Territorio, bene comune degli italiani
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Territorio, bene comune degli italiani

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Territorio, bene comune degli italiani

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Passione civile e competenza giuridica si fondono in questo densissimo contributo alla riflessione sui beni comuni. Con rigore e lucidità, non perdendo mai di vista l'obiettivo di dare al suo lavoro massima concretezza, Paolo Maddalena, uno dei più importanti giuristi italiani, pone il problema nel quadro sconcertante dell'attuale crisi, mettendo in luce come crisi ambientale e crisi finanziaria abbiano una causa comune: la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. Come già diceva Roosevelt in una relazione al Congresso degli Stati Uniti nel 1938: «la libertà di una democrazia non è salda se il popolo tollera la crescita di un potere privato al punto che esso diventa più forte dello stesso Stato democratico». Di qui l'importanza di distinguere la proprietà comune o collettiva, che ha il suo fondamento nella «sovranità», dalla proprietà privata, che ha il suo fondamento nella «legge», ristabilendo un equilibrio che negli ultimi decenni di storia italiana è stato tutto sbilanciato a favore della proprietà privata. L'autore rileva con forza la precedenza storica della proprietà collettiva del territorio sulla proprietà privata e la prevalenza giuridica della prima sulla seconda, sancita dalla stessa Costituzione. Si tratta di due dati che consentono un capovolgimento della tradizionale concezione borghese, rafforzata dal pensiero unico dominante del neoliberismo economico, secondo cui l'interesse pubblico costituisce un limite alla proprietà privata, là dove è la cessione a privati di parti del territorio, oggetto di proprietà collettiva, che limita la proprietà collettiva medesima. Una tale inversione di prospettiva è, secondo l'autore, imprescindibile se si mette in atto una lettura non preconcetta della Costituzione rispetto al tema della funzione sociale della proprietà, dei limiti all'iniziativa economica privata e dell'intervento pubblico nell'economia. «Pochi intendono – sottolinea Salvatore Settis nella sua Introduzione – che solo il rigoroso fondamento sul disegno di società voluto dalla Costituzione e il puntuale radicarsi nel nostro ordinamento possono far uscire le tematiche dei beni comuni dal limbo dell'utopia, e farne invece il manifesto di una politica dei cittadini non solo auspicabile, ma possibile». Un pamphlet appassionante e appassionato che aiuta a riflettere su come custodire, preservare e ricostituire quello che dovrebbe essere per ogni cittadino uno dei beni più preziosi: il mondo in cui viviamo.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788868432652

Parte prima
Lo squilibrio ambientale

1. La legge universale dell’equilibrio. Lo squilibrio ambientale e quello economico-finanziario. Le nostre risorse: il territorio e il pensiero creativo.
Civitanova Marche, 5 aprile 2013. Due anziani coniugi, muratore «esodato» di 68 anni l’uno, e pensionata di 62 anni, con 500 euro mensili, lei, si sono impiccati, considerata l’impossibilità di pagare i loro debiti, per l’affitto di casa e per le varie bollette. L’anziano fratello di lei, di 72 anni, visto l’accaduto, si è tolto anch’egli la vita gettandosi in mare dal molo del porto. Una tragedia (e non sappiamo quante altre se ne aggiungeranno fino alla pubblicazione di questo libro) che si somma a moltissime altre (finora se ne sono contate trentanove) e che non può lasciare indifferenti gli italiani. Cosa è successo? Chi è la causa di questo disastro senza fine? È ora di capire qual è la situazione reale e correre ai ripari. Non è possibile che un popolo, un governo e un Parlamento non si preoccupino di questo fondamentale problema.
Quello che constatiamo è che non viviamo più in una situazione normale: è sotto gli occhi di tutti che la «legge universale dell’equilibrio», che è a fondamento della vita dell’uomo e del pianeta, è stata gravemente infranta. Viviamo, in realtà, in presenza di due grandi «squilibri»: quello ambientale e quello economico-finanziario.
Il primo squilibrio riguarda le «forze rigenerative» della Terra. Gli scienziati di tutto il mondo sono stati concordi nell’affermare che dal 2 agosto 2012 la Terra non è più in grado di fornire l’ossigeno, l’acqua e il cibo necessari per sette miliardi di abitanti. E ciò è dipeso da una moltitudine di fattori. Immensi territori sono stati devastati, deforestizzati e cementificati1; aria, acque e suolo sono stati inquinati oltre ogni limite sostenibile; gli equilibri ecologici, e specie l’equilibrio idrogeologico d’Italia, sono saltati; il buco nella coltre di ozono che circonda la Terra, e che non è ricostituibile, ha assunto dimensioni impressionanti, provocando danni irreparabili per l’uomo, per gli animali e per la vegetazione; il cambiamento climatico ha sconvolto i cicli stagionali, ha aumentato a dismisura la frequenza degli uragani, ha innalzato il livello del mare, ha distrutto gli immensi ghiacciai polari e quelli delle più alte montagne, ha arrecato danni incalcolabili alla vita del pianeta. In conclusione, le «forze rigenerative della Natura» sono state sopraffatte «dall’incoscienza dell’uomo», sostenuta da una dominante «concezione neoliberista» che trasforma i desideri in bisogni e questi in diritti, al di fuori di qualsiasi principio di giustizia e di equità. L’avidità individuale ha spinto all’accaparramento dei beni, alla sopraffazione dei deboli, alla diseguaglianza, alla miseria generalizzata.
Il secondo grande squilibrio a livello globale riguarda l’economia reale. Oggi si calcola che il potere economico-finanziario privato supera di diciotto volte il Pil di tutti gli Stati del mondo. Se è vero che il danaro ha una forza impetuosa capace di rompere tutti gli argini, si capisce bene in quale condizione di subordinazione ai cosiddetti poteri for ti si trovino oggi gli Stati e i popoli. In sostanza, l’economia è stata «finanziarizzata», poiché le più grandi banche, la cui funzione originaria era quella di raccogliere i risparmi e concedere credito alle imprese a fini produttivi, hanno preferito, invece, investire in titoli di credito, per lucrare gli interessi. In pratica è invalso il sistema di acquistare debiti con debiti, sottraendo liquidità, immobilizzando capitali e producendo, non più sviluppo, ma recessione, disoccupazione, disperazione e morte.
Causa di questi squilibri, nessuno lo potrebbe negare, è l’accentramento della ricchezza nelle mani di pochi speculatori ambientali e finanziari. La cupidigia umana, sorretta da una erronea interpretazione del diritto di proprietà privata e dall’oblio della «proprietà collettiva di tutti», che quella precede, ha provocato, negli ultimi quaranta o cinquant’anni, un progressivo impoverimento di molti e un altrettanto progressivo arricchimento di pochi. C’è un continuo travaso di ricchezza da molti a pochi. Si calcola che il 10 per cento della popolazione mondiale possiede il 50 per cento della ricchezza totale, mentre l’altro 50 per cento delle risorse deve servire a sostenere il 90 per cento dell’intera popolazione del globo. Dopo che le teorie neoliberiste hanno preso il sopravvento, invadendo l’immaginario collettivo, la parola d’ordine è «privatizzare», cioè dare a privati beni e servizi pubblici nell’erroneo convincimento che lo speculatore privato, che certamente mira al suo tornaconto individuale, possa meglio servire all’interesse pubblico. Una vera follia!
Il dramma che viviamo lo aveva ben previsto Roosevelt, il quale, in un suo discorso al Congresso del 29 aprile 1938, affermò: «Eventi infelici accaduti in altri paesi ci hanno insegnato da capo due semplici verità in merito alla libertà di un popolo democratico. La prima verità è che la libertà di una democrazia non è salda se il popolo tollera la crescita di un potere privato al punto che esso diventa più forte dello stesso Stato democratico […]. La seconda verità è che la libertà di una democrazia non è salda se il suo sistema economico non fornisce occupazione e non produce e distribuisce beni in modo tale da sostenere un modello di vita accettabile»2.
Questo problema, come molto acutamente osserva Massimo Luciani, ha origini antichissime ed era già stato posto in risalto «da Platone, che aveva collegato la limitazione degli eccessi di ricchezza e la solidità del vincolo politico tra i cittadini, mentre Aristotele aveva precisato che è più la ricchezza dei governanti che il loro numero a segnare il confine tra oligarchia e democrazia»3.
E, al riguardo, non si possono non citare le seguenti illuminanti parole di papa Francesco, pronunciate il 16 maggio 2013 in occasione della presentazione delle lettere credenziali di alcuni ambasciatori4: «La crisi finanziaria che stiamo attraversando ci fa dimenticare la sua prima origine, situata in una profonda crisi antropologica. Nella negazione del primato dell’uomo! Abbiamo creato nuovi idoli. L’adorazione dell’antico vitello d’oro (cfr. Es. 32,15-34) ha trovato una nuova e spietata immagine nel feticismo del danaro e nella dittatura dell’economia senza volto né scopo realmente umano […]. Mentre il reddito di una minoranza cresce in maniera esponenziale, quello della maggioranza si indebolisce. Questo squilibrio deriva da ideologie che promuovono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazio ne finanziaria, negando così il diritto di controllo agli Stati pur incaricati di provvedere al bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone unilateralmente e senza rimedio possibile le sue leggi e le sue regole. Inoltre, l’indebitamento ed il credito allontanano i Paesi dalla loro economia reale ed i cittadini dal loro potere d’acquisto reale. A ciò si aggiungono, oltretutto, una corruzione tentacolare e un’evasione fiscale egoista che hanno assunto dimensioni mondiali. La volontà di potenza e di possesso è diventata senza limiti».
L’accentramento della ricchezza nelle mani degli speculatori, dunque, è un fatto da evitare. D’altro canto è ben noto che motore dello sviluppo economico non è affatto l’accentramento, ma la redistribuzione della ricchezza, la quale consente la continuità della domanda, che sollecita l’offerta, la quale, a sua volta, produce beni reali e sicuro assorbimento delle forze lavorative esistenti. Lo pone bene in luce la nostra Costituzione, che, all’art. 41 del Titolo III della Parte prima, subordina «l’iniziativa economica privata» «alla utilità sociale, alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana», mentre, al seguente art. 42 dispone che «la legge riconosce e garantisce la proprietà privata per la sua funzione sociale», precisando ancora negli articoli successivi lo sfavore per il latifondo e per le altre forme di accentramento della ricchezza e, al contrario, il favore per la piccola e media proprietà, costituita dalle unità produttive, dalla prima abitazione, dalla proprietà coltivatrice diretta. Il prevalere delle teorie thatcheriane e reaganiane ha messo in oblio questi principi costituzionali, e al loro posto ha preso piede un convincimento fideistico nella «libertà dei mercati», i quali si autoregolerebbero, apportando benessere per tutti5.
Dal punto di vista costituzionale, questo problema è stato individuato ed esposto con estrema e inoppugnabile chiarezza da Gustavo Zagrebelsky6, il quale in un suo recente scritto ha posto in evidenza che la parte più forte, il nerbo, della nostra Costituzione si rinviene nella nota enunciazione dell’art. 1, «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Il lavoro è un concetto unificante ed è un concetto che elimina l’antica separazione tra ricchi e poveri. Tutti sono posti sullo stesso piano, tutti devono essere lavoratori. Questa unificazione dei cittadini in una comunità di lavoratori elimina la lotta di classe, impone a tutti di agire per il bene comune. I proprietari privati, cioè i ricchi, non possono essere dei parassiti che vivono sulle spalle degli altri. Anch’essi devono impegnarsi, affinché la loro proprietà persegua la sua «funzione sociale», sia di utilità, non solo per i possidenti, ma anche per tutti i lavoratori. E si tenga presente, comunque, che nella Costituzione non c’è posto per i fannulloni; infatti, soltanto coloro che sono «inabili al lavoro» (art. 38) hanno diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. Tutte le persone abili hanno il dovere e il diritto di lavorare.
Oggi, prosegue Zagrebelsky, si è tornati a una nuova «separazione»: «da una parte coloro che operano nella finanza fine a se stessa, a-sociale, a-territoriale e a-temporale; dall’altra, coloro che operano nell’economia reale e, quindi, avvertono un loro legame terrigno e una speciale responsabilità nei confronti della società di cui sono parti. Questi secondi sono fattori di vita sociale; i primi sono totalmente disinteressati a esserlo. La nuova divisione tende a ricomporre quella che è stata la frattura primaria del tempo passato, la frattura tra proprietà e lavoro, offrendo loro le ragioni di una alleanza strategica: gli interessi unitari dell’impresa incorporano, infatti, quelli pur legittimi, delle parti»7.
È stato, inoltre, autorevolmente notato che l’idea neoliberista della «mercificazione» si è impossessata delle menti di tutti. Giustamente, Salvatore Settis osserva che «il dominio dei mercati sulla società e sulla politica ha innescato l’ossessiva rincorsa a “prezzare” ogni cosa, quello che Keynes chiamava “l’incubo del contabile”. Non ci basta ammirare le Dolomiti o l’Etna, vogliamo sapere quanto valgono in moneta e quanto producono. Ai musei, alle cattedrali, alle città, alle foreste, alla forza lavoro di una fabbrica, alle spiagge, ai bambini di una scuola, agli ospedali, alle specie animali appendiamo diligenti cartellini del prezzo: così, infatti, a quel che pare, si calcola il rapporto costi-benefici; o, per dirla più chiaramente, così si tien pronto l’invincibile argomento per chiudere o privatizzare ospedali, scuole e musei, per licenziare operai, vendere palazzi, cartolarizzare montagne, cementificare litorali, devastare l’ambiente, consegnare ai palazzinari i centri storici»8.
Gli fa eco Tomaso Montanari, chiedendosi «quale oscura decadenza intellettuale spinga a cercare di costruire il proprio futuro cannibalizzando le reliquie (letteralmente “ciò che resta”) di un glorioso passato»9. Ed è appena il caso di ricordare che questi contabili del mercato «non assegnano costo alle risorse naturali, non segnano tra le perdite i suoli agricoli divenuti improduttivi, la distruzione di specie animali e vegetali, le campagne ed i mari invasi da rifiuti tossici, l’inquinamento dell’aria e delle acque, i danni irreversibili alla salute dei lavoratori, che ne riducono la produttività e la durata della vita, ed omettono di considerare come valore distrutto, le risorse»10.
Inoltre, le teorie neoliberiste, generalmente professate dalla maggior parte degli economisti, hanno diffuso nell’immaginario collettivo il convincimento che l’attuale crisi finanziaria sia «un’entità imperscrutabile», invisibile e onnipotente, rispetto alla quale non c’è altro da fare che aspettare che vada via, come in genere si spera quando il cielo è pieno di nubi e i temporali si susseguono l’uno all’altro. E in questo stato soporifico sono la maggioranza degli italiani, che appaiono storditi, spaesati, disgustati dalla politica, e, questa è la cosa più grave, quasi sempre inconsapevoli rispetto alle cause reali del male che li attanaglia.
Lo stato psicologico che si vive è l’indifferenza, l’apatia, l’astensione dalla vita politica.
Diceva Gramsci: «L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti […] sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare, mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrificio, e colui che sta alla finestra, in agguato, usufruisce del poco bene che l’attività di pochi procura e sfoga la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato, perché non è riuscito nel suo intento. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti»11.
È arrivato il momento di indignarsi, come diceva Stephane Hessel12, ma è anche arrivato il momento di agire, di agire in modo intelligente, colpendo alle radici il fenomeno, colpendo le idee che sono la causa diretta e immediata di questa immane tragedia. È sul piano del confronto delle idee che bisogna stanare il nemico, renderlo visibile, impedirgli di massacrare per la sua cupidigia interi territori e intere popolazioni, i nostri beni, la nostra vita.
E categorico appare, ancora una volta, l’invito di papa Francesco, rivolto ai duecentomila fedeli raccolti in piazza San Pietro, il 18 maggio 2013: «la vera crisi è la gente che muore di fame, ma di questo non passa niente; ma se calano gli investimenti delle banche si fa un...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Dedica
  6. Introduzione di Salvatore Settis
  7. Parte prima Lo squilibrio ambientale
  8. Parte seconda Lo squilibrio economico-finanziario