma che non ha nulla di fulminante. In altre parole, né una semplice insidia dell’esistenza (un raffreddore o una gamba rotta), né un incidente che precipita immediatamente nell’imminenza della morte, né una pura chimera dell’immaginazione, un’ipocondria comica o una malattia immaginaria, ma qualcosa a metà fra le tre. È un’esperienza strana.
Strana intanto perché è molto difficile, e a volte perfettamente impossibile, attribuirla a una sola e stessa soggettività. Non è un’esperienza in proprio per nessuno, e non possono esserci né preminenza né indifferenza possibili nei confronti del vissuto. Lo si potrebbe quasi dimostrare concettualmente, tanto l’idea di un’esperienza della malattia fa entrare immediatamente in collisione i sensi principali del concetto di esperienza senza riuscire ad articolarli. In quanto conoscenza o fonte di conoscenza, l’esperienza della malattia dipende prima di tutto dai medici e, più fondamentalmente, dai biologi e, forse più fondamentalmente ancora, dagli storici della medicina e della biologia. Essendo però sperimentazione e azione, manipolazione e ripetizione degli stessi gesti che portano a uno stesso risultato, dipende più direttamente solo dai medici e dal personale curante in generale. E in quanto impressione sensibile o ricezione passiva dei dati dei sensi, dipende piuttosto dai pazienti, dai loro parenti e dal personale curante, mentre invece, in qualità di esperienza vissuta (Erlebnis), dipende molto più esclusivamente dai soli malati. E tuttavia, essendo dialettica, conservazione e superamento di una manifestazione prima, in quanto sperimentazione della vita su se stessa, dipende spesso dai sani, perché spesso i veri malati hanno altro da fare che sperimentare la propria malattia. La malattia è l’esperienza al tempo stesso di uno solo, di alcuni e di tutti, ed è abbondantemente impossibile confinare a lungo il suo senso a una sola e unica coscienza o a un solo e unico corpo. Si tratta di un’esperienza ibrida per eccellenza, attiva e passiva, volgarmente erudita e pregna di una dotta ignoranza, eminentemente personale, individuale, umana, ma altrettanto eminentemente impersonale, collettiva, animale, a volte persino vegetale e minerale: nella malattia ci si scopre e altresì ci si perde e si diventa altri: bestia che si sgozza, insetto, branco, verdura, pietra, fossile o fiume dell’inferno.
E, in realtà non c’è nemmeno bisogno di concetti per dimostrarlo. Appare subito ai due poli estremi delle malattie mortali: al momento dell’annuncio, che si svolge almeno tra due persone e più spesso tra diversi (tra medico, malato e parente), e al momento dell’agonia quando l’agonizzante di fatto non è più presente per attestare la propria esperienza. Lo stesso vale ai due estremi delle malattie infantili: chi le individua in primo luogo, chi le soffre fino in fondo e, infine, chi si riprende al meglio, i bambini o i genitori? Ed è altrettanto visibile anche nel quotidiano delle malattie lunghe, nelle quali non soltanto è molto raro restare gli stessi da un estremo all’altro, ma è ancora di gran lunga più difficile assegnare il «vissuto» della malattia a un solo e unico individuo: esistono certamente numerosi malati che ci tengono a «vivere» da soli la propria malattia, per proteggere i loro parenti o per altri motivi, ma ne esistono altrettanti che non vogliono «vivere» la propria malattia, che preferiscono lasciarla portare agli altri e pensare attraverso gli altri o con nessuno, nel bene e nel male. In breve, volendo pensare da una parte all’altra l’esperienza della malattia, si deve riconoscere che, a priori così come a posteriori, si tratta dell’esperienza di tutti e di nessuno. Non appartiene propriamente a nessuno, né ai malati, né ai medici, né ai parenti e nemmeno ai lontani conoscenti che a volte sembrano capire tutto con un solo sguardo e a volte ignorare tutto. È l’esperienza di un «si» pre-personale, che non è una qualità di nessuno perché può essere di chiunque, e che vieta quindi di pretendere di sapere in anticipo o a cose fatte chi avrebbe davvero potuto o voluto sperimentarla, subirla, pensarla, soffrirla, combatterla. E, in ogni caso, è da questa estraneità che bisogna partire: quando «si» vuole provare a pensare l’esperienza moderna della malattia, bisogna arrivare a fondersi in questo «si» e nell’infinità di prospettive condensate al suo interno; pensare come malato, come medico, come storico, come parente, come lontano conoscente, come moderno, come immemore, come essere qualunque.
Più concretamente, è poi un’esperienza strana perché, fin dall’inizio, questo «si» indistinto quasi immancabilmente non la coglie: dal giorno in cui la si scopre, si pensa a tutto fuorché alla propria malattia, poiché si pensa esclusivamente alla possibilità della morte – «riuscirò a uscirne?», «guarirai?», «per quanto tempo ne avrà?» – e alla possibilità di anticiparne l’ora, cioè al suicidio. C’è in questo senso una sorta di spontaneo spostamento verso il peggio. Infatti, se è vero che quando ci si appresta a morire, al momento dell’agonia o dell’esecuzione, generalmente si pensa a tutto fuorché alla morte, è anche vero che al momento dell’annuncio della malattia, che in genere si accetta come un verdetto, si pensa a tutto fuorché alla malattia, alla sua propria esperienza, al nuovo spazio-tempo che impone, alle nuove abitudini che la accompagnano, alle nuove forme di vita che si conosceranno; ma questa volta, giustamente, perché si pensa alla morte.1
Una tragedia ordinaria dell’esistenza che ci fa incessantemente pensare a sproposito. A volte serve tempo prima di smettere di pensarla così. Ecco perché, probabilmente, l’esperienza della malattia tocca solo i più o meno giovani: al di là di una certa età, la malattia, «è la vita…», vale a dire la morte. L’esperienza della malattia si riduce allora effettivamente a un’esperienza della morte, attesa fin dai tempi di un sapere immemorabile, che finisce per affermarsi senza scandalo, senza tragedia e senza domande. Ma spontaneamente vale lo stesso – per quanto si possa essere giovani, e anche se per fortuna non dura a lungo – al momento dell’annuncio di una malattia grave: ci si sente immediatamente e infinitamente vecchi, e la possibilità della morte esclude d’un tratto qualsiasi lucida apprensione della realtà della malattia. Questa arriverà più tardi, forse, ma all’inizio ci si fa beffe della propria malattia concreta, la si riduce a un segno e in un primo momento si ha solo bisogno di discorsi che la interpretino. Che si porti con sé un prete, un medico, un sopravvissuto (alla suddetta malattia), un conciaossa, un indovino, una madre, un giudice, si ha bisogno che questi annuncino il verdetto per concludere al più presto: questa malattia significherà la morte oppure no?
E c’è poi un altro motivo, oltre alla paura della morte, che ci spinge a distoglierci spontaneamente dalla verità della malattia: volendo prendere una certa distanza non appena si capisce che bisognerà pur conviverci, almeno per un po’ di tempo, nel meno bene e nel male, non si arriva mai a situarla bene da un punto di vista oggettivo. Presto diventa un grande mistero, perché cos’è in fondo una malattia? Per molti aspetti, un enigma grande almeno quanto la sua «esperienza». Un nuovo attributo estrinseco del mio essere – «sono malato» –, un nuovo modo di vita, un accidente? significa forse un incontro che mi affligge senza cambiarmi sostanzialmente? Una qualità del mio corpo a cui si aggiunge una qualità dell’anima? Una stimmate sociale e con due facce, fonte talvolta di esclusione e talvolta di sollecitudine pubblica a seconda delle epoche e delle società? Una proprietà mobiliare, la «mia» malattia che si può conservare, trasmettere, far fruttare («Ah! Quando potrò dirlo a X e a Y, che faccia faranno! Che gioia nera!»)? O un’entità nemica, nata dal di fuori, e che aggredisce senza alcun avvertimento, un microbo, un batterio, un virus, un parassita? O al contrario un dramma che si afferma dall’interno, un malfunzionamento del mio stesso corpo, una ribellione dei suoi organi che si rivoltano gli uni contro gli altri, una malattia autoimmune, un cancro, un rigetto del trapianto? O ancora, siccome esistono tumori scatenati da virus e i virus trionfano solo negli organismi che non riescono a opporre loro resistenza, entrambe le cose allo stesso tempo, una specie di duplice entità, stranamente dentro di sé e insieme fuori da sé, per colpa propria – ho bevuto troppo, mangiato troppo, fumato troppo, peccato troppo, rinunciato a troppo – e insieme colpa di nessuno – e allora sono il destino e il caso, i daimon kai tuke dei greci, volontà degli dèi e insieme sorte, che ricadono sull’innocente che non c’entra nulla, altro senso della colpa, amartia tragica –, qualcosa dunque che succede al di fuori il più lontano possibile e che allo stesso tempo si «contrae» nel più profondo di sé, che viene scoperta all’improvviso ma covava da tempo, che designa tanto la propria singolarità e solitudine futura quanto la propria nuova appartenenza a un’umanità nuova, quella degli appestati, degli stigmatizzati, dei malati di Aids o di cancro, o ancora quella dei pazienti del dottor X.
Effettivamente, «ammalarsi» è una strana esperienza. E ancora di più un’esperienza sempre singolare che sembra condannare fin da subito qualsiasi discorso generale circa «la» malattia. Forse esiste un’universalità della nascita e della morte, ma l’esperienza della malattia sembra sempre propria di un itinerario singolare, dalla comparsa dei primi sintomi, manifesti o nascosti, violenti o indolori, fino al suo termine, drammatico, invalidante, lieto o incerto. Ne consegue dunque l’assurdità apparente di qualsiasi «filosofia» della malattia: non esiste interesse spontaneo per la malattia (per la vita vera o la morte, sì, ma non per questa via di mezzo traballante); non esiste universalità della malattia (a ciascuno la sua) e non esiste nemmeno una consistenza ontologica comune della malattia, perché si tratta di una realtà puramente soggettiva e negativa per il malato in quanto tale (sofferenza e indebolimento) e puramente oggettiva e positiva per il personale curante in quanto tale (è al tempo stesso il loro oggetto di studio e la loro fonte di sostentamento).
Possiamo anche essere più precisi. Tutto ciò è vero dal punto di vista fenomenologico o esistenziale: più si allungano e si precisano le nosografie e i percorsi singoli al di là degli stessi quadri clinici, più la manifestazione della malattia tende a scomporsi in una molteplicità di tipi sempre più eterogenei. Non solo essere malati di Aids o di cancro non è la stessa cosa, ma non è per niente la stessa cosa in base all’aggressività del ceppo virale, alla sua resistenza o meno ai trattamenti e agli eventuali effetti secondari.
Ed è vero inoltre a un livello epistemologico o biomedico: la malattia non può mai ridursi del tutto alle sue determinazioni cliniche e deve intendersi piuttosto come il rapporto con un ambiente dato. Nelle nostre società globalmente intellettualizzate la miopia non è più una vera e propria malattia; con ogni probabilità lo era, e forse persino molto grave, per l’uomo delle foreste del Paleolitico in continuo agguato. In altre parole, anche in un’ottica scientifica, la malattia non può definirsi in modo puramente autoctono, bensì, seguendo in questo senso Canguilhem, come un insieme di norme più o meno adatte a un ambiente dato. Non esiste dunque una rigorosa oggettività della malattia, poiché questa non esiste mai in qualità di oggetto puro: è essenzialmente rapporto, che non esiste nella vita «in sé», ma soltanto nella vita «per sé». Criticando la concezione aristotelica del «mostro» e dell’anomalia, Canguilhem arriva a esplicitare tale posizione in alcune righe dal significato profondo:
Considerando il mondo vivente una gerarchizzazione delle forme possibili, non esiste in sé e a priori alcuna differenza tra una forma riuscita e una forma mancata. Non c’è nemmeno bisogno di parlare propriamente di forme mancate. Ammettendo che esistano mille e uno modi di vivere, a un vivente non può mancare nulla. […] Se è dunque vero che un’anomalia, una variazione individuale su un tema specifico, non diventa patologica se non nel suo rapporto con il proprio ambiente di vita e un genere di vita, il problema patologico nell’uomo non può restare strettamente biologico, poiché l’attività umana, il lavoro e la cultura hanno l’effetto immediato di alterare costantemente l’ambiente di vita degli uomini.2
Infine, la singolarità dell’esperienza della malattia vale a un livello più fondamentalmente politico, che non riguarda cioè soltanto il prendere in considerazione un tale ambiente, ma anche il senso stesso della sua organizzazione e continua trasformazione. Essere malati di Aids in Europa e in Africa non è la stessa cosa, così come se si è donna e uomo, se si è giovani e vecchi, se si è ricchi e poveri, se si milita in un’associazione e si lavora in un ambiente illuminato e se si è soli e si lavora in un ambiente reazionario.
In breve, contrarre una «stessa» malattia cambia radicalmente significato, prospettiva d’attesa e di prova quotidiana quando vengono modificati allo stesso tempo lo stato delle conoscenze tecnico-scientifiche, il mondo e l’organizzazione politica di tale mondo. Per esempio, prima del 1996, l’anno in cui in Francia è arrivata la triterapia, l’Aids, almeno nella coscienza comune, significava la morte più o meno a breve termine. Veniva vissuta nell’attesa del tutto incerta di una moltitudine di malattie opportuniste (non si sapeva di cosa si sarebbe morti) e la si percepiva a livello quotidiano insieme come un azzardo individuale e come una battaglia comune (c’era chi se ne andava in fretta e i long term survivors, e c’era anche lo scandalo di tutti coloro che si erano ritrovati contagiati per mancanza di sollecitudine pubblica e di campagne di prevenzione). A partire dal 1996, l’Aids, almeno in Occidente, che all’epoca rappresentava la maggior parte dei malati, è una malattia cronica più che mortale, la si vive in un tempo più lungo, probabilmente più sereno e più penoso, e la si percepisce a livello quotidiano come una necessità individuale (quella di essere abbastanza «rigorosi» o «osservanti» da assumere ogni giorno il proprio trattamento farmacologico) e una battaglia politica più liberale e individualizzante (in cui ognuno diventa sempre più responsabile del proprio contagio e di quello degli altri). In breve, che si tratti di puro rapporto da sé a sé nella propria dimensione esistenziale in un primo momento, o puro oggetto clinico sotto lo sguardo del medico, in realtà l’esperienza della malattia diventa ben presto molto più di tutto ciò. Non soltanto dipende dall’idiosincrasia di ognuno, dalla qualità di ogni medico, dalla situazione sociale di ogni malato, ma anche dai sistemi di sanità pubblica e dall’evoluzione delle tecniche terapeutiche. Si tratta di una triplice esperienza, al tempo stesso esistenziale, biomedica e politico-ambientale o, più precisamente, al tempo stesso direttamente legata all’intimità (ogni malattia è singolare e senza paragoni), doppiamente legata all’estimità (in un rapporto al tempo stesso a due con il proprio medico, il proprio amato o il proprio sciamano, e a più persone con l’insieme del personale curante e dei parenti) e radicalmente legata alla politica (perché dipende dallo stato della società, dalle rappresentazioni comuni che la stabilizzano e dai rapporti di forza che la fanno progredire o meno).
Tutte queste riserve non reggono a lungo, però, poiché esiste anche una massiccia universalità della malattia. A volte la si avverte in modo confuso quando si è conosciuta in prima persona una malattia grave, da sé o attraverso i propri cari: all’improvviso, nel vedere altri malati o nel sentire il racconto di altri malati, seppur di tutt’altra malattia, si avverte una radicale comunità di destino, perché anche loro, uomini o donne che siano, hanno conosciuto la stessa cosa. Ma è anche possibile descriverne la struttura quasi oggettiva: i primi segni, quasi impercettibili all’inizio e poi via via più sensibili, l’attesa, l’annuncio, il panico, l’ignoranza che si acquatta al centro stesso del sapere (si sa quel che si ha, ma non si sa quel che «tutto ciò» ci farà e, in ogni caso, non si sa quando né dove né in definitiva come), la terapia (il cui principio è vecchio quanto la cultura umana), i trattamenti che non sono affatto una cura, la sofferenza, i sollievi provvisori, ancora l’attesa passando giorni senza alcuna prospettiva, a volte la disperazione e, poco a poco, la scoperta del sentimento eminentemente friabile della vita. E allo stesso tempo è possibile ricordarne la verità essenziale: essere o essere stati malati significa perdere davvero il fantasma infantile dell’eterna giovinezza oltre che il fantasma del piccolo azionista di un «capitale salute» che si potrebbe far fruttare all’infinito, e imparare davvero che in realtà vivere significa vivere senza garanzie, in sistemazioni sempre provvisorie e con risultati sempre incerti.
In questo senso, la malattia è l’esperienza ancestrale della vita, cioè l’esperienza più comune, più pre-individuale e più pre-personale, quella che ci lega ancora ai primi uomini, facendoli esclamare tutti all’unisono: «Che ingiustizia è la vita!». In altre parole, l’esperienza della malattia non ci insegna soltanto l’antica prova che ricorda quanto la vita non sia altro che generazione, crescita, funzionamento armonioso, ma altresì corruzione, indebolimento, una serie di malfunzionamenti; ci insegna molto più essenzialmente quanto la vita sia prima di tutto esperienza, e quanto l’esperienza sia sempre in un certo senso malattia. Ammalarsi significa imparare la verità della vita, non soltanto al suo termine ma sin dal suo inizio: vivere significa ammalarsi di continuo.
Anc...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Prefazione
  4. Introduzione Vivere al di fuori Idee per la costituzione di un’etica atea
  5. 1. Il pendolo equivoco Ammalarsi, rialzarsi nella vita
  6. 2. Esperienza e miseria della morte
  7. 3. Vivere con la mancanza, vivere con la presenza: dopo la morte
  8. 4. Che tegola! Sull’evento amoroso
  9. 5. Beato chi come Davide (Crearsi la propria piccola felicità ebraica)
  10. 6. Piccoli e grandi sconvolgimenti
  11. La fine del peggio?
  12. Ringraziamenti
  13. Note