Morte al dittatore
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Morte al dittatore

  1. 128 pagine
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Morte al dittatore

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Informazioni sul libro

Attraverso gli occhi di un giovane che si aggrega quasi per caso alla protesta del 2009 in Iran, riviviamo i momenti più duri di quei mesi: dalle marce di massa alla feroce repressione da parte delle milizie di Ahmadinejad, fino agli arresti e alle torture in carcere.

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Informazioni

Tre
15 giugno: il giorno più bello della sua vita. Il giorno più bello della settimana più bella della sua vita. Per la prima volta, non sarà costretto a ricevere ordini e ad ascoltare degli idioti, non verrà trattato con superiorità e umiliato. Non avrà Ahmadinejad o Khamenei che parlano al posto suo. Non sentirà più che il popolo iraniano vuole questo o quello, o che si lamenta per questa o quell’altra cosa. Per la prima volta, Mohsen potrà parlare senza sentire il peso di una mano sulla spalla o di qualcosa che gli pungola la schiena.
Il governo ha paura. L’intero regime ha paura. Gli elicotteri che girano nel cielo, la televisione di stato, i basiji nascosti nelle loro caserme: tutti hanno paura. Tra qualche anno, quando l’apparato crollerà e gli archivi e le intercettazioni telefoniche verranno resi pubblici, i presidi scriveranno le loro memorie e gli autisti vuoteranno il sacco, verremo a conoscenza di tutto ciò che è successo nell’ombra, allo stesso modo in cui ora sappiamo come lo Scià e i suoi ministri e generali tergiversavano e procrastinavano, prima durante i disordini del 1963 e poi alla fine degli anni settanta, quando i fautori della repressione spietata aggredivano i pacificatori ed entrambi venivano rappresentati dal monarca. Verremo a sapere degli incontri cruciali tra Khamenei, Ahmadinejad e gli uomini del loro entourage, dei rapporti tra il leader della Guardia Rivoluzionaria, il ministro dell’Intelligence e il capo della polizia. Conosceremo altri uomini, uomini di cui non sappiamo ancora il nome, che controllano segretamente le vite delle persone. Ci saranno volgarità e orrore: una via di mezzo tra Mein Kampf e Comma 22.
Per il momento, guardiamo quel che c’è.
Ieri sera si è tenuta un’altra riunione. Tutti volevano parlare dell’aggressione avvenuta in mattinata ai danni di alcuni studenti dissidenti in un pensionato dell’Università di Teheran. Almeno due studenti hanno perso la vita e molti altri sono stati picchiati o arrestati. Il pensionato è stato messo completamente sottosopra.
A fatica, Pegah ha spostato la conversazione sulla marcia di protesta. Al quartiere è stato assegnato un tratto di viale Azadi, a metà tra piazza Azadi e piazza Enghelab. Chi vuole far parte del servizio d’ordine? Dovranno legarsi un fazzoletto sulla bocca per non essere riconosciuti. L’idea è quella di riunire i manifestanti in vari gruppi quando giungeranno in viale Azadi. «I basiji sono come delle iene» ha detto Pegah. «Si avventano su quelli che rimangono indietro. Se saremo abbastanza numerosi, i gruppi si uniranno e i basiji non riusciranno ad attaccare.» Non ha aggiunto: «A meno che non aprano il fuoco».
«È vietato lanciare slogan contro Khamenei» ha continuato. «Non ce l’abbiamo con Khamenei, ma con Ahmadinejad e il modo in cui è stato eletto. Chiediamo di annullare le elezioni e di indirne di nuove. Se gridiamo slogan radicali, facciamo il gioco di quelli che ci tacciano di essere estremisti pronti a rovesciare il regime, e perdiamo i moderati. La nostra forza» ha aggiunto «sta nella natura pacifica del movimento. State pur certi che faranno di tutto per spingerci alla violenza. Non dobbiamo permettere che succeda.»
Tutti si sono girati verso Mamad, che ha alzato le mani e sta sorridendo. «Okay, okay, sono pienamente d’accordo.»
Girano varie voci. La Guardia Rivoluzionaria si è divisa. Un alto comandante è stato arrestato dopo essersi rifiutato di schierare i propri uomini contro i manifestanti. Le case di altri comandanti sospetti sono state messe a soqquadro. Le autorità stanno distribuendo magliette attillate da soosool ai basiji in modo che possano infiltrarsi nel corteo. Ci saranno spie dappertutto, che faranno riprese con i telefonini. «Questa gente dev’essere lasciata in pace» ha detto Pegah. «Non stiamo facendo niente di male. La costituzione ci permette di manifestare pacificamente. È un nostro diritto fondamentale.»
La mattina della manifestazione, la signora Abbaspour guarda Mohsen seduto al tavolo della colazione e sgrana gli occhi in maniera teatrale. Suo marito non se ne accorge; come ogni mattina, sta guardando fuori dalla finestra, verso il cipresso del vicino. La donna forma la parola «clinica» con le labbra, enfaticamente. Poi, vedendo lo sguardo perplesso di suo figlio, aggiunge «esami del sangue».
Mohsen si versa del tè e dice a voce alta: «Mamma? Oggi non volevi andare in clinica a fare gli esami del sangue?».
La signora Abbaspour annuisce e risponde: «Pensavo di sì, ma ho bisogno che mi accompagni qualcuno. Sai quanto mi sento debole dopo i prelievi».
«Ti accompagno io, mamma. Verso le due, okay? Porta dell’acqua, in caso ci sia la coda» dice Mohsen.
Suo padre grugnisce davanti al suo pane e formaggio. «Io mi porterei la cena se fossi in voi, visti i tempi di quella clinica.»
Dopo pranzo, mentre si dirigono in taxi verso viale Azadi, passano a prendere Amin, Solmaz e sua madre. Le due donne sono contente di vedersi. Chiedono prudentemente dei rispettivi mariti ed è chiaro dalle loro risposte che nessuno dei due sospetta che la moglie stia andando a una dimostrazione illegale che le autorità hanno promesso di reprimere. «Avere un marito che se ne frega ha i suoi vantaggi» dice la madre di Solmaz, e tutti si mettono a ridere.
L’auto si sta avvicinando a viale Azadi. Sono quasi le tre. Mohsen fa scendere sua madre e quella di Solmaz davanti a un negozio di stoffe. Vogliono guardare certi rivestimenti per le sedie, poi li raggiungeranno e marceranno per la giustizia. «Chiamatemi quando siete in viale Azadi, così ci incontriamo» grida Mohsen mentre le donne si allontanano. Poi prosegue verso viale Azadi insieme a Solmaz e Amin. Arrivati nella traversa che gli è stata assegnata, vedono che Pegah, Mamad e gli altri sono già là. Il servizio d’ordine pattuglia l’imbocco delle altre vie laterali, da piazza Azadi fino a piazza Enghelab. Non c’è traccia della polizia né dei basiji.
Viale Azadi è ampio e deserto. Mohsen teme che i manifestanti saranno meno del previsto, che la stampa e la televisione dei conservatori mostreranno una manifestazione striminzita e che il movimento sembrerà debole. Alza gli occhi verso le nuvole, insolite per quel periodo dell’anno. Amin chiede a Mohsen di stringergli il nodo dietro al fazzoletto che gli copre la bocca. Poi l’attenzione di Mohsen è attirata da alcune persone in movimento nella traversa accanto. Stanno entrando in viale Azadi da questo e da altri ingressi. I manifestanti stanno arrivando.
«Mohsen!» grida Pegah. «Non farli entrare in viale Azadi oltre il punto dove ti trovi tu.» Mohsen e gli altri cercano di fermare i manifestanti. «State vicini!» grida, ma il numero di persone sta aumentando e i diversi gruppi che si sono formati agli inizi delle vie laterali si stanno avvicinando.
Da destra e sinistra, da nord e sud, migliaia di persone si stanno riversando nel viale – vecchi e giovani, studenti e perditempo, casalinghe, tossici, impiegati, soosool, innamorati. Vestono tutti di verde: maschere sul volto, nastri attorno al polso, magliette. Alcuni si sono dipinti la faccia di verde. Altri alzano bandiere verdi o pannelli di cartone con scritte verdi. Ormai l’ampio viale Azadi è pieno per due terzi della sua larghezza e non c’è più distinzione tra i vari gruppi.
Mohsen prova a telefonare a sua madre. La linea è muta. «Solmaz!» grida, ma Solmaz è stata sospinta via dalla folla e non può sentirlo. Mohsen è sollevato nel vedere altre donne di mezza età attorno a lui. Le due madri staranno bene. Un elicottero della polizia gira nel cielo. La gente rovescia indietro la testa e saluta ironicamente l’elicottero, che muove timidamente la coda. Mohsen s’immagina che nella cabina di pilotaggio qualcuno stia dicendo in un microfono: «Sissignore, milioni!».
Poi incontra lo sguardo di Pegah. I suoi occhi sono più stretti, e sta sorridendo dietro alla maschera che le copre il volto. Mohsen ricambia il sorriso. «Milioni!» grida.
La Repubblica islamica dell’Iran è stata creata dalle folle. Ora, trent’anni dopo, le utilizza per le occasioni importanti, simboliche. Un conto è quando le autorità riuniscono la gente usando autobus, altoparlanti e la promessa di un pasto gratis per l’anniversario della rivoluzione o in segno di appoggio ai palestinesi. Perché una folla sudi e scalpiti, però, dev’essere convinta. Deve avere una staccionata o un muro contro cui scagliarsi, e che alla fine possa abbattere.
La folla comincia a muoversi lentamente verso piazza Azadi. Gli slogan riempiono l’aria. Corrono sulla gente dietro a Mohsen e si spengono a tre chilometri di distanza, in piazza Enghelab. Mohsen comincia a camminare e si ritrova Mamad al suo fianco, bello e minaccioso con la sua maschera verde sul volto. «Ci hanno rubato i voti» gridano i due amici «e se ne vantano pure!» Poi, un altro slogan: «Spazzatura siete voi!». Da un balcone che dà sulla strada, un’anziana donna sulla sedia a rotelle fa il segno di vittoria con la mano. La folla la saluta con entusiasmo.
La gente continua a riversarsi in viale Azadi dalle strade laterali. A giudicare dai vestiti puliti e dai veli neri delle donne, molti dei nuovi arrivati sono burocrati e impiegati del settore privato. Hanno finito di lavorare e sono usciti insieme ai colleghi per reclamare i propri diritti. «Entro la fine della settimana» grida la gente «Ahmadinejad sarà bell’e che andato!» Sorridono e ridono. Trattano con affetto e riguardo i giovani e gli anziani. Oggi non ci sarà criminalità a Teheran. Khamenei non può ignorare una cosa del genere, no?
La folla fa marcia indietro. Mohsen si alza in punta di piedi. Guarda verso piazza Enghelab e poi avanti, verso piazza Azadi. Quella cintura umana è lunga chilometri e tra poco occuperà viale Azadi in tutti i suoi centottanta metri di larghezza. Mohsen si rende conto che sta partecipando alla più grande manifestazione di protesta nella storia dell’Iran e all’improvviso si sente parte di un organismo molto più grande, un organismo che chiede una democrazia rappresentativa da un secolo o forse più. Si rende conto che adesso, qua in viale Azadi, i tempi sono maturi.
Mohsen vede Jalal, il suo insegnante di setar, che cammina insieme alla moglie. Lo saluta rispettosamente e lui, a sua volta, è contento di vedere il proprio alunno. Jalal è anziano e un po’ gobbo ed è lì a manifestare pur sapendo che, se scoppierà il panico e ci sarà un fuggi fuggi, verrà travolto dalla folla. È un ottimo musicista e ha registrato insieme ai maestri della musica classica iraniana, ma è anche un progressista e un democratico, e la cosa gli ha dato non pochi guai. I suoi concerti sono stati annullati. Le sue composizioni sono rimaste per anni nelle mani del ministero della Cultura e dell’Orientamento islamico in attesa di autorizzazione. Forse è un’aberrazione tutta iraniana, riflette Mohsen quando si separano, che un uomo garbato, innamorato della cultura e del proprio paese non debba essere innalzato e celebrato dalle autorità, ma insultato, guardato con sospetto e calpestato.
Come Shamlu, il poeta della libertà, che si è visto sottrarre poesie e appunti dalla polizia dello Scià, che è entrato e uscito di prigione, e ha finito i suoi giorni in isolamento e solitudine sotto la Repubblica islamica. Quante migliaia di versi di Shamlu non sono stati ancora pubblicati per mancanza di un permesso governativo? Eppure, quest’uomo non ha ceduto alla tentazione dell’esilio.
La mia luce arde in questa casa; la mia acqua gorgoglia in questa brocca; il mio pane giace su questo tavolo.
Mohsen sta piangendo in segreto, mentre comincia a piovere e la folla grida: «Lode a Maometto, ecco che cadono le lacrime di Dio!». Giura che non lascerà mai questo paese, che non abbasserà mai la testa e non abbandonerà l’Iran al suo destino. Alcune persone stanno intonando l’inno nazionale non ufficiale, Ey, Iran!, e Mohsen si unisce al canto, ubriaco di emozione. Tutt’a un tratto Amin è al suo fianco. Anche lui è su di giri, la sua fronte è bagnata di pioggia. Si è tolto la maschera verde e Mohsen fa lo stesso. Amin ha visto la madre di Mohsen, mano nella mano con quella di Solmaz. Le due donne sorridevano e alzavano le braccia facendo il segno di vittoria.
A circa un chilometro di distanza si alza una sonora acclamazione. Corre voce che Mousavi sia tra i manifestanti, come promesso, e stia parlando alla gente con un megafono. «È una bella sorpresa» dice Amin «quando un riformista mantiene le sue promesse.»
A un centinaio di metri da piazza Azadi, i manifestanti vedono alcuni basiji nascosti in una via laterale e li cacciano via. Gridano alcuni slogan in cui paragonano i coraggiosi e altruisti basiji della guerra Iran-Iraq alle bestie di oggi. Nella via dopo, intralciati nel loro lavoro da quella folla enorme, alcuni spazzini si sono seduti sul marciapiede. I manifestanti improvvisano: «Spazzini! Portate via Ahmadi!».
Sono le sette e il cielo è burrascoso quando arrivano in piazza Azadi e al monumento dell’ultimo Scià, quel tozzo aracnide proiettato verso il cielo. L’intera distesa, vasta quanto la Piazza Rossa, è un manto di persone vestite di verde.
I manifestanti cominciano a disperdersi. I più vanno verso nord, creando un’estensione imprevista del corteo. Mohsen è fuori di sé dalla gioia; la decisione delle autorità di non sciogliere il corteo è un indice di debolezza e indecisione. La presenza della polizia si è ridotta a pochi vigili perplessi e agli elicotteri in cielo. Ricorda di aver letto da qualche parte della forza delle masse popolari nell’est europeo alla caduta della Cortina di ferro. Di come, trovandosi a fronteggiare delle folle simili, i tiranni avevano perso ogni volontà di vivere.
Mohsen e Amin stanno camminando verso nord quando cominciano i disordini.
Il primo indizio è un cambiamento del tono degli slogan. La folla davanti a loro sta gridando cose violente, quasi incomprensibili. Vengono ripetute in continuazione, a raffica.
Come si avvicinano, le parole diventano comprensibili: «A morte i basiji!».
Mohsen affretta il passo. Vuole avvicinarsi, vedere cosa sta succedendo. Amin è al suo fianco, il volto una maschera di paura. Dal flusso di persone che si sono girate e stanno tornando indietro verso piazza Azadi, e da alcuni frammenti fugaci che sentono mentre camminano – «Hanno dei fucili là sopra!» – è chiaro che è in atto uno scontro. Presto sarà buio. Le nubi nel cielo sono nero pece. Si sentono i primi spari, le prime grida.
Il primo istinto di Mohsen è quello di mettersi a correre e avvicinarsi. Il primo istinto di Amin, di girare i tacchi e andare via. Mohsen prende l’amico per un braccio. «Dai!» dice, cercando di contenere l’eccitazione nella propria voce. «Solo un attimo, poi ce ne andiamo.»
Poco più avanti c’è quella che sembra una casa o un palazzo normale; dev’essere una caserma dei basiji. Dal cortile recintato attorno alla casa si alzano delle fiamme e da una finestra aperta compare una canna di fucile. Parte una pioggia di pietre verso la finestra e un uomo in divisa corre su per il tetto. L’uomo si acquatta più che può al margine del tetto e spara sulla folla. Mohsen e Amin sono troppo lontani per capire se qualcuno è stato colpito. La gente reagisce come in concatenazione, scappando di qua e di là. Poi, qualche attimo dopo, tornano lentamente verso la caserma e ricominciano a lanciare pietre. «A morte chi uccide!» gridano.
«A morte i basiji!» grida Mohsen.
Mentre le fiamme divampano sempre più alte, Mohsen si gira verso un uomo che ha accanto e gli chiede: «Cos’è che brucia?». L’uomo risponde: «Delle motociclette, credo». Adesso, attraverso il fumo, s’intravedono due figure sul tetto, che sparano all’impazzata e schivano le pietre. La folla sta gridando: «Senza paura! Senza paura! Siamo uniti!».
«Andiamo!» grida Amin, tirando Mohsen per un braccio.
Mohsen sta urlando: «A morte chi uccide!». Poi si volta con riluttanza.
Amin e Mohsen s’incamminano di nuovo verso sud, allontanandosi dalla caserma in fiamme. «Lasciamo la strada principale!» dice Amin, e lui e Mohsen imboccano una traversa in direzione est. La strada ha auto parcheggiate su entrambi i lati, ma per il resto è deserta. I due ragazzi proseguono paralleli a viale Azadi e si allontanano dagli scontri. Mohsen si gira a guardarsi alle spalle mentre cammina. La caserma dei basiji è coperta dagli altri palazzi, ma si vede ancora il fumo che si alza nel cielo.
«Aspetta!» dice Amin all’improvviso, fermando Mohsen con un braccio. Poco più avanti ci sono sei basiji in uniforme, fermi all’incrocio. Aspettano quelli che tornano dalla caserma. A Mohsen viene in mente quello che ha detto Pegah sui basiji che si comportano come sciacalli. Questi basiji si stanno incitando a vicenda. Due o tre di loro stanno correndo sul posto. Ripetono uno slogan: «Dio è grande! Khamenei è il nostro leader!».
Poi li vedono. Uno dei basiji, un uomo sulla quarantina dalla barba brizzolata, dice qualcosa agli altri. I basiji smettono di correre sul posto. Guardano lungo la strada. Meno di duecento metri li separano da Mohsen e Amin. I basiji cominciano a correre.
Mohsen e Amin scappano. Scappano verso la strada principale, che ora sembra un rifugio, con le sue foll...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Prologo
  3. Uno
  4. Due
  5. Tre
  6. Quattro
  7. Cinque
  8. Sei