Morire
eBook - ePub

Morire

Una vita

  1. 160 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub
Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

«Quando stai morendo, può capitarti di provare una sorta di tenerezza perfino per i tuoi ricordi più infelici, come se la gioia non fosse confinata solo ai momenti più belli ma fosse intrecciata ai tuoi giorni come un filo d'oro.»Nel 2005, poco prima del suo cinquantesimo compleanno, i medici le tolgono un neo dalla gamba destra. Melanoma, quarto stadio. Poi le metastasi, l'intervento al cervello, la diagnosi fatale. Cory Taylor ha sessant'anni e ormai pesa meno di un cane: sta morendo di cancro. Ma mentre il suo corpo svanisce Cory riesce nel più arduo dei compiti: descrivere l'esperienza del morire, l'esperienza di sapere che presto la propria vita avrà fine. Composto in poche settimane, Morire è il libretto aureo che contiene tutto ciò che la morte può insegnare alla vita. È una riflessione sull'esistenza, il ricordo di un vissuto, una meditazione sul nulla ma anche, anzi soprattutto, un grandioso tributo alla vita.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Morire di Cory Taylor, Andrea Libero Carbone in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Social Sciences e Social Science Biographies. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788865767115

PARTE SECONDA

Polvere e cenere
Sono la minore di tre fratelli. Mia sorella Sarah ha sei anni più di me e mio fratello Eliot quattro. Ho l’impressione di essere stata una sorpresa, se non un errore. A quanto dice mia madre, quando annunciò di essere incinta per la terza volta mia nonna scosse la testa incredula. «Stupida ragazza» era stato il suo commento, giustamente preoccupata per la situazione del matrimonio dei miei. Chissà perché questa storia ha sempre fatto ridere mia madre. Non sono mai riuscita a capire che cosa ci fosse di divertente, forse perché non c’ero.
Di tanto in tanto, quando Sarah, Eliot e io eravamo bambini, nostra madre ci portava nel posto in cui era nata. Ci andavamo durante le vacanze scolastiche invernali, prima da Sydney, poi da Canberra. Per attraversare il Nuovo Galles del Sud ci volevano due o tre giorni in auto, e passato il confine del Queensland più ci spingevamo oltre più le città diventavano polverose, l’orizzonte si appiattiva, il cielo sopra di noi si allargava tanto che gli occhi facevano male a fissarlo.
Il programma delle nostre visite era sempre lo stesso. Eravamo ospiti della sorella minore di mia madre, Jenny, e del marito, Ranald. Avevano un allevamento di mucche e pecore a North Delta vicino a Barcaldine che era appartenuto a mio nonno, Norman Murray. Era una terra ocra ricoperta di arbusti, e per andarci bisognava percorrere uno sterrato pieno di buche su cui mia madre guidava con cautela per non sollevare nubi di polvere. Sentivo scattare in lei la paura fin dal primo istante in cui lasciavamo la strada asfaltata. Teneva stretto il volante e fissava lo sguardo qualche metro più avanti, aspettandosi che un disastro si abbattesse su di noi. Il bush non era il suo elemento naturale. Poteva anche esserci nata, ma dopo anni di esilio ormai aveva introiettato la cautela tipica delle periferie urbane.
Alla fine di un viaggio tanto lungo avvistare la fattoria, immersa in una radura a malapena recintata, era sempre una gioia. Entravamo in auto dal retro, superando il capanno delle macchine agricole, i pollai, il porcile e i cani alla catena. Le verande erano ampie e basse, quindi da lontano la casa sembrava un grande tetto rosso. Entrando dalla porta della cucina se ne capiva immediatamente la ragione. In quel modo il sole non filtrava e l’interno si manteneva scuro e ombroso come una grotta.
La pianta della casa di North Delta non seguiva una vera logica. Oltre la cucina c’era una sala da pranzo, che in realtà era solo un’area chiusa della veranda, e ancora oltre un labirinto di stanze che erano state aggiunte o suddivise nel tempo per far posto a Jenny e Ranald e ai loro quattro figli. Jenny ci guidava stanza per stanza assegnando i letti e poi ci portava il tè nella veranda sul davanti, la più ampia, che dava su un prato con una piscina.
Era lì che si chiacchierava e si raccontavano le storie. Ed è stato lì che ho imparato da dove venisse mia madre e perché avesse quel fardello di tristezza. Non che lo desse molto a vedere, perché in genere le piaceva ridere e godersi la vita, ma sotto quella vivacità covava qualcos’altro, una sorta di dolore indelebile che il buonumore non sarebbe mai bastato a scacciare. E, come capii ben presto, l’origine di quel dolore risaliva alla sua infanzia nel Queensland, dove si sentiva obbligata a tornare periodicamente prendendo a pretesto il fatto che portava noi in visita.
Cosa notevole, in questi viaggi nostro padre ci accompagnava di rado. I primi tempi spesso era via, in volo, ma continuò a non venire anche in seguito perché mia madre preferiva andare senza di lui. In veranda si facevano un sacco di chiacchiere sull’avventato matrimonio di mamma con il bel pilota incontrato in un bar e sul fatto che negli anni quel matrimonio si era rivelato un vero e proprio disastro. Per quei racconti ero tutta orecchi. Mio padre mi aveva detto così poco di sé, ed era raro incontrare chi lo aveva conosciuto fin dai primi tempi come Jenny e Ranald, quindi registravo tutto, col mio istinto di scrittrice in erba, mettendo insieme i pezzi per cercare di capire, indovinare o anche inventare il senso di tutta quella storia. Mio fratello e mia sorella se ne andavano in giro a cavallo con i miei cugini, ma io non ero molto attratta dalle cavalcate e preferivo stare in groppa a una sedia a sdraio ingozzandomi di dolcetti e buttandomi a capofitto nelle leggende di famiglia.
Jenny e Ranald mi piacevano. Erano gentili e divertenti. Ogni mattina all’alba accendevano la gigantesca stufa aga in cucina. Ranald si occupava della colazione friggendo quantità enormi di frattaglie di agnello, pancetta, cipolle e uova, prima per i lavoranti, che dovevano uscire presto, e poi per noi perdigiorno, che arrivavamo a tavola alle otto ancora mezzo addormentati.
«Accidenti, chi ha mai visto tanti fannulloni tutti in una volta?» diceva. «Devo mettervi a tagliare paletti per le recinzioni per un paio di giorni. Così imparate cosa vuol dire stare al mondo.»
Qualche volta in effetti andavamo con lui in furgone a controllare una chiusa o a riparare una pompa da qualche parte. Jenny ci caricava di scorte per lo smoko, la merenda: fette di torta alla frutta, scatole piene di biscotti, tè e fornelletto da campo. Lungo la strada Ranald parlava del tempo o del prezzo della carne e dei suoi timori sulla situazione del paese. Era un conservatore accanito, preoccupato per i comunisti, i sindacati, i cattolici, ed era convinto che i cinesi avessero intenzione di piombare giù dal Nord quando meno ce l’aspettavamo. Ma non si sottraeva mai al dibattito, e quando mia madre metteva in discussione il suo punto di vista era felice di confrontarsi con lei, come se dovessero giocare una partita. Era anche un amante della poesia, e quando spaccava la legna o riparava una recinzione declamava Burns e Tennyson con una voce dolce che riecheggiava nel vuoto intorno a lui. Ad ascoltarlo mia madre si commuoveva, e non ho dubbi che lui lo facesse di proposito.
«Non dovevi andartene» le diceva. «Dovevi sposare un tipo ben piantato di queste parti e fare semplicemente la donna di campagna.»
«E andare fuori di testa, come Ril» rispondeva mia madre.
Ril era mia nonna. In veranda, Jenny e mamma parlavano di lei non meno che di mio padre, spesso facendo paragoni tra i due, come se fossero elementi dello stesso problema, con l’idea che mia madre avesse sposato un uomo che le ricordava sua madre, e ne avesse pagato il prezzo. L’immagine che mi facevo di mia nonna, ascoltando quei discorsi, era di una donna bellissima, altera, irascibile, incompetente come madre, infelice come moglie, afflitta da un’irrequietezza implacabile, che almeno un paio di volte l’aveva fatta crollare sotto tutta quella pressione. Avevo scoperto in particolare che aveva avuto una crisi durante la guerra e aveva passato alcuni mesi in una clinica di Brisbane cercando di riprendersi. Le ragioni erano piuttosto evidenti: un figlio in marina da qualche parte nel Pacifico, mia madre puerpera a Townsville in un ospedale militare, Judy, l’altra sorella di mia madre, già sposata a diciassette anni, Jenny lontana da casa in collegio, neppure un uomo che desse una mano alla fattoria, il marito al lavoro da solo dall’alba al tramonto, con tutti i rischi connessi. Una sera, tornando a casa, lui l’aveva sorpresa mentre faceva i bagagli infilando nelle valigie tutte le sue cose alla rinfusa, dopo aver messo sottosopra ogni stanza della casa.
L’esaurimento nervoso di mio padre era stato meno drammatico. Ero abbastanza grande da ricordare che era rimasto a letto e si era rifiutato di alzarsi per giorni e giorni. Magari ogni tanto gli portavo un panino, lasciandolo sul comodino per il momento in cui si fosse svegliato. Mi sembra di ricordarlo sempre addormentato, i capelli non lavati, le guance coperte di una corta barba scura, le lenzuola sporche. A memoria di Jenny, che in quel periodo stava da noi a Sydney, comunicava con mia madre con dei biglietti legati a un pezzo di corda che calava dalla finestra della sua camera alla cucina sottostante.
«Legava un foglietto a un capo della corda» mi disse mia madre «per chiedere una tazza di tè e un biscotto.»
Mia madre aveva riso amaramente.
«Gli presi un appuntamento con uno psichiatra,» disse «ma non volle andarci.»
Ero affascinata da questi parenti problematici, mia nonna con la sua irrequietezza e mio padre con la sua incapacità di rimanere stabilmente in un posto, fino a sfibrarsi tanto da non riuscire più a muoversi. Non potevo fare a meno di chiedermi quanto di loro ci fosse in me e se le crisi sotto pressione fossero un tratto di famiglia. Mi interrogavo anche sulle origini della loro fragilità, chiedendomi se fosse dovuta a un’ipersensibilità innata o se piuttosto fosse effetto di una comprensibile rabbia per le condizioni in cui erano costretti a vivere. Una delle teorie di mia madre era che in entrambi i casi si trattava di persone con enormi potenzialità inespresse, che non avevano avuto la fortuna di avere un’educazione adeguata ed erano consapevoli che per loro il tempo perduto era ormai irrecuperabile.
«È interessante che nessuno dei due ha finito la scuola» diceva, spiegando che mia nonna era stata espulsa dal collegio di Toowoomba all’ultimo anno e che mio padre era stato cacciato da casa e da scuola all’età di quindici anni.
«È stata la guerra a salvarlo. Ha fatto carte false per arruolarsi nell’aeronautica militare e non si è mai voltato indietro.»
Quanto a mia nonna, si era sposata a diciotto anni, e nell’arco di dieci anni aveva avuto quattro figli. «Là fuori,» disse mamma indicando il paesaggio vuoto oltre il recinto «senza nessuno con cui parlare. Non c’è da stupirsi che sia impazzita.»
A un certo punto della nostra permanenza lì arrivava la telefonata di Peter, il fratello di mia madre, e di sua moglie Jan, che ci invitavano a passare la giornata a Beaconsfield. In qualche modo era il momento culminante del nostro viaggio, perché Beaconsfield era la casa di famiglia, il luogo in cui erano cresciuti mia madre e suo fratello e le sorelle. Eppure non siamo mai stati a dormire lì. Ci siamo sempre andati solo a pranzo.
«Scommettiamo che ci farà mangiare in cucina» disse mamma mentre partivamo per una di queste escursioni «coi piatti di carta?»
Avevo capito che tra mia madre e sua cognata non correva buon sangue. Secondo un intreccio degno di Jane Austen, Peter, in quanto unico figlio maschio, aveva ereditato Beaconsfield di diritto, sottraendo così alle sorelle ogni rivendicazione di appartenenza che non fosse puramente sentimentale. In questo, secondo mamma, era stato entusiasticamente aiutato e incoraggiato da Jan che, come se non bastasse, aveva alzato la posta lasciando intendere che mia nonna non era più la benvenuta in casa sua.
«Questo è il motivo per cui Ril ha fatto il giro del mondo in crociera» diceva mia madre. «Non aveva nessun altro posto dove andare. E poi è venuta a stare con noi a Ceduna.»
Di Ceduna, sulla costa meridionale dell’Australia, avevo solo ricordi molto vaghi. Ci eravamo trasferiti lì per un breve periodo quando avevo quattro anni, ai tempi in cui papà era stato assunto dal Royal Flying Doctor Service. Ma ricordo ancora il servizio da tè in miniatura che la nonna mi aveva portato da Hong Kong, e il vestito a sbuffo col corpetto che nella calura del deserto graffiava la pelle. E avevo visto una fotografia in cui era ritratta mentre scendeva la scaletta di un dc3 come una regina, i capelli avvolti in un foulard, gli occhi nascosti dietro enormi occhiali da sole, la sua tristezza ad avvolgerla come una nuvola personale.
«Povera mamma» aveva detto mia madre. «Passava le sue giornate seduta sulla sabbia a fissare il mare. Non credo di aver mai visto nessuno tanto smarrito.»
L’esilio, avevo concluso. Doveva essere questa la spiegazione del dolore di mia madre. Prima il suo esilio da casa, che risaliva all’infanzia, quando all’età di otto anni era stata mandata a scuola nella lontana Brisbane, e in seguito il fatto di aver assistito alla messa al bando di sua madre dal luogo in cui aveva vissuto tutta la sua vita adulta. E se cercassi di risalire ancora più indietro nel tempo, quali altre donne troverei, allontanate, bandite, abbandonate? La madre di Ril, per esempio, che conoscevo solo dai racconti su di lei, rintanata in una catapecchia di Longreach in trepidante attesa di Frank, il fratello scapolo di Ril che, immagino, cercava di tenersi stretto. Nonna Cory, che mia madre aveva conosciuto da bambina, era l’unica abbastanza vecchia da potersi ricordare gli attacchi all’arma bianca subiti dai coloni e le rappresaglie che ne conseguivano. Forse era proprio quello il dolore ancestrale di chiunque fosse originario di quelle parti, di quelle città: il dolore per chi aveva subito lo sterminio, l’avvelenamento, la malattia e l’esproprio. Forse nessuno sforzo di dimenticare poteva cancellare del tutto il ricordo della conquista originaria, del crimine atavico, per sempre impunito perché non era rimasto nessuno che potesse testimoniarlo o raccontarne la storia.
Così pensavo mentre andavamo a Beaconsfield per uno di quei pranzi. Ai tempi dovevo essere alle superiori e stavo maturando una certa consapevolezza della storia rimossa del mio paese. Mi colpiva che nei racconti d’infanzia di mia madre comparissero solo due aborigeni. Una era una giovane domestica senza nome mandata...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. PARTE PRIMA
  4. PARTE SECONDA
  5. PARTE TERZA
  6. Ringraziamenti