Agricoltura senza caporalato
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Agricoltura senza caporalato

Osservatorio sulla criminalità nell'agricoltura e sul sistema agroalimentare

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Agricoltura senza caporalato

Osservatorio sulla criminalità nell'agricoltura e sul sistema agroalimentare

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SCHEDA LIBROSaggi di Roberta Capo, Fabio Ciconte, Pietro Curzio, Fabrizio Di Marzio, Marcello Maria Fracanzani, Francesco Gianfrotta, Marco Marazza, Cataldo Motta, Leonardo Palmisano, Paolo Passaniti, Fabrizio Sacchetti, Ernesto Savaglio, Giusto Sciacchitano, Enrico Scoditti, Giovanni Tria.Il fenomeno del caporalato, insieme a quello del lavoro nero, presente soprattutto nel settore agricolo, interessa tutto il nostro paese, con punte preoccupanti nell'Italia meridionale. Esso consiste nel reclutamento illegale di lavoratori che vengono impiegati, per lo più a giornata, nei campi, per essere messi a disposizione di un'impresa. I caporali, spesso collegati con organizzazioni criminali, sono i mediatori tra le imprese e i lavoratori, italiani o stranieri in stato di bisogno. Questi ultimi si trovano dunque in una posizione debole dal punto di vista economico e sociale, e sono facilmente esposti allo sfruttamento. Il lavoro viene altamente sottopagato, tanto da essere considerato una nuova forma di schiavitù. I turni, lunghi, faticosi e fuori da qualsiasi norma di diritto, sono accompagnati da varie forme di violenza, maltrattamenti e intimidazioni. Per spezzare la catena dello sfruttamento, al fine di combattere questo fenomeno così vergognosamente diffuso, è necessario conoscerne in maniera precisa le dinamiche, analizzando i contesti all'interno dei quali questa pratica trova terreno più fertile. Il libro risponde a questa necessità attraverso un'indagine affidata a studiosi di varia provenienza, dai giuristi agli storici del lavoro, dagli economisti ai filosofi e ai letterati, fino al saggio fotografico appositamente realizzato per questo volume da Fabrizio Sacchetti. Una riflessione a più voci, dunque, su un fenomeno che interessa la società civile nella sua interezza e nei suoi fondamenti e che richiede di essere posto al centro del dibattito, all'insegna del comune impegno per la costruzione di una comunità di vita in cui i diritti di tutti siano riconosciuti.La Fondazione «Osservatorio sulla criminalità nell'agricoltura e sul sistema agroalimentare», promossa da Coldiretti, nasce nel febbraio 2014 con l'intento di coniugare e valorizzare tutela del Made in Italy agroalimentare e cultura della legalità, ritenendoli due facce della stessa medaglia: un volano per lo sviluppo del nostro paese. Conseguente quindi è anche l'impegno a mettere in campo tutti gli strumenti che concorrono a combattere fenomeni di adulterazione, contraffazione e in genere ogni tipo di intervento doloso o fraudolento che mina il valore e l'integrità del Made in Italy. A tracciare le linee strategiche è il comitato scientifico, punto di incontro e confronto tra mondi istituzionali e privati, presieduto da Gian Carlo Caselli.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788868437350
Categoria
Sociologia

XIII. Caporali e caporalato*

di Cataldo Motta

1. Morire di fatica all’alba del terzo millennio.
La morte di Mohamed A. è conseguenza dell’evoluzione di un quadro di polmonite favorita dall’attività lavorativa non certo leggera, svolta in condizioni meteorologiche sfavorevoli per il caldo torrido, nonché dall’assenza di precauzioni igieniche e di qualsiasi iniziativa diagnostico-terapeutica, misure entrambe imperative e capaci di evitare il decesso.
Questa la conclusione del medico legale necroscopo incaricato dalla Procura della Repubblica di accertare la causa della morte di Mohamed A., bracciante agricolo proveniente dal Sudan, immigrato irregolare assunto in nero e impegnato nella raccolta del pomodoro nelle campagne di Nardò, in provincia di Lecce, in una caldissima giornata del luglio 2015, quando il termometro aveva sfiorato i quaranta gradi Celsius.
E non si tratta di un caso isolato. Sarebbero stati una decina i lavoratori, quasi tutti braccianti agricoli, che hanno lasciato la vita nelle campagne di mezza Italia nell’estate 2015, tre soltanto in Puglia. Anche la neonata provincia di Barletta-Andria-Trani non è esente da vicende analoghe. Infatti, nello stesso mese di luglio 2015, qualche giorno prima della morte del bracciante sudanese, nelle campagne di Andria moriva di fatica Paola C., colta da una sindrome coronarica acuta mentre lavorava come bracciante agricola, addetta alla cura di un vigneto a tendone, lei che soffriva di ipertensione sulla cui evoluzione aveva negativamente influito il sole di quell’infuocato mese di luglio; lei che, per poter lavorare, partiva ogni mattina alle tre da San Giorgio Ionico, in provincia di Taranto, per farvi ritorno solo dopo dodici ore. Condivideva le modalità di reclutamento da parte dei caporali e le condizioni di sfruttamento lavorativo con altre seicento persone, avviate illecitamente al lavoro, tra giugno e settembre 2015, da un caporale ben organizzato: un’agenzia di lavoro interinale in provincia di Bari! Per tutti i lavoratori la retribuzione era al di sotto del limite di sopravvivenza, ridotta a un paio di decine di euro, talvolta tre, a fronte di quella almeno tripla che sarebbe spettata a Paola e agli altri braccianti. E non venivano conteggiate nemmeno tutte le giornate nelle quali si era effettivamente lavorato. Se qualcuno se ne doleva, c’era chi dall’altra parte agitava lo spettro del licenziamento, rammentando ai lavoratori che erano stati preventivamente informati delle condizioni di lavoro da chi li aveva reclutati e che le avevano accettate: come se, prescindendo dalla veridicità della circostanza, il profilo illecito riguardasse la carenza di informazione e non le modalità estorsive che connotavano la prestazione lavorativa e che certamente non perdevano il loro disvalore e la natura di violazione penale per un irrilevante consenso prestato in una situazione di necessità o di bisogno, della quale approfittavano caporale e datore di lavoro.
Un quadro desolante, in una zona non lontana dalla città di Cerignola, nel Foggiano, che alla fine del XIX secolo, aveva dato i natali a Giuseppe Di Vittorio. Figlio di braccianti agricoli e lui stesso costretto a fare il bracciante a causa della morte del padre per un incidente sul lavoro, era riuscito, grazie al suo buonsenso e alla ricca umanità, a farsi capire sia dalla classe operaia, in rapido sviluppo nell’area foggiana, a nord della Puglia, sia dai contadini, ancora fermi ai margini della vita economica, sociale e culturale del paese, con la questione meridionale allora al centro dei problemi del lavoro e mai superata.
E anche la provincia di Bari, operosa città commerciale capoluogo della Puglia, aveva dato nella stessa estate il proprio contributo di una vita umana, quella di Zacaria B. H., un tunisino stroncato dal caldo torrido mentre caricava cassette di uva nelle campagne di Polignano a Mare, migrante, come i più, alla ricerca disillusa della sopravvivenza in un paese che sul lavoro posa le fondamenta della Repubblica, diritto primario di rango costituzionale, ridotto a benevola concessione del potente di turno, a favore scambiato con un falso consenso elettorale, a grazia ricevuta, per chi abbia una visione religiosa.
Con amara riflessione, c’è da dire che dopo oltre un secolo quasi nulla è cambiato nel lavoro agricolo: cento anni sembrano trascorsi invano e i braccianti agricoli sono ancora lì, fermi a piatire il lavoro anche a costo di morirne. E se lo tengono stretto una volta ricevuta la grazia, in un contesto di difficoltà lavorative che è solo un eufemismo per indicare le condizioni di assoluta povertà che, anche di fronte alla morte, inducono i compagni di lavoro al silenzio e a vedere nei caporali i loro benefattori piuttosto che i loro aguzzini: anche se li sorvegliano quando sono in bagno o li bacchettano quando lavorano male o riducono le giornate in cui hanno lavorato o li retribuiscono con un terzo della paga sindacale o li sottopongono a fatiche mortali. Sono i loro carcerieri, se è vero il paragone molto efficace di uno dei lavoratori di Nardò che ha espresso la sua valutazione sulle condizioni in cui essi vivevano: «In pratica era come vivere in una prigione senza sbarre né guardie», ma consapevoli di non potersi ribellare a quelle condizioni di vita e alle modalità con le quali si svolgeva il lavoro perché diversamente, come l’emissario del datore di lavoro aveva esplicitamente avvisato, «non solo non sarebbe stata più corrisposta la paga giornaliera, da lui determinata unilateralmente secondo le giornate e gli orari lavorativi liberamente annotati dallo stesso caporale, ma non ci avrebbe poi fatto lavorare il giorno successivo». E una volta che taluni di loro, tutti irregolarmente presenti nel territorio dello Stato, avevano eccepito che l’ammontare del raccolto era di gran lunga superiore al peso determinato dall’operatore, si erano sentiti rispondere di andare a denunciare i fatti ai carabinieri!
Ma l’apice del paradosso era nell’abitudine dei caporali di far pagare ai lavoratori il carburante consumato dai furgoni con cui li prelevavano dal luogo di reclutamento per trasportarli ai campi, dove avrebbero prestato lavoro in condizioni di grave sfruttamento. Il furgone, guidato dal caporale, ha costituito e tuttora rappresenta il simbolo intorno al quale ruotano il reclutamento illecito, l’intermediazione illecita nel lavoro e il grave sfruttamento lavorativo.
D’altronde le modalità di reclutamento e trasporto connotarono il fenomeno fin dall’inizio, nell’immediato dopoguerra, come è dimostrato dall’esistenza già nel 1949 di una norma, l’articolo 27 della legge n. 264 che, pur sanzionando – quale semplice contravvenzione – con l’ammenda (e con l’arresto nel caso di finalità di lucro) l’intermediazione illecita nel lavoro (ma senza le caratteristiche violente, intimidatorie e profittatrici dello stato di bisogno o di necessità del lavoratore), imponeva comunque il sequestro del mezzo adoperato per il trasporto dei lavoratori reclutati illecitamente. Una norma, cioè, che faceva riferimento specifico alle modalità con le quali il caporale abitualmente reclutava i lavoratori e li portava sui luoghi di lavoro, a conferma, oltre che della datazione del fenomeno (risalente a non meno di settant’anni fa), del ricorso da parte dei caporali a modalità costanti nel tempo.
Si sono modificate, invece, le modalità del controllo dei lavoratori, adeguate alle diffuse realtà lavorative, composte pressoché integralmente da immigrati irregolarmente presenti nel territorio dello Stato. E immigrati sono anche i caporali, provenienti dagli stessi paesi dei lavoratori, generalmente africani, o da paesi di tradizioni culturali tra loro simili: non per rendere i controlli più gradevoli, ma piuttosto perché siano più incisivi ed efficaci e comunque meglio accetti dai controllati in virtù della comunanza culturale e del conseguente riconoscimento dei ruoli. Così a Nardò uno dei denuncianti, immigrato dal Ghana, ha ricordato di aver iniziato a lavorare con una squadra composta da altri cinque ghanesi che venivano controllati da un caporale di nazionalità algerina. E taluni lavoratori sudanesi hanno indicato in un connazionale un altro caporale, incaricato del controllo.
Ma non sono stati solo i lavoratori ad accusare caporali e datori di lavoro, riferendo delle condizioni in cui vivevano: le loro dichiarazioni sono state riscontrate con intercettazioni telefoniche e documentate dalle riprese video dei carabinieri del Raggruppamento operativo speciale che hanno riprodotto non soltanto i luoghi del reclutamento, ma anche quelli – fatiscenti, maleodoranti e assolutamente privi di ogni parvenza di igiene – degli ambienti in cui vivevano (dove il verbo «vivere» indica solo una condizione biologica).
All’esito delle indagini avviate dalla Procura della Repubblica di Lecce, era stato possibile individuare un’associazione per delinquere che dalla Tunisia organizzava trasferimenti in Italia, dove veniva assicurato un posto di lavoro, per la somma di circa sette milioni di dinari tunisini (circa tremila euro), con modalità che, a parere del pubblico ministero, costituivano tratta con finalità di sfruttamento lavorativo di migranti africani reclutati nei loro paesi (per lo più tunisini, ma anche algerini, ghanesi, sudanesi); questi, sbarcati sulle coste siciliane, venivano inizialmente impiegati a Pachino per la raccolta del pomodoro, ma poi, raggruppati in squadre itineranti, venivano trasportati nelle diverse province meridionali della penisola, nei luoghi dove la stagione richiedeva la raccolta del frutto o determinati interventi di coltivazione. E così si passava dai pomodori di Pachino agli agrumi di Rosarno, in Calabria, alle angurie e alle ciliege della Puglia, ai pomodori della stessa Puglia e della Campania, con una formula che vedeva il sistematico intervento dei caporali, incaricati di spostare in tutto il Meridione d’Italia squadre di immigrati irregolari (e non solo) destinati a prestare attività lavorativa in condizioni di grave sfruttamento.
Nonostante le difficoltà di applicare ai protagonisti delle vicende criminali oggetto delle suddette indagini gli unici reati all’epoca vigenti che punivano la riduzione o il mantenimento in schiavitù o in servitù di persona in stato di soggezione continuativa, costretta a prestazioni lavorative e la tratta di persona in tali condizioni egualmente costretta a prestazioni lavorative, la Corte di assise di Lecce ha recentemente riconosciuto che le condizioni cui erano sottoposti i lavoratori ne comportavano uno stato di soggezione continuativa finalizzato allo sfruttamento lavorativo e ha condannato gli imputati alle pene assai severe che il nostro codice penale prevede per i reati in questione (da otto a venti anni di reclusione).
Dall’originario impiego in agricoltura della manodopera reclutata in violazione del divieto di intermediazione e avviata al lavoro in condizioni di grave sfruttamento, si è, poi, passati alla manodopera impiegata nella installazione di impianti fotovoltaici. In un’altra specifica indagine giudiziaria alcune centinaia erano risultati anche i lavoratori che installavano pannelli fotovoltaici in un gran numero di cantieri aperti in una dozzina di località nelle province di Lecce e di Brindisi, reclutati con intermediazione illecita dei caporali e vittime di grave sfruttamento lavorativo. Dai quaranta lavoratori che inizialmente avevano deciso di denunciare i fatti, alla vigilia del giudizio dibattimentale le persone offese erano diventate oltre quattrocento.
L’impresa cui gli impianti erano stati commissionati inizialmente non aveva avuto difficoltà ad attestare e asseverare falsamente che ne erano stati completati un paio prima della scadenza del termine entro il quale avrebbero dovuto essere realizzati, pena la perdita dei contributi pubblici previsti per i titolari degli impianti. Ma, per un verso, molto vasta era l’area sulla quale insistevano gli impianti dei pannelli in via di installazione; per altro verso, l’avanzamento dei lavori era in ritardo ed evidentemente, anziché rilasciare attestazioni false, si era ritenuto di accelerare i lavori in tutti i cantieri aperti in Salento, aumentandone il ritmo nel tentativo di completarli prima della scadenza: prospettiva difficile, se non del tutto irrealizzabile, il cui peso era ricaduto sui lavoratori.
Per la verità, quando la polizia aveva raccolto le denunce dei primi quaranta lavoratori, sarebbe risultato che le condizioni del rapporto di lavoro erano disumane fin dal primo giorno in tutti i cantieri aperti nelle province di Lecce e Brindisi presso cui lavoravano. «Fin dal primo giorno – aveva esordito nella sua denuncia uno dei lavoratori – l’orario di lavoro era stato, di fatto, di dodici ore con due brevi pause, compresi sabato, domenica e i giorni festivi; e contrariamente a quanto concordato, si era costretti a lavorare in qualsiasi condizione atmosferica, anche sotto la pioggia torrenziale che trasformava il terreno in fangosi acquitrini e rendeva pressoché impossibile il trasporto di pesantissime barre di ferro, necessarie per il montaggio degli impianti». Molti rischiavano di cadere e taluni si infortunavano. Ma non era consentito che i feriti ricorressero ad accertamenti diagnostici o a cure mediche, pena il licenziamento in tronco. Sicché a un lavoratore che si era fratturato un dito essendogli sfuggita di mano una pesante struttura di metallo, non era stato consentito di recarsi in ospedale. E eguale sorte di immediato licenziamento sarebbe toccata a chi non si fosse presentato in cantiere a causa della forte pioggia, argomento espressamente affrontato in una conversazione intercettata tra due esponenti dell’azienda: «Sta piovendo e nessuno vuole lavorare […] ma loro, quando dico che devono venire […] non devono decidere loro […] io devo decidere, non loro […] vuol dire che non ti sentono questi qua: comandano loro e noi non comandiamo niente». Sintetico ed eloquente altresì il commento di un lavoratore immigrato: «I nostri nonni che lavoravano nei campi di cotone sicuramente venivano trattati meglio», aveva detto. Ed effettivamente i metodi utilizzati dai preposti ai cantieri non erano certo rispettosi dei contratti collettivi nazionali del lavoro e dei diritti dei lavoratori; e ancor più duro era il trattamento per coloro, una quarantina, che si erano decisi a presentare denuncia.
Emblematiche le minacce a un altro lavoratore da parte dei responsabili dell’impresa neretina: non gli avrebbero corrisposto la pur misera retribuzione se non avesse ritirato la denuncia; ed egualmente significativa la sollecitazione al responsabile di un cantiere, invitato in termini espliciti ad agire violentemente contro il lavoratore qualora la denuncia non fosse stata ritirata: «Lo prendi, gli spezzi le gambe, quello che vuoi […] purché la ritiri; fai quello che vuoi, ma che la ritiri».
Ancor di più avrebbero rivelato le intercettazioni dalle quali sarebbe risultato che i lavoratori venivano trattati come bestie. Tra l’altro, avevano protestato per la mancanza di guanti – che aveva provocato ferite alle mani di uno di loro – mentre gli stivali da lavoro, necessari anche per affrontare il fango nel quale si era immersi nelle giornate di pioggia e acquistati solo a seguito delle proteste dei lavoratori, erano risultati tutti di misure molto piccole. E la segretaria dell’azienda non aveva dimostrato particolare sorpresa alla cinica risposta di un dirigente della società il quale aveva prima proposto «che si tagliassero i piedi», poi si era corretto: «Che taglino gli stivali davanti, con i piedi di fuori», soluzione che, a tacere di ogni altra considerazione, rendeva del tutto inutile sotto il profilo antinfortunistico lo stesso uso degli stivali!
Le condizioni di lavoro, poi, erano tali da impietosire talvolta gli stessi caporali: da una conversazione intercettata risulta la commozione di uno di loro per aver trovato un lavoratore steso a terra e in lacrime che si lamentava di non farcela più: «Quando me lo sono visto così – diceva il caporale – mi dispiaceva proprio. Sta piangendo; giuro su dio, come una donna sta piangendo quello». E da un’altra conversazione si ha conferma che non si trattava di un caso singolo, ma che tutti i lavoratori erano ridotti allo stremo, «morti di sonno, di fame e di sete […] volevano bere e non c’era nessuno che gli desse l’acqua».
Paradossali le modalità di corresponsione della retribuzione il cui importo si andava riducendo in proporzione inversa all’aumento delle ore lavorative e talvolta veniva omessa del tutto, sì da far perdere significato allo stesso termine di «retribuzione». Lo hanno riferito più lavoratori, irregolarmente immigrati e illecitamente assunti. Uno ha ricordato di «aver lavorato in vari campi tutti i giorni, fino al 15 luglio, dalla mattina alle cinque fino alle sei-sette del pomeriggio, con una pausa di un’ora per il pranzo, senza percepire, però, alcun tipo di salario. Aveva chiesto perché e gli era stato risposto che i soldi che avrebbe dovuto incassare servivano per il disbrigo di molte pratiche burocratiche che lo riguardavano, nonché per il vitto e l’alloggio che gli venivano forniti e per i contributi per l’ingaggio». Situazione qui definita paradossale in quanto, oltre al termine retribuzione, anche altre parole usate celano un significato reale diverso da quello che si è abituati a dare ad esse: vitto e alloggio ad esempio, contrariamente all’uso comune, si riferiscono entrambi a condizioni alloggiative e alimentari ai limiti della sopravvivenza, sia per quantità e qualità degli alimenti (la migliore gourmandise pare fosse il panino con la pecora), sia per l’uso alimentare dell’acqua destinata all’irrigazione, sia per l’assoluta mancanza di igiene, essendo i locali dove venivano ospitati i lavoratori del tutto privi di servizi igienici, significativamente definiti catapecchie in una conversazione registrata e che nemmeno un convinto, inguaribile ottimista avrebbe mai destinato a ospitare un essere umano, anche solo per una notte.
Si tratta di vicende che arretrano al medioevo il livello della cosiddetta società civile del Meridione d’Italia (ma non solo), dove si muore per eccesso di affaticamento a seguito di clamorose violazioni di tutte le normative destinate alla protezione del lavoratore; si muore di fatica quindici anni dopo l’avvento del 2000, con il suo carico di innovazione tecnologica e di risorse destinate a eliminare il lavoro svolto in violazione dei diritti dell’uomo e renderlo comunque meno gravoso.
Un quadro sconfortante, con l’aggravante che in occasione della morte dell’immigrato sudanese sarebbe risultato che nulla era cambiato rispetto alla precedente situazione e che nei terreni in agro di Nardò aveva continuato a operare con gli stessi metodi la medesima impresa già distintasi nella gestione delle attività relative alla raccolta delle angurie e dei pomodori che aveva costituito oggetto di indagine penale.
Non può sottacersi che, come per altri fenomeni criminali che interessano principalmente il Sud d’Italia, l’eliminazione di quello in questione o comunque il suo ridimensionamento, in ragione del coinvolgimento sociale che esso comporta, non può essere rimesso solo alla giustizia penale. La repressione penale è certamente necessaria e deve essere incrementata e la relativa disciplina applicata con rigore, ma denuncia la sua inadeguatezza a contrastare da sola siffatte condotte delittuose: sia per la rilevanza sociale del fenomeno e la necessità di interventi che coinvolgano la società civile, sia per taluni aspetti, emersi nel corso delle indagini penali, che denotano le difficoltà del contrasto giudiziario e suggeriscono la partecipazione attiva di altri soggetti che affianchino l’azione penale. Solo così si potrà arginare l’ampiezza del fenomeno e dei territori interessati, ridurre il potere dei caporali e abolire le squadre di lavoratori assoggettati alle loro imposizioni di «servire» diversi territori, interrompere i collegamenti internazionali che, con modalità costituenti tratta di persone, consentono il reclutamento di lavoratori africani e il loro trasferimento in Italia, dove vengono utilizzati in Sicilia, Calabria, Puglia e Campania nei più pesanti lavori in agricoltura, edilizia e più recentemente nella installazione di impianti fotovoltaici.
Si ha l’impressione di un fenomeno ben radicato nel costume di alcune realtà meridionali, che non turba, come dovrebbe, la coscienza degli onesti, indifferenti negli anni e per i quali prevale l’invito (nel significato diverso da quello originariamente non negativo né provocatorio) a non vedere, non sentire e non parlare suggerito da Misazaru, Kikazaru e Iwazaru, le «tre scimmiette sagge» dell’iconografia giapponese, che si coprono rispettivamente gli occhi, le orecchie e la bocca.
2. I provvedimenti legislativi specifici che mancavano in passato.
Il disinteresse e la diffusa indifferenza per il fenomeno in questione avrebbero determinato eguale disinteresse del legislatore in quanto, almeno fino al 2011, l’ordinamento penale non disponeva di alcuna norma specificamente diretta alla repressione del fenomeno benché questo fosse connotato da aspetti violenti e intimidatori e fosse presente fin dal primo dopoguerra nelle regioni meridionali d’Italia e in Puglia principalmente, dove è tuttora alimentato dalla forte disoccupazione e, nella maggior parte dei casi, dalle esigenze di coltivazione e raccolta di prodotti agricoli, che richiedono grave fatica. Di tale presenza e delle modalità con le quali si manifestava vi è traccia eloquente in una disposizione che risale al 1949, quella dell’articolo 27 della legge n. 264 di quell’anno, che già settanta anni fa, pur prevedendo l’applicazione di una modesta pena pecuniaria (cui si aggiungeva quella dell’arresto in caso di finalità di lucro) a chi si fosse reso colpevole della contravvenzione di illegale intermediazione nel lavoro (senza violenza o minaccia e senza approfittare dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori), imponeva, in caso di condanna, il sequestro del mezzo utilizzato per il trasporto sul posto di lavoro dei braccianti agricoli reclutati.
Naturalmente non vi è indagine statistica che fornisca oggi il dato dei mezzi sequestrati nei decenni passati, ma verosimilmente doveva trattarsi di u...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Prefazione di Gian Carlo Caselli
  6. I. Agricoltura, caporalato, questo libro di Fabrizio Di Marzio
  7. II. Appunti per una sociologia dello sfruttamento in agricoltura di Leonardo Palmisano
  8. III. Una legge importante ma non sufficiente di Fabio Ciconte
  9. IV. Il diritto del lavoro come antidoto al caporalato di Paolo Passaniti
  10. V. Stato e caporali: un’avventura giuspubblicistica di cent’anni (e più) di Marcello Maria Fracanzani
  11. VI. Tra lavoro e sfruttamento del lavoro di Enrico Scoditti
  12. VII. Il lavoro nel processo di raccolta di prodotti agricoli di Marco Marazza
  13. VIII. Lavoro irregolare, lavoro transnazionale e immigrazione. Un’analisi quantitativa di Giovanni Tria
  14. IX. Agromafie e caporalato: un approccio economico di Ernesto Savaglio
  15. X. Contrasto giudiziario al «caporalato»: analisi e problematiche di Giusto Sciacchitano
  16. XI. De re rustica di Fabrizio Sacchetti
  17. XII. Sfruttamento del lavoro e repressione penale di Pietro Curzio
  18. XIII. Caporali e caporalato di Cataldo Motta
  19. XIV. Il coraggio dell’innovazione di Francesco Gianfrotta
  20. XV. Il cinema contadino in Italia di Roberta Capo
  21. Bibliografia
  22. Gli autori