Mezzogiorno tra identità e storia
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Mezzogiorno tra identità e storia

Catastrofi, retoriche, luoghi comuni

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Mezzogiorno tra identità e storia

Catastrofi, retoriche, luoghi comuni

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«Come suole dirsi della disgrazia per un individuo, così della catastrofe per una comunità: è allora che se ne disvela la vera tempra umana. Questo adagio sembra trovare ampio riscontro con lo spaventoso terremoto che ha colpito L'Aquila nel 2009. È quanto di solito accade di fronte a ogni sventura, che si tratti di scuotimenti tellurici o di guerre. Ma non si era mai assistito, nel sistema mediatico su scala globale, a un'esplosione così enfatica e insistita di stereotipi identitari».È di fronte a catastrofi come la guerra e i terremoti che massimamente esplodono le retoriche identitarie. L'Abruzzo e il Molise, con le loro peculiarità storiche, ne forniscono lo scenario più spettacolare e rappresentativo. Soprattutto con il sisma aquilano del l'aprile 2009 la loro notorietà si proietta su scala globale. Ma con quale immagine? Quali le trame narrative – il discorso pubblico – che vi hanno intessuto sopra il potere politico e il sistema mediatico? Non si era mai assistito, né qui né altrove, a un'enfatizzazione così insistita di certi stereotipi: non solo lo stucchevole «Abruzzo forte e gentile», ma anche il «pastore» dannunziano e il «cafone» di Silone e Jovine. Nel corso dei secoli una natura particolarmente aspra e ostile ha indotto queste regioni, come il Sud Italia in genere, a declinare la loro storia in base ai difficili processi d'interazione tra uomo e ambiente, nel quadro complessivo dei mutamenti che nel tempo hanno investito la penisola italiana e il Mediterraneo nel suo insieme. Ma in che misura l'imponente geografia dei luoghi e le dinamiche economico-sociali che ne sono derivate hanno forgiato il carattere degli abitanti, condizionandone scelte e comportamenti? Se ne possono desumere specifiche identità? L'autore ripercorre criticamente le principali tappe del lungo e tormentato dibattito intorno a un nodo cruciale: i presunti tratti identitari di una comunità quale retaggio dei quadri ambientali e delle sedimentazioni culturali. E lo fa con un approccio interdisciplinare che, evidenziando la complessità e le insidie di proiezioni idealtipiche maturate per lo più sui terreni della letteratura e del folklore, mette a nudo banalizzazioni e luoghi comuni, in un confronto serrato con le vicissitudini non sempre esaltanti della storiografia contemporanea.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788868437404
Argomento
Storia

III. Geografia, storia, scienze sociali

1. Natura e caratteri: ancora Silone e Pomilio.
Gli stereotipi identitari di matrice antropologica e letteraria sui quali ci siamo soffermati potrebbero contenere anch’essi, come ogni luogo comune, elementi di verità. In Abruzzo e Molise, del resto, la loro potenza evocativa rimanda a un’oggettiva materialità geografica i cui risvolti storici sono difficilmente eludibili. È raro trovare altre regioni – in ambito mediterraneo – che si presentino caratterizzate da emergenze montuose di tanta pervasività e da conseguenti processi d’interazione tra uomo e ambiente altrettanto profondi e intensi. Una così imponente datità fisica, preservatasi per la gran parte incontaminata, magari a tratti ostile e catastrofica, ma anche solenne e magica1, spesso intrisa di spiritualità, come testimoniano i tanti eremi rupestri, non poteva non influire sulla complessiva evoluzione degli abitanti: con riferimento alle fisionomie tanto dell’insediamento urbano che dell’organizzazione produttiva e mercantile, come pure, più in generale, riguardo ai modi di vivere e di sentire. Senz’altro si tratta di una storia – quella abruzzese-molisana – che in grandissima misura è andata declinandosi proprio intorno al rapporto tra i meccanismi dello sviluppo, o più spesso della mera sopravvivenza, innescati dall’azione umana da una parte, e gli equilibri basilari della natura dall’altra, nel quadro dei mutamenti che nel tempo hanno investito l’intera penisola italiana.
Ma se può riuscire abbastanza agevole cogliere gli effetti che i quadri ambientali hanno prodotto sulle dinamiche economico-sociali, ben più complicata, oltre che densa di insidie, è invece la domanda se essi abbiano potuto forgiare, ed eventualmente in che misura, anche il carattere di comunità e individui. Volendo, anche nella proiezione idealtipica di presunte peculiarità temperamentali su base geografica si potrebbero trovare appigli di attendibilità. Non c’è dubbio, ad esempio, che il dover fronteggiare le durissime difficoltà di un contesto naturale normalmente povero e avverso abbia contribuito a plasmare le virtù del montanaro abruzzese e molisano, rendendolo laborioso, forte, tenace. Le incertezze del futuro, soprattutto nel passato, costringevano alla frugalità e alla saggezza nell’amministrazione dei quei pochi beni di cui si disponeva. Per superare indenni il rigore dei lunghi e freddissimi inverni, come pure i rischi del clima estivo (siccità, grandine ecc.), bisognava essere accorti e previdenti. I condizionamenti del contesto geografico finivano in tal modo col disegnare abiti mentali e tratti caratteriali: in fondo quel senso di austerità e parsimonia che Elena Croce, come accennato, intravedeva nel padre quale retaggio della sua terra d’origine. Lo stesso terremoto (del resto anche Croce, con quello di Casamicciola nel 1883, ne era rimasto profondamente segnato), come le distruzioni belliche, può diventare protagonista d’identità, se non altro per le irrimediabili deturpazioni che esso produce sulla configurazione architettonica e paesaggistica di città e villaggi, da cui in certa misura pure dipende la psicologia delle persone.
Ma da qui, da queste banali constatazioni, passare poi a fissare nessi causali ce ne corre. Eppure, specie sul versante letterario, possono incontrarsi posizioni che sembrano condurre proprio su questa strada. L’insistenza sul peso della geografia talvolta si spinge talmente avanti da farne motore della storia: la geografia diventa principale artefice del divenire umano. Dalla sua fatale ineluttabilità si fanno automaticamente discendere non soltanto le forme dell’economia e le «confinazioni» statuali, non soltanto le forme dell’urbanesimo e della più generale antropizzazione territoriale, ma anche le identità collettive e individuali. L’excursus storico-letterario del precedente capitolo ci ha già consentito d’imbatterci in casi eclatanti – da ultimo John Fante – di questo privilegiamento della natura circostante nel tratteggiare taluni personaggi.
In età contemporanea a sviluppare con maggiore autorevolezza e forza espressiva il discorso in tale direzione, con riferimento all’Abruzzo, è sicuramente Ignazio Silone. Nel riassumere i comportamenti degli abitanti del suo paesetto nativo, Pescina, di fronte alle ingiustizie della vita e alle avversità della natura, in Uscita di sicurezza scrive: «Non era gente vile o fiacca. La rigidità del clima, la pesantezza del lavoro, la sobrietà del tenore di vita l’avevano resa assai tenace e dura. Ma pesavano su di essa secoli di rassegnazione, fondati sulla violenza e gl’inganni. L’esperienza giustificava il più nero pessimismo»2. Qui lo scrittore marsicano mantiene ferma, come si vede, la duplice influenza di geografia e storia, con un’impostazione quasi annalistica, nella formazione di un certo carattere. Né meno significativo – nel mettere in conto il peso della tradizione – è quanto egli ricorda dei suoi compaesani di fronte al terremoto del 1915 (abbiamo visto richiamarlo dalla stampa in occasione di quello recente aquilano):
Quel che mi sorprese fu di osservare con quanta naturalezza i paesani accettassero la tremenda catastrofe. In una contrada come la nostra, in cui tante ingiustizie rimanevano impunite, la frequenza dei terremoti appariva un fatto talmente plausibile da non richiedere ulteriori spiegazioni. C’era anzi da stupirsi che i terremoti non capitassero più spesso3.
Ma ne L’avventura d’un povero cristiano, osservando l’evoluzione regionale nel più lungo periodo, la bilancia si sposta notevolmente in favore della natura. Ripensando a una serie di vicissitudini cui sono andate incontro le popolazioni sui contrafforti della Maiella (eremitismo, brigantaggio, partigianato), dopo aver cautamente premesso che «sarebbe veramente sciocco, per non dire idolatrico, voler stabilire un nesso tra avvenimenti così disparati, partendo dalla impassibile identità dei luoghi», Silone subito aggiunge che «tuttavia, nella loro diversità ed eterogeneità, essi mettono in luce alcuni tratti costanti dell’indole di questi montanari»: tratti che consisterebbero nella capacità degli abruzzesi – tanto la gente comune dal temperamento semplice e chiuso (talvolta anche rozzo) quanto i non infrequenti «individui bizzarri portati all’utopia religiosa o politica» – di mostrare all’occorrenza «eccezionali prove di generosità e coraggio»4.
Nonostante le sue indagini storiche presentino, come abbiamo visto, un’impostazione prevalentemente sociologica, sembra mostrarsi ammiccante verso questa lettura d’impronta geografica persino il britannico Roger Absalom, allorquando anche lui rileva, sia pure in nota5, come l’area della Maiella dov’è nata l’omonima banda – la Brigata «Maiella» – fosse stata a suo tempo uno straordinario focolaio del brigantaggio postrisorgimentale. È però soprattutto l’amico Silone a insistervi: quando nell’immediato dopoguerra gli si chiede di tracciare un profilo della regione, egli giunge a fare delle montagne «i personaggi più prepotenti della vita abruzzese», con effetti decisivi non soltanto sull’economia e sull’organizzazione sociale, ma anche sulle usanze e sulla mentalità6. Dalla loro particolare conformazione deriverebbe, a suo giudizio, il principale paradosso dell’Abruzzo: quello cioè di appartenere sotto il profilo economico, sociale e culturale all’Italia meridionale, pur essendo geograficamente situato nell’Italia centrale. Terre siffatte, sovrastate da montagne boscose fino a una certa altezza ma poi ripide e brulle, disseminate di anfratti e nascondigli misteriosi, non potevano che generare mistici eremiti, briganti inafferrabili o eroici partigiani.
Sebbene meno deterministico di Silone nel cogliere i nessi tra geografia e storia, un altro scrittore abruzzese, il cattolico Mario Pomilio, pure è molto netto al riguardo: in Abruzzo e Molise – scrive lapidario – «la natura ha condizionato più che altrove la storia»7. È per effetto di questo predominio geografico che l’Abruzzo-Molise rimane senza scampo inchiodato al suo dualismo: non uno ma due, quello montano e quello marittimo. Per quanto l’argomento sia ricorrente, come sappiamo, è difficile leggere parole altrettanto chiare:
A seconda che vi giungiate da Roma oppure da Ancona, l’Abruzzo vi mostrerà due volti affatto diversi: di qua un seguito di colline degradanti in vista del mare e un prevalere del colore lungo tutta la gamma del verde, di là montagne su montagne che fanno groppo all’orizzonte, talora dense di boschi, più spesso nude e grigie. E lo stesso vi accadrà se penetrerete nel Molise dalla parte di Napoli oppure per la litoranea che sale da Foggia. In realtà l’Abruzzo non è affatto una regione unitaria: e come si suol distinguere il Molise dall’Abruzzo vero e proprio, così in passato si soleva dire Abruzzi e non Abruzzo, appunto per contrapporre il marittimo a quello montano.
Tra questi due Abruzzi tutto è differente: «Due distinte geografie, due scenari, due climi e, naturalmente, due diverse connotazioni umane». Ecco dunque che si passa – «naturalmente» – dalla geografia alla storia, anzi dalla geografia all’antropologia, come abbiamo riscontrato in tanti casi. Ma Pomilio si spinge anche oltre: persino la qualità del genio artistico dipende dalla geografia. Lo abbiamo già visto: Cuoco, Spaventa, Croce, Jovine e Silone, per la loro ritrosia e severità di temperamento (costrettivi da un ambiente ruvido e ostile), non potevano che essere nati nell’interno montano; viceversa D’Annunzio e in fondo anche Ovidio, per il loro carattere più aperto e «ridente», non potevano che essere nati nella parte marittima e pianeggiante. E così la dualità geomorfologica diventa non solo dualità antropologica, ma anche dualità artistica e culturale, un po’ come dal lato pittorico tra il dolente universo contadino di Patini e quello oleografico di Michetti.
Per la verità il plurale, Abruzzi, poteva riferirsi storicamente non solo a due, ma a tre (Citra, Ultra I e Ultra II), o anche a quattro, a cinque, ai numerosi Abruzzi, cioè, che davano alla regione – come tanti avevano già rilevato in passato e avrebbe poi ripetuto Guido Piovene8 – un carattere di esasperata «cantonalità» anziché di compagine unitaria. Lo stesso Pomilio, del resto, è tra coloro che massimamente hanno dato voce, peraltro con apprezzabili esiti letterari, a questa molteplicità declinata su tutti i piani, tanto da individuare proprio in essa, come già detto, il tratto maggiormente idenditario dell’Abruzzo e Molise. Resta indubbiamente vero, tuttavia, che a imporsi all’attenzione – fino a diventare comodo schematismo – sono soprattutto due Abruzzi (vale lo stesso per il Molise): quello della montagna, appunto, e quello del versante costiero.
2. Contro il determinismo e il razzismo: Croce e Braudel.
Nella perenne dialettica tra uomo e natura – occorrerebbe però chiedersi – qual è, in ultima istanza, il soggetto risolutore? Nella lotta delle genti d’Abruzzo e Molise con i loro difficili contesti geomorfologici chi diventa alla fine decisivo? Molti travisamenti circa le tipizzazioni identitarie – nel comune sentire come nelle accigliate considerazioni di certa intellighenzia – derivano proprio dalle errate modalità, di metodo come pure di contenuto, con cui di solito si affronta questo nodo cruciale. Se si eleva la natura, o ancora peggio la «stirpe», ad attore principale del divenire storico diventa facile scivolare in surrettizie forme di determinismo geografico (o persino razziale). Non è un caso che proprio su questo infido terreno il dibattito storiografico, ai suoi più alti livelli, abbia dovuto più volte soffermarsi per fare chiarezza. Per quanto possa apparire sorprendente, data la loro radicale diversità d’impostazione dottrinale e metodologica, a convergere in proposito su posizioni nitide e robuste (forse definitive) sono due tra le massime autorità della storiografia contemporanea: Benedetto Croce e Fernand Braudel.
Le pagine in cui Croce maggiormente ribadisce la propria contrapposizione al determinismo geografico di stampo positivista sono le «Considerazioni finali» che chiudono la Storia del Regno di Napoli (a parte l’appendice dei «due paeselli d’Abruzzo», Pescasseroli e Montenerodomo). Il bersaglio polemico è Giustino Fortunato. Al grande meridionalista lucano, che allo studio del Sud Italia «ha consacrata intera la sua vita», egli riconosce il merito di avere definitivamente sfatato «una delle maggiori “menzogne convenzionali” che siano mai state accolte e ripetute universalmente nei secoli» (ne erano convinti anche molti esponenti della classe dirigente risorgimentale, compreso Cavour): quella di un Mezzogiorno quale «paradiso abitato da diavoli» (antico proverbio maturato nel XIV secolo in ambienti della mercatura fiorentina che trafficavano con Napoli)9, quale terra, cioè, d’inesauribile feracità e ricchezza, depauperata solo dalla colpevole apatia e ingordigia dei suoi abitanti, impigriti e corrotti proprio dalle piacevolezze del clima e dall’abbondanza di risorse naturali. Fortunato sarebbe però caduto nell’errore opposto, essendo egli giunto al convincimento che le sorti delle regioni meridionali, oltre che dal peso di un negativo retaggio storico, dipendessero fondamentalmente dal loro «destino geografico»10. Croce combatte con fermezza questa «illegittima illazione», o «distorsione», dovuta all’«imperante naturalismo e positivismo»: una illazione che aveva il torto di trasformare «quella ristabilita verità, o quella scoperta di verità» in un «supremo criterio per ispiegare la storia dell’Italia meridionale, che tale fu, o piuttosto storia non fu, ma anarchia e miseria, perché (si dice in compendio) la terra, su cui essa si agitò senza veramente svolgersi, era ed è arida, sterile, ingrata, malarica, irrimediabilmente povera».
In un’epoca in cui tutto si spiegava con le «cause naturali», per cui l’arretratezza del Sud sarebbe stata da ricondurre ai suoi campi sterili e malarici, era forte il rischio, peraltro, di scadere in forme di razzismo, come concretamente sarebbe accaduto non soltanto in ambienti dell’antropologia criminale (persino in frange del socialismo norditaliano), ma – si arriva poi a sostenere11 – con lo stesso Fortunato, il quale, come già detto, faceva derivare il suo giudizio sul ruolo preminente della geografia nella storia meridionale – fino a fargli supporre l’esistenza di «due Italie» – dal sospetto che il grado di sviluppo fisico e morale di un popolo potesse dipendere dalle condizioni di clima e di suolo. È infatti Croce medesimo, sulla scia per la verità di una letteratura antirazzista già significativamente sviluppata (è del 1898, ad esempio, Per la razza maledetta di Colajanni, cui si deve la metafora del Sud quale «palla di piombo» al piede dell’«Italia superiore»), avendo come bersagli non soltanto gli antropologi alla Lombroso e Niceforo ma appunto pure Fortunato, a denunciare sarcastico questo scivolamento – comune a vasti settori dell’«imperante positivismo» – nel pregiudizio razziale, o semplicemente identitario, verso i meridionali:
E quando parve che alla sterilità della terra qualcosa si dovesse aggiungere, ricorsero all’altra causa, non meno naturale: la razza; e all’uopo trassero profitto dalle ricerche dei misuratori di cranî preistorici per desumere […] che la popolazione dell’Italia meridionale è della stessa razza di quella dell’Africa settentrionale, e irriducibilmente incapace d’incivilimento.
Senso e significato della storia, al contrario, non stanno nei fattori geografici, e neppure nei luoghi dome...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Mezzogiorno tra identità e storia
  6. Prologo. Le questioni
  7. I. Catastrofi e retoriche identitarie
  8. II. Gli specchi deformanti: miti e stereotipi
  9. III. Geografia, storia, scienze sociali
  10. IV. I confini, la cultura, le istituzioni
  11. V. Tra mercati e contesto: le dinamiche di lungo periodo
  12. Epilogo. Le identità costruite