parte prima
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La scuola ha come allora la facciata color giallo sporco. Il giardino non è mutato di molto, qualche pianta interrata in grossi vasi, qualche pino silvestre che ha faticato a crescere. Dalla porta a vetri sbarrata si intravede il ritratto di Cesare Battisti che dà il nome alla scuola. Una volta in ogni aula troneggiavano il re imperatore Vittorio Emanuele iii e Benito Mussolini, Duce del fascismo, primo maresciallo dell’Impero, entrambi con l’elmetto in testa. Sono rimasti il crocifisso e la carta geografica dell’Italia che nel Novecento ha perso qualche pezzetto patrio. Tavolinetti colorati hanno preso il posto dei banchi di legno di una volta, con la ribaltina e il calamaio di vetro. La lavagna è appiccicata al muro, non più a lato della cattedra, ballonzolante sui cavalletti, con i gessi sfrigolanti, e anche luogo del castigo per i cattivi scolari coi grembiulini neri.
È difficile, forse inutile, si sa, cercare di evocare il passato, gli sforzi della memoria, dell’intelligenza e anche dell’immaginazione risultano vani. Talvolta una fuggevole sensazione, un antico gesto, lo scorcio di un paesaggio, un suono riescono misteriosamente a farlo ritrovare. Può sembrare grottesco ripensare a quel pomeriggio di maggio quando il maestro, tutto vestito di nero, la sahariana d’orbace, gli stivaloni, un fez sul capo con le frange che gli accarezzavano la guancia, un pugnaletto alla cintura, uscì dalla porta e urlò agli scolari delle prime classi, i Figli della Lupa, di mettersi in fila per tre.
Ero anch’io un Figlio della Lupa. Nelle feste comandate indossavo la camicia nera, i pantaloncini di panno grigioverde, un cinturone alla vita di piqué bianco a piegoline minute, due bande dello stesso tessuto che si incrociavano a X sul petto, una M di metallo nel mezzo, il sigillo di Mussolini, al quale all’inizio dell’anno scolastico avevo prestato il giuramento d’obbligo: «Giuro di eseguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e se necessario col mio sangue la causa della Rivoluzione fascista».
Povero bambino, nessuno aveva riso o almeno sorriso?
Quel giorno di maggio del 1939, di primo pomeriggio, marciavo al fianco di due compagni – Cocconi? Pedretti? – da via xx Settembre alla vicina via Milano e di lì per un centinaio di metri, verso la piazza della Vittoria. Dovevamo allinearci proprio sull’angolo, lungo il marciapiedi.
Chissà cosa è rimasto da allora di quella strada familiare. La cappelleria Rossini all’incrocio della via? Il barbiere dove venivo condotto scalciante a farmi tagliare i capelli?
La Casa dei filati rammenta gli odori della vecchia bottega, come il corniciaio Zamatto e un fruttivendolo piccino, senza nome, con una vetrinella dove sono esposti mandarini, noci, datteri. Il Caffè Storico, orgoglioso dei suoi antichi natali incisi sull’insegna, 1890, fu certamente testimone di quegli anni perduti, come la Casa del bottone, la latteria, lo scarparo Tettamanzi, gli accessori per la tessitura, non certamente il negozio di cartucce per stampanti e neppure Zio Ghelfi, pigiami e reggipetti, e Tessabit, l’emporio di lusso, una quindicina di vetrine, tessuti e abbigliamento, che deve essere nato da poco. Il tempo mangia i suoi figli, una merce anch’essi.
Il maestro nero consegna a ognuno di noi una bandierina tricolore e una bandierina germanica con un ragno nel mezzo, la croce uncinata. L’ordine è di sventolarle, una per mano, a un suo cenno, e ci alleniamo a farlo festevoli, per passare il tempo, con le braccine che dolgono. Guardando dalla parte della piazza s’intravede Porta Torre con le sue mura rossastre, dove, chissà quando, deve avverarsi il grande evento.
È una settimana di passione.
Corriere della Sera, 4 maggio 1939 – Anno xvii: «Ciano e Ribbentrop si incontrano sabato a Milano».
Corriere della Sera, 5 maggio 1939 – Anno xvii: «Milano accoglierà domani due eminenti statisti con schietto e caldissimo entusiasmo».
Corriere della Sera, 6 maggio 1939 – Anno xvii: «Milano mussoliniana squadrista combattente lavoratrice acclama oggi i ministri degli Esteri dell’Asse».
La Provincia di Como, 7 maggio 1939 – Anno xvii: «Intensa attesa per il colloquio Ciano-Ribbentrop». E anche: «Como si prepara a tributare domani nel pomeriggio a S.E. Ciano e a von Ribbentrop calorose dimostrazioni di entusiastica simpatia».
La Provincia di Como, 8 maggio 1939 – Anno xvii: «Como saluta oggi con ardente entusiasmo S.E. Ciano e von Ribbentrop collaboratori fedeli del Duce e di Adolfo Hitler. Tutti i vessilli al vento: tutta la popolazione lungo l’itinerario».
Quel pomeriggio ero proprio qui, davanti al fioraio rimasto intatto sotto un portichetto nella casa bassa a un piano. Forse si chiamava Mazzaneschi, come adesso, i fiori di là dalla strada, rose, violacciocche, giacinti, ciclamini, gerani, azalee creano la stessa satura dai colori accesi di allora. La natura non muore se gli uomini non la uccidono.
Sull’angolo di via Milano con la piazza, al posto dell’albergo sorto negli anni a venire, c’era un cartolaio. Appena si apriva la porta tintinnava una campanella, come all’Angelus, e ti investiva un sapore di legno dal profumo di cioccolato. Compravo là dentro il Sussidiario, le gomme, le matite, i pennini e i quaderni che con le loro copertine segnavano anch’essi il tempo, aviatori rombanti nei cieli, faccette nere con il fez del fascio sul capo, il Duce a cavallo, orribili negri schiacciati dall’eroica Milizia, gli infami proiettili Dum Dum dei nemici.
Il cielo era grigio, piovigginava. Chissà cosa pensavamo, le bandierine in mano sventolanti sempre più fiaccamente, birillini che nulla sapevano di quel che doveva accadere. Chissà perché avevamo l’ordine di star lì tutto quel tempo come le statuine dei giardini pubblici.
Qualche parola sussurrata in casa, qualche misterioso nome straniero captato chissà come, qualche titolo di giornale sbirciato non erano bastati a far capire. Neppure un accenno dal maestro nero, soltanto l’ordine di marciare, di gridar festosi, di sventolare le bandierine. Lui andava e veniva lungo il marciapiedi con il piglio di un generale che in piazza d’armi passa in rassegna le truppe.
Eravamo stanchi dopo tante ore di attesa, gli orecchi tesi ai rumori che venivano di là dalla strada. L’unico svago era occhieggiare dalla parte della gran torre bucata come un formaggio e delle mura che chissà quanti assedi avevano dovuto subire a difesa del borgo.
Poi finalmente l’evento. Preceduta da coppie di motociclisti avanzava quasi a passo d’uomo un’automobile nera scoperta con dentro i grandi gerarchi di cui ora avevamo imparato i nomi.
Stavano ritti in piedi sulla limousine, le aquile d’oro sul berretto, i nastrini colorati, le medaglie, le croci, le piastre, le stelle e i cordoni sulle giubbe. Sorridevano, agitavano le braccia con gesti regali. Non potevamo sapere, noi piccoli soldati del Duce, che quei due si disistimavano fino a odiarsi. Durò poco il gran garbuglio, tra le grida della folla plaudente che vociava felice i nomi del Duce e del Führer. I vessilli, intanto, si erano ammosciati, anche le nostre bandierine si erano inzuppate d’acqua. Un cattivo auspicio quella pioggia nel ridente mese di maggio. Dopo tanto attendere tutto era finito in un lampo, eravamo come allocchiti, scontenti e delusi. Ci era passata accanto la Storia, un amen. Non sospettavamo che non insegna nulla agli uomini: «Non è magistra / di niente che ci riguardi. / Accorgersene non serve / a farla più vera e più giusta», come dice il poeta.1
La Provincia di Como, 9 maggio 1939 – Anno xvii: «Una travolgente dimostrazione d’entusiasmo saluta S.E. Ciano e von Ribbentrop. Tutto un popolo plaudente acclama al Duce».
Fu un giorno «trionfale» come scrisse il giornale della città. Nulla fu risparmiato al Gatto e alla Volpe dell’Asse Roma-Berlino. Una Camicia nera e una Piccola italiana offrirono fasci di fiori agli ospiti illustri; un battaglione in armi del 67º Reggimento fanteria e un picchetto, della xvi Legione della Milizia volontaria della sicurezza nazionale presentarono le armi; la banda cittadina suonò la Marcia Reale, Giovinezza, Deutschland über Alles e anche l’inno nazista di Horst Wessel; a Villa d’Este bambinetti donarono cespi di fiori; von Ribbentrop e signora visitarono incantati Villa Carlotta «nello spettacolo impareggiabile delle azalee».
I «tamburini dei Balilla sgranarono il loro saluto fragoroso dinanzi al sagrato della Casa del Fascio: Balilla, lungo lo schieramento in piazza Verdi, unirono la freschezza della loro voce argentina al rombo degli applausi, alle invocazioni al Duce, a Ciano, a von Ribbentrop, agli “evviva” e agli “heil” che si ripetevano nella vasta piazza».
Non mancarono a far festa la banda in costume di Schignano; i fisarmonicisti di Seprio; la corale Sonvico di Cadorago; i «fregamusoni» di E...