Il borghese fa il mondo
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Il borghese fa il mondo

Quindici accoppiamenti giudiziosi

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Il borghese fa il mondo

Quindici accoppiamenti giudiziosi

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Secondo alcuni il mondo è una biblioteca; ma se persino le stelle fisse, fisse non sono, allora una biblioteca non sarà un luogo ordinato quanto piuttosto un tentativo, una possibilità, una sfida all'ordine. Il borghese fa il mondo davanti ai suoi libri, ma i suoi libri lo guardano, lo impensieriscono e lo provocano fino ad annientarlo. Questo libro, scaturito dal lavoro che l'Opificio di Letteratura Reale di Francesco de Cristofaro e Giovanni Maffei ha condotto negli ultimi anni, studia l'immaginario della borghesia attraverso un ampio corpus di opere, giudiziosamente accoppiate, suddivise in tre movimenti (il borghese / fa / il mondo) e infine indagate con spirito libero: per esempio, la solitudine di Robinson si rispecchia in quella di Gesualdo, Maigret e Sherlock Holmes pipano in compagnia, la silhouette di Tristram Shandy è risucchiata dal sottosuolo di Dostoevskij, Barry Lyndon duella con i duellanti di Conrad, il borghese gentiluomo si pavoneggia al fianco di Totò-Sciosciammocca. Ancora, i villeggianti goldoniani conversano con il commesso viaggiatore Willy Loman; e il farmacista Homais, già segreto beniamino di Flaubert, flirta mostruosamente con Homer Simpson. Così, giocando sul serio e passando le frontiere disciplinari, gli autori si sono messi sulle tracce di questo strano animale che da più di duecento anni informa della sua presenza la modernità; lo hanno seguito su strade diverse e nuove senza mai riuscire a prenderlo davvero ma cogliendone sempre un frammento, la scheggia di un prisma infinito che ci riporta a quanto forse conosciamo meno: il nostro volto.Quindici accoppiamenti giudiziosi tra Melville e Huysmans, Sterne e Dostoevskij, Conan Do­yle e Simenon, Manzoni e Leopardi, Svevo e Roth, Defoe e Verga, Shakespeare e Galdós, Molière e Scarpetta, Goethe e Mann, Thackeray e Conrad, Woolf e Ginzburg, Balzac e Dickens, Tocqueville e Cechov, Nievo e Zola, Brecht e Ibsen raccontati da Sergio De Santis e Giovanni Maffei, Enrico Terrinoni e Massimo Palma, Ric­cardo Capoferro e Marco Viscardi, Romano Luperini e Antonio Prete, Sil­via Acocella e Arturo Mazzarella, Riccardo Martina e Francesco de Cristofa­ro, Stefano Manferlotti e Antonio Gargano, Francesco Fiorentino e Matteo Palum­bo, Giovanni Sampaolo e Simone Costagli, Enrica Villari e Claudio Gigante, Elisabetta Abignente e Antonio Bibbò, Gennaro Carillo e Clotilde Ber­toni, Francesco M. De Sanctis e Fausto Mal­covati, Ugo M. Olivieri e Pierluigi Pellini, Marco Meriggi e Fran­co Moretti. Note introduttive di Emanuele Canzaniello. Fotografie di Cesare Accetta, Monica Biancardi, Ludovico Brancaccio e Flavio Gregori. Con una conversazione su Miller e Goldoni tra Elio De Capitani e Toni Servillo.L'Opificio di Letteratura Reale è una comunità di ricercatori di età e di storie diverse che dal 2012 porta avanti, presso l'Università di Napoli «Federico II», una libera esperienza di ricerca. I primi due cicli scientifici, su Coincidenze e Attese, hanno prodotto altrettanti volumi (Ad est dell'equatore, 2012 e 2015). I frutti del più recente e articolato progetto su Borghesia sono, oltre a questo libro, lo schedario bibliografico Borghesia. Approssimazioni (Diogene, 2017) e il fascicolo monografico Borghesia disambientata («Status Quaestionis», XII, 2017).

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788868437367
Argomento
Arte
Primo movimento
Il borghese

I. Preferiremmo di no

Il primo accoppiamento del borghese avviene nel segno della negazione. Se nel romanzo come genere ha preso forma l’ethos di una classe di uomini, e se il romanzo del XIX secolo è anche l’incunabolo di una nuova manifestazione dell’epica, il suo proemio nel libro che avete tra le mani inizia con un’affermazione contraria, anzi con un’affermazione del negativo: la rinuncia del «Preferiremmo di no» è dunque anche un venir meno a quella millenaria e originaria forma, onnicomprensiva di ogni gesto affermativo, di ogni affermazione e nominazione del mondo, in cui ogni cosa prendeva parte alla luce del visibile e ai nomi per dire il mondo – prima ancora di farlo. Altro sarà il sentimento che anima questo primo connubio tra uomini finti: una rinuncia, o forse un rifiuto, ad essere; ad esserci. (Non è forse così che s’intitola, in originale, quella storia d’un giardiniere dimissionario di nome Chance, storia che ci è stata raccontata da Jerzy Kosinski e fluttua nella memoria di tutti con il volto perplesso di Peter Sellers?).
Ma quale rifiuto? Quello di Bartleby, lo scrivano di Melville, cantore dei mari e di un’epica compiuta come Moby Dick (1851), si sottrae a ogni gesto di cancelleria, a ogni gesto e basta, con la celebre formula di cortesia I would prefer not to, preferirei di no, o più precisamente preferirei di non. Dall’altro lato dell’oceano invece non si poteva non partire da Parigi, capitale dell’immaginario del secolo borghese. I romanzi di Huysmans scelti ne sono una duplice cartografia, il suo interno e il suo esterno. Se Folantin è anche figura di una modalità, la flânerie, la sua è l’esplorazione degli spazi esterni, dei pasti in strada, della degradazione o del declassamento, che per il borghese hanno lo stesso volto. Dall’altra parte, la Parigi di Des Esseintes è una Parigi di spazi interni, di rifiuto del viaggio, dell’esperienza stessa. Il rigetto mondano del mondo in Des Esseintes è un’operazione enciclopedica e bulimica. Una rinuncia mondana perché preziosa e avida di tutte le forme dell’apparire alla luce del visibile, sia storiche che biologiche. Nel ten tativo di Des Esseintes tutte le cose vengono catalogate ma nel suo peculiare catalogo il gesto della catalogazione, della nominazione non mira a rendere realtà a ogni oggetto, ma a sottrarre l’esserci di tutte le cose e riporle nell’ombra. L’operazione di nominazione borghese di tutte le cose, un paradigma e un comandamento che il lettore incontrerà di soglia in soglia in questo libro, fino ad arrivare su un’isola del Pacifico, qui, in questo primo varco, è negata e sbarrata. Il borghese ha in sé il germe del suo annullamento, è materia che ha in sé la configurazione opposta della sua stessa materia. È accumulo della materia, e ominazione per mezzo degli oggetti a cui dà forma, ma contiene in sé la distruzione della materia e la de-umanizzazione per mezzo degli oggetti e della tecnica cui dà forma. La borghesia è sin da subito sinolo di contrari e paradosso. In questo «preferiremmo di no», nell’accoppiamento tra mostri messo in scena in questo esordio, viene fuori un terzo dato che è la negazione della generazione stessa. Il borghese rinuncia a essere tale e a propagarsi nel mondo, e la sua rinuncia è resa possibile grazie a strumenti d’ascesi di cui è da sempre custode ed erede. E il nostro scrivano e il nostro Des Esseintes non sono nemmeno gli unici a inverare, a rappresentare, questa possibilità offerta all’es sere. All’essere tout court? All’essere borghese che è medietà e umanità? Agli eroi della nuova epica? Pensiamo alla discendenza dei Frédéric Moreau, a Gustave Flaubert, da L’Éducation sentimentale (1869) a Madame Bovary (1856), che hanno incarnato e incarnano un sottrarsi, un esitare davanti alla storia e alla vita, sia pure con diversi gradi di consapevolezza e di furore. «All’inizio di tutto – scriveva Flaubert – c’è l’odio per il borghese». Eppure è difficile odiare un fantasma, colpire un’entità che è sostrato all’eco no mia del mondo e architettura dell’irrealtà. Quando siamo davanti al puro nome borghese noi evochiamo sempre questo sinolo di reale e irreale, in cui una polarità desidera divorare l’altra reciprocamente. Debuttare con un ballo e una coppia che ci mostrino come si rifiuta il proprio essere può essere viatico e istruzione a una cautela che apponiamo qui sullo stipite del testo. Il borghese con tutta la sua famiglia ha più a che fare con l’irreale che con la storia. La scienza positiva degli storici vi confermerà que sto dato. Arrendetevi, arrendiamoci a maneggiare un oggetto quasi esclu sivamente intellettuale, irrintracciabile in una univocità della storia e del reale.

Bartleby, un racconto nella bottiglia

Herman Melville, Bartleby the Scrivener*

di Sergio De Santis

«Preferirei di no» è la frase con la quale il protagonista del racconto di Herman Melville, Bartleby lo scrivano, risponde a ogni domanda di qualsiasi interlocutore, forse anche a quelle che pone a sé stesso. Da giorni se ne sta in piedi, immobile, a guardare il muro sul quale affaccia la finestra dello studio legale dove lavora come copista, e nessuno ne conosce il motivo. Si sa solo che all’improvviso ha smesso di lavorare senza dare spiegazioni. Il suo non è un rifiuto netto, ma piuttosto una preferenza che si pre sta a ogni tipo di lettura interpretativa. Bartleby è un personaggio mimetico, elusivo, apparentemente incolore, dalla critica definito, di volta in volta, comico, tragico, santo, disperato e con mille altri aggettivi. Difficilmente un racconto è stato oggetto di tanti tentativi di svelamento, a volte di vere e proprie acrobazie intellettuali che hanno il sapore di una sorta di talmudismo critico.
Introducendo la sua traduzione del racconto, Gianni Celati ci avverte della difficoltà di svelare la vera natura di Bartleby:
I tentativi sono stati innumerevoli, le illuminazioni pochissime, e allora viene da pensare che questo personaggio ci attiri verso un tranello in cui tutte le spiegazioni e interpretazioni debbono cadere nel vuoto (Celati 2012a, p. VIII).
Quando Melville pubblica per la prima volta il racconto (poi inserito nella raccolta I racconti della veranda, 1856) siamo nel 1853. Lo scrittore ha 34 anni, e dal 1850 si è trasferito con la famiglia da New York a Pitt sfield, sulle colline del Berkshire, nel Massachusetts. La sua giovinezza di uomo di mare è ormai lontana. Passa le giornate scrivendo libri, lettere all’amico Nathaniel Hawthorne, anche lui trasferitosi nelle vicinanze, badando alle galline, dando da mangiare ai cavalli, occupandosi dell’orto, e può già considerarsi uno scrittore fallito. Moby Dick, il suo capolavoro, edito nel 1851, dopo qualche iniziale critica positiva, è stato sostanzialmente un fiasco, destinato a restare pressoché ignorato ancora per decenni dopo la morte dell’autore, avvenuta nel 1891. Un libro definito «incomprensibile, assurdo, troppo pieno di “metafisica tedesca”» (Celati 2012b, p. 75), che, nonostante il successo dei precedenti romanzi, soprattutto quelli di avventure nei mari caraibici, Typee (1846) e Omoo (1847), segnerà nella vita dello scrittore l’inizio di un cono d’ombra assoluto che lo avvolgerà fino alla morte. Negli anni di Pittsfield Melville sembra vivere in una sorta di straniamento esistenziale. Lo scrittore marinaio approdato in una fattoria di campagna così descrive la sua condizione:
Guardo dalla mia finestra al mattino quando mi alzo, così come farei da un oblò in una nave sull’Atlantico. La mia stanza sembra la cabina di una nave, e di notte quando mi alzo e odo il vento ululare, quasi mi viene in mente che ci siano troppe vele sulla casa, e che farei bene ad andare sul tetto ad ammainare il camino (Celati 2012b, p. 52).
La sensazione, dopo la lettura del racconto, è che ci sia sempre qualcosa che sfugge e continuerà a sfuggire, quasi che l’imperscru ta bile Bartleby preferisse non essere inquadrato in nessun genere o analisi a prescindere dagli strumenti utilizzati. Lo scrivano appare come un esausto naufrago senza un passato, probabilmente privo di un futuro e con un presente troppo inconsistente per sorreggerlo a galla. Il suo salvagente è la frase con la quale risponde a ogni domanda, un mantra che suona come un tic linguistico, quel «Preferirei di no» che suona come un’interruzione di un’a fa sia dal sapore nichilista. La vicenda si dipana in un microcosmo concentrato in uno studio legale poco animato dalla presenza di personaggi scarni, anche loro naufraghi fra terre emerse in un mondo forse scomparso. Il resto dell’umanità è come sparito, richiamato provvisoriamente in vita dalle necessità di coerenza del racconto. Non c’è nemmeno una descrizione fisica dello scrivano, se non il riferimento a un «giovanotto pallido» e incolore, quasi uno spettro che si aggira per lo studio legale collocato in una strada della New York di metà XIX secolo, Wall Street, e che quindi si occupa di questioni finanziarie. È all’avvocato che Melville affida il ruolo di narratore, ed è proprio lui a specificare da subito che il suo studio occupa i piani bassi di un palazzo che affaccia su un muro opaco di un altro edificio. Poca luce e poca fama, dunque, in un simile contesto. Infatti il personaggio narrante si presenta:
«Sono uno di quegli avvocati privi di ambizioni […]. Chiunque mi conosca, mi considera persona eminentemente cauta» (B, p. 2).
Cauta e senza ambizioni è la vita dell’avvocato, volta alla sola sopravvivenza. Una scelta che caratterizza anche gli altri personaggi del racconto, in primo luogo, ovviamente, il suo silente protagonista. Gilles Deleuze sottolinea uno dei principali tratti distintivi dello scrivano: «Bartleby si è guadagnato il diritto di sopravvivere, vale a dire di starsene ritto e immobile di fronte a un muro cieco» (Deleuze 1989, p. 15), e apre il suo saggio con un’affermazione che suona come un’avvertenza per l’uso:
Bartleby non è una metafora dello scrittore, né il simbolo di qualsiasi altra cosa. […] non vuole dire che quel che letteralmente dice. E quel che dice e ripete è PREFERIREI DI NO, I would prefer not to. È la formula della sua gloria, e ogni lettore appassionato la ripete a sua volta (ibid., p. 11).
Forse Bartleby è così strano perché nel racconto non c’è l’elemento primario della narrativa di Melville: il mare. C’è, invece, quella strada, Wall Street, destinata a diventare il centro del capitalismo mondiale, e c’è lo scrivano protetto da un paravento verde, ritto immobile dietro la sua scrivania a fissare oltre la finestra il muro di fronte. Un muro che troppo facilmente potrebbe essere eletto a metafora di quello che storicamente ha dato il nome alla strada, con tutta la galassia di significati profetici su un futuro di monopoli finanziari e ideologie iper e neoliberiste che dopo un secolo e mezzo avrebbero gettato il mondo sull’orlo di una crisi di sistema globale. Bartleby, però, non ha la stoffa dell’eroe antiborghese, in fin dei conti tutto ciò che desidera è una dimensione anche solo piccolo borghese, un tetto sulla testa e una manciata di biscotti allo zenzero, ma soprattutto preferirebbe non fare o dire assolutamente nulla. Poche cose sappiamo di lui. Non la sua storia, ma il minimale e claustrofobico scenario narrativo che lo determina: lo studio dell’avvocato. In ogni caso è più semplice dire cosa e chi Bartleby non sia o non rappresenti piuttosto che il contrario.
Proviamo a riassumere la magra vicenda di questa singolare navigazione dello scrittore marinaio Melville, per tentare di capire come abbia finito per arenarsi sulle colline del Berkshire, se abbia seguito una rotta precisa o vagato senza meta per un oceano indistinto. Troppe sono le costellazioni di riferimento attribuite alla sua scrittura e alla sua vicenda umana. Costellazioni che nel racconto dello scialbo scrivano si mescolano, impedendo di fatto ogni tentativo utile a evitare che Bartleby svanisca, mimetizzandosi di nuovo negli infiniti significati a cui il suo «Preferirei di no» inevitabilmente si presta. Meglio rimanere ancorati al racconto e alla sua pur fragile trama. L’avvocato si avvale della collaborazione di due copisti: Turkey, efficiente fino a mezzogiorno, e Nippers, che dà il meglio di sé nel pomeriggio. Così i due si completano, assicurando il funzionamento giornaliero dello studio. Infine c’è il fattorino, Ginger Nut, dodici anni, il cui compito essenziale sembra quello di assicurare a sé stesso e agli altri il costante rifornimento di biscotti allo zenzero. Dunque né l’avvocato né i suoi collaboratori hanno un vero nome. Turkey significa tacchino, Nippers chele, e il nomignolo del fattorino è ispirato ai biscotti allo zenzero. Quasi che nessuno di loro meritasse un vero nome, che nella loro vita non avesse importanza come si chiamano, ma come il loro umbratile microcosmo letterario li ha battezzati. Del resto sono semplici comprimari. Forse sono loro i fantasmi evocati da Bartleby, unico autentico protagonista visibile in un mondo che potrebbe già essere scomparso, tanto lontani e deboli sono gli echi che di esso arrivano nel racconto. A un certo punto serve un altro copista. Ed ecco l’incolore Bartleby, che comincia a lavorare in modo sod disfacente, ma a un certo punto decide di preferire di non lavorare più. E non lo farà. A qualsiasi domanda in merito risponderà sempre e comunque: «Preferirei di no».
L’avvocato confessa di non poter licenziare il collaboratore ammutinato a causa di «una sorta di superstiziosa paura» (B, p. 26). Confuso ed esasperato, penserà addirittura di portarselo a casa. Inutilmente: Bartleby preferirebbe e preferisce restare in quella che ormai considera la sua vera casa. Allora all’avvocato non resta che scivolare a sua volta nell’assurdo e traslocare lui, insieme a tutto lo studio, ma lo scrivano continua a bivaccare negli spazi condominiali, fino a quando verrà arrestato a causa del suo singolare vagabondaggio. L’avvocato va a trovarlo in carcere per assicurargli un buon vitto e un trattamento di favore. Ma Bartleby preferisce di no. Morirà di inedia, liberando autore, lettore e sé stesso dalla sua sbiadita esistenza.
Un’esistenza letteraria grigia, la stessa tonalità che critica e pubblico avevano riservato a Melville, che alla sua morte era quasi completamente di menticato, anche se altri suoi romanzi erano stati ristampati. Sarebbe poco utile smarrirsi nel gioco della specularità fra Melville e Bartleby, autore e personaggio: si correrebbe il rischio di ritrovarsi in uno di quei labirinti degli specchi da luna park dove ogni immagine rimanda a mille altre. Meglio concentrarsi su Bartleby e continuare a considerarlo un personaggio superstite, un solitario sopravvissuto a chissà quale naufragio. Bartle by agisce poco e parla ancora meno, è come se fosse venuto al mondo già adulto in quella realtà residuale di uno studio legale anonimo quanto lui.
Melville, mentre già scriveva Moby Dick,in una lettera a Hawthorne era ben consapevole che la sua scrittura lo avrebbe portato ad altre sofferenze e a una disistima verso sé stesso:
Quello che più mi sento portato a scrivere è proscritto – non rende. Però, tutto sommato, scrivere nell’altro modo non ci riesco. Così il risultato è un pasticcio, e tutti i miei libri sono abborracciati (Celati 2012b, p. 60).
Non resta che cercare di consolarsi con l’amara considerazione che «il fallimento è la vera prova di grandezza» (ibid., p. 58).
Nel racconto ci sono indubbiamente tensioni filosofiche. Per Giorgio Agamben Bartleby appartiene a «una costellazione letteraria» di personaggi quali Bouvard e Pécuchet o il principe Myškin, «ma vi è anche una costellazione filosofica di Bartleby, ed è possibile che soltanto questa contenga la cifra della figura che l’altra si limita a tracciare» (Agamben 2012, p. 49). È presente anche una palese critica alla società americana così come si andava strutturando a metà del XIX secolo, e non manca una certa osmosi fra il naufragio delle fortune letterarie di Melville e quello esistenziale di Bartleby; tuttavia questo non basta a superare le complessità di lettura del personaggio. Complessità che iniziano proprio da quella formula, «I would prefer not to», che a sua volta, nonostante l’apparente semplicità, rappresenta un ennesimo enigma. Celati, ad esempio, sceglie di tradurla con «Avrei preferenza di no». Anche Deleuze analizza le sue singole varianti, fino ad affermare che ha «dieci occorrenze principali e in ognuna può apparire più volte, ripetuta o variata» (Deleuze 2012, p. 13).
È evidente che Bartleby non risponderà, a chi tenta di svelarlo, se non con la pallida affermazione che riporta sempre l’interlocutore al punto di partenza. Meglio trovare un diverso cominciamento, che non provi neppure a decifrare Bartleby con gli strumenti di un efficace apparato di lettura critico e nemmeno con arditi salti intuitivi. Giacomo Debenedetti ci aiuta a comprendere in cosa consista porsi di fronte a un testo letterario con la voglia di capirlo, senza tuttavia piegarlo alla necessità di dimostrare una tesi più o meno probabile:
io credo che il lavoro del critico somigli, in piccolo e in maniera tutta laica e profana, alla lotta notturna di Giacobbe. Per tutto il durare delle tenebre, Giacobbe combatte con un avversario che crede un uomo […]. Ma, al tornare della luce, Giacobbe si accorge che l’altro era un angelo. Nel nostro caso il critico scorge, riconosce, intero e integro, e ancora più splendente il poeta. Quella poesia che egli aveva ferita con i suoi colpi, straziata con le proprie analisi, si ricompone nella sua più vera ed efficace figura (Debenedetti 1963, pp. 62-3).
Confrontandosi con il personaggio Bartleby, bisogna fare i conti con la sua scelta di essere sostanzialmente irragionevole. È lui stesso ad ammetterlo. Quando l’avvocato cerca di convincerlo a riprendere il lavoro, a essere almeno un po’ ragionevole, Bartleby, abdicando al suo mantra, cosa che nel racconto avviene pochissime volte, risponde candidamente che preferirebbe non essere ragionevole, nemmeno un po’. Per nostra fortuna, però, Debenedetti ci ha anche insegnato a leggere la letteratura attraverso le vicende dei personaggi, per quanto impenetrabili possano apparire. Il suo ultimo, più difficile e magistrale sagg...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Premessa
  6. Ringraziamenti
  7. Il borghese fa il mondo
  8. Prologo. Homais, o dell’inizio. di Marco Viscardi
  9. Primo movimento. Il borghese
  10. Secondo movimento. Il borghese fa
  11. Iconografia. Borghesia disambientata
  12. Terzo movimento. Il borghese fa il mondo
  13. Epilogo. Homer, o della fine. di Francesco de Cristofaro
  14. Bibliografia
  15. Gli autori