Sinistra, e poi
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Sinistra, e poi

Come uscire dal nostro scontento

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Sinistra, e poi

Come uscire dal nostro scontento

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«Tutto sta a decidere dove piazzarsi. Se nell'inverno dell'amarezza o in una stagione altra. Io scelgo l'altra».Quando avanza la destra, alla sinistra unirsi conviene. Quando avanza una destra aggressiva e illiberale l'unità dei progressisti si fa imperativo politico e morale. Purtroppo non sembra questa la rotta della sinistra italiana di adesso. Un lungo inverno alle spalle, la divisione consumata nel Partito democratico, tra qualche mese la sfida del voto. Il tutto dopo la crisi peggiore della storia recente, un sommovimento che ha scosso certezze, in economia e non solo: un «marziano» alla Casa Bianca, parabole inedite come con l'Eliseo a Macron o gli xenofobi al Bundestag; il nodo migranti a fare da discrimine tra destra e sinistra e nella sinistra stessa. Come uscire dalla trappola e restituire identità a quel campo di persone, partiti, movimenti sempre più apolidi e però ostinati a cercare una strada comune? Una via è scomunicarsi a vicenda, ma perdendo tutti. L'alternativa è tornare a pensare, leggere il mondo, nominare alcune idee radicali per immaginare il dopo. Magari così lo scontento potrebbe di nuovo far posto a qualcosa che somigli alla speranza.

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Informazioni

I raggi di questo sole

«I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo». Questo è Marx: XI tesi su Feuerbach, 1845. La traduzione è autorevole1. Come aforisma del marxismo è stato parecchio sfruttato forse perché riassume al meglio il battesimo di una filosofia della prassi. Nel senso di una politica generata per incidere, modificare, capovolgere il reale. Sarà pure l’abc, ma ricordarlo aiuta.
Le culture storiche della sinistra lo sanno di loro. Sono sorte con movimenti di popolo e poi partiti pensati come strumenti di emancipazione dal bisogno. Banalmente con la filosofia hanno scardinato il sovrapporsi di povertà e colpa mentre la prassi ha segnato il percorso del riscatto. Basterebbe questo a dire quanto ci siamo allontanati da lì.
Dovremmo almeno risalire alla fonte: partiti, movimenti, forze programmate nelle fogge più diverse non possono ridursi a collettori di consenso. Un partito non è una palestra per candidati, l’apprendistato di operatori di mercato. Un partito è la sua cultura, da che parte sta e in questo riflette una trama giustificata dagli eventi. Nasce vive scompare per logiche impossibili da pressare nel breve. Il respiro corto – sia di un capo, un tema, una stagione – non è conciliabile col radicamento. Quella è un’altra cosa. Talvolta degna, più spesso provvisoria. Ma un’altra cosa.
La sinistra da un punto della vicenda non ha più vissuto l’angoscia di come mutarlo il mondo. Si è afflosciata sulla documentazione e da lì è ripartita concentrando lo sguardo e la meta sull’esercizio del potere. Le conseguenze sono state diverse, due però ci investono da vicino. Quando quel potere diventa fine, giocoforza si degrada il compromesso per conseguirlo e più ancora per conservarlo. Si assiste così alla conversione della prassi da riscatto a gestione. L’altra è una resa alle immagini difettose del mondo, la subalternità accennata in principio.
La sintesi racchiude il problema per noi. Una sinistra custodita per intero nelle istituzioni e deformata dal principio del comando si è via via divelta dal terreno sociale dove si era impiantata. Cos’è stato questo, deviazione, patologia? Uno scarto imposto dal tempo o l’obbligo a una natura divenuta incompatibile con la tenuta di un blocco riconoscibile della società? Non per forza quello di prima, comunque un arcipelago di riferimento.
Sarebbe ingiusto negare tout court la volontà di aggredire il tema perché vi è stato chi ci ha provato e col tanto di sincerità imposta. In fondo la vecchia critica sul riformismo dall’alto muoveva dalla stessa premessa. Affondava nei limiti dell’ultima stagione in Europa dove la rete progressista ha detenuto le chiavi, anche se non è bastato. La domanda è perché. Cosa è mancato in quel passaggio, prima della Grande crisi, per evitare lo scempio a seguire? È stato l’aver messo in archivio filosofia e prassi, la diaspora degli affluenti, la rotta dell’eredità ricevuta in dote dalla sinistra storica?
Fino a quando non daremo risposta a questo interrogativo ci limiteremo a supplire al vuoto di senso con decaloghi formidabili di impegni prossimi venturi. Ma resteremo orfani dell’identità senza generare alcunché.
*
Alla fine l’intermezzo mascherava un pretesto diverso. Capire la miscredenza destinata a noi. Qual è, se dev’esserci, la nostra eresia?
Da tempo, troppo tempo, discutiamo il merito, ma il centro di tutto non può ridursi alle alleanze, deve essere ciò che saremo. Il primo aspetto traguarda il prossimo voto, l’altro un orizzonte di anni, forse più. È la distanza tra parcheggiare e partire, la tattica e l’abito cucito addosso.
Addolcire il quadro non aiuta. Dieci anni fa – stessa data della Grande crisi – nasceva il Partito democratico2. Forse mai progetto tanto ambizioso si è dato fondamenta meno scavate. È bastata una Carta dei valori. Un bel discorso al Lingotto3. Molta retorica sul ritardo del passo e attese giganti per il dopo. A destra si rispose resettando il sistema in un’ebbrezza bipolare, senza escludere da lì a breve due partiti pigliatutto, uno ciascuno. Il terzo incomodo ancora si attrezzava nei teatri a pagamento. Nessuno avrebbe scommesso un soldo sulla scena di adesso.
Il partito del secolo nasceva sull’onda di più debolezze. La sinistra di matrice comunista confinata al venti per cento. Una formazione democristiana dal consenso assai misurato. Assieme a loro, eredi e orfani dell’Ulivo più ceppi sparsi, il residuo dignitoso del socialismo dopo la valanga, filiere ambientaliste e dei diritti, il civismo di matrice azionista. Futile ripeterlo ma sommare fragilità non crea una forza. Non accade di solito e non accadde allora. Dunque il progetto mancò della spinta essenziale per un traguardo storico. A quel punto l’andamento si adattò alla cronaca. La massima fretta di battezzarsi alle urne, sfida maggioritaria rinominata vocazione, primarie come status.
Se dieci anni più tardi quel partito si slabbra, non ha molto senso imputarlo al rettilineo finale dove responsabilità evidenti ci sono, al punto che da tre anni non si parla d’altro. Basti riconoscerle quelle colpe e lasciarle un istante a sfondo. Qui interessa l’origine per capire se il progetto avesse un senso allora e possa averlo ancora. È importante saperlo. Dirselo. Perché un difetto di fabbrica rovescerebbe colpe notevoli su chi al tempo spinse in quella direzione. Insomma è evidente, se l’esodo di adesso finisce per intero a carico della leadership in servizio, chi è venuto prima ha materia per una ripartenza. Ma se l’errore fosse all’origine quella ripartenza si ridurrebbe a una scialuppa generosa verso una classe dirigente responsabile e per di più sconfitta. Allora si tratta di andare un metro più a fondo. Per quanto si può, con spirito di verità.
*
Da anni prevale la tirannia del presente, meglio, dell’istante. Presentificazione della politica è stata chiamata4, e mai neologismo ha avuto peggiore appeal. Vuol dire schiacciare ogni cosa sull’oggi, costringere prima e dopo nella morsa del momento. A quel punto emerge chi ha maggiore istinto, sa catturare l’attimo, cavalca l’onda. Ci vuole talento, riflesso, intuizione. Le congetture dei sondaggi quasi mai risolvono, ma aiutano. Per tutto il resto, fuorché la ricaduta sulla massa, si può delegare.
A modo suo Dante piazza il tema in carico a Farinata5, dunque all’Inferno, decimo canto, e la pena comminata – tornano gli eretici – è speculare all’oggi. Quelli sanno il passato, vedono avanti, ma il presente rimane loro ignoto. Pure qui il contrappasso è curioso, a noi spetta nutrirci del contingente sopportando ogni oltraggio alla memoria e appaltando ai posteri qualche traccia di futuro proprio mentre, attorno, il nuovo marcia nelle forme plateali ricordate all’inizio. Abbiamo poco riflettuto sull’impatto, in questi anni intendo. Dando per dovuto un modo di ripartire il tempo destinato per forza a svantaggiare noi.
In sintesi, se il presente si impone come regola, cioè tutto quanto si può pensare e agire sta stretto in quella scorza, si ridurrà lo spazio per il pensiero e l’azione. Banalmente dovrò pormi domande in un recinto, cancellando l’immagine del resto: vite, diritti e libertà del poi. Chi ha goduto di questo?
Per alcuni si pone qui – semplicemente qui – il divorzio tra prassi e filosofia. Ma quel distacco non è roba da azzeccagarbugli, è l’origine del vuoto di dottrine, della paura di sfidare una pratica promossa ideologia. Se un peccato la sinistra ha compiuto è stato trasferire in un presente senza tempo lo schema antico – teoria e azione – ignorando rapporti di forza dove quella logica non aveva speranza di sopravvivere, ossigeno da respirare. A quel punto la condotta ha avuto il sopravvento e ci siamo trovati a inseguire una lepre meccanica come levrieri ammaestrati senza una logica se non il passatempo degli spalti.
Esempi? Sono molti. Se parliamo della vera priorità, la scorza ha impedito di dare respiro al conflitto. Quale idea abbiamo del lavoro e di chi lo fa? Cosa vorrà dire un’antropologia diversa dal vecchio secolo dove il rapporto tra profitti e salari si rimodula e lascia ognuno a gestire ricatti prima mediati? Fuori dal guscio, a quale società pensiamo mettendo mano a soluzioni tampone senza un principio o uno scopo? Certo, avremmo dovuto porla così. Risalire la corrente senza prostrarsi alla contingenza. In questo un intero metodo si è infranto per le cose dette a partire dall’errore peggiore, intubare il pensiero. E allora?
Allora l’eresia per prima cosa dovrebbe slegare quanto i decenni hanno imprigionato: la radicalità della teoria, liberare l’inventiva dalle circostanze. Recuperare l’utopia nella chiave del calembour in testa al libro. Una concretissima utopia senza arrampicarsi in cielo, ma curando la navigazione tra filosofia e prassi. Vale a dire intreccio, scambio tra le due, assieme a realismo e uno spazio per atterrare.
Detto altrimenti, la sinistra non capitola se perde una battaglia in Parlamento, se passa una legge imperfetta, se i rapporti di forza momentanei le impongono una guerra di posizione o un’alleanza forzosa. Perde se smarrisce bussola e cartografi. Invece quando la battaglia spaiata, una singola norma contesa, si tratti di una legge o un alleato ritenuto sgradito, diventano chiavi risolutive del tutto si finisce col ridurre cultura e identità alla contingenza.
Anche in questo serve riprendersi il nostro. Vuol dire non ridurre entusiasmo e peso dell’impresa alla querelle sull’ultimo leader battezzato. Perché la vetta è più alta di uno, sia o meno incidente nella corsa. C’è nel consegnarsi al singolo, fosse pure per negarne l’influenza, molta subalternità da cui redimersi. Dello zar si occupavano i zaristi. Quegli altri avevano a mente la rivoluzione.
C’è un altro motivo a sostenere una cultura non ancorata all’istante, è il respiro del disegno. Se pensiamo di avere davanti un avversario solido di un impianto ideale lungo quarant’anni, forse più6, non ha senso contrapporgli l’agenda della settimana. Se ne esce sbranati. Ma se per prime la denuncia o la nostra proposta si rinchiudono nei confini comandati da altri vivremo in una marginalità costante. Insomma quanto più alziamo lo sguardo su mentalità, modi di giudicare, l’antropologia delle società, fino a quella geopolitica padrona di riscrivere il potere, tanto più cresce l’urgenza di criticare la civiltà per come si struttura. Capendo una volta in più come le difficoltà di ora, compresa la diaspora di una sinistra in cerca d’autore, non sono figlie di cronache o gazzette del giorno. È un ostacolo infinitamente più alto e rivendica intero lo spazio della rincorsa. Bisogna coglierla questa verità. Farsene carico anziché scudo. Perché poi nasce qui lo scambio dei ruoli e il paradosso di una sinistra spinta a inseguire parole non sue sino a dare voce a mondi lontani da sé.
Avete presente? Chiuse le urne tutti a stupirsi di percentuali a due cifre nei centri storici assieme al disarmo nelle periferie. Ma quello è solo il riflesso della causa vera. Con l’ascensore sociale non esattamente bloccato al pianoterra. Un po’ si alza reclutando spezzoni di classe media in una categoria inclusiva di salvati, ma più spesso tende a scendere precipitando il ceto medio restante nella precarietà dei sommersi. La sinistra, se va bene, dà voce ai primi e osserviamo i secondi puntare a ribellismo, astensione, ripiego su destre all’arrembaggio di casematte precluse fino a ieri.
Cautela però, perché in questa geografia del consenso, a parte gli errori di stile, ha pesato la mancata nozione del mondo per come si è configurato. Quello ci cambiava sotto il naso e non vi sono stati né l’autonomia né il coraggio di muoverci su sentieri mai pestati. Abbiamo custodito l’impianto di prima ed è stato come sfogliare l’album di famiglia. Noi a rinverdire glorie, rivangare storie, mentre gli avversari piazzavano agli Stati le indulgenze moderne: bilanci pubblici vincolati a macroeconomie e conti familiari restituiti al taccuino domestico.
Per questa via abbiamo alterato solide Costituzioni liberali. Nel 2012 il Parlamento ha approvato la riforma dell’articolo 81 della Carta fondamentale e introdotto il pareggio di bilancio in Costituzione. Il nuovo testo recita: «Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali. Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte…».
Lasciamo perdere la lingua e stiamo al punto. Lo stesso Keynes pronunciò parole nette a sfavore dei disavanzi pubblici, ma si batté con anche più vigore per investimenti dello Stato nelle fasi recessive. Ora, poiché le risorse non si trovano come gli zecchini di Pinocchio, a penzoloni dagli alberi, quella via implicava riduzione di spesa improduttiva o aumento equo e mirato di tasse. Il punto è nell’impianto a sostegno di un pareggio di bilancio inciso in Costituzione mentre la visione strategica si è mossa in senso opposto, praticando una spesa proiettata al consenso e con investimenti pubblici rotolati al minimo. Il risultato, volenti o meno, è stato costituzionalizzare una teoria economica liquidandone altre. Cioè una precisa teoria, un punto di vista, ha indossato la toga della regola con una ferita evidente al doppio concetto di regola e teoria. Nella stessa logica si è alzata l’età pensionabile oltre i limiti, se volete confermando la teoria dell’egemonia col dettaglio di averla delegata ad altri.
Allora il dubbio può sorgere. Non abbiamo marciato troppo lenti o veloci. Era sbagliata la strada. E siccome non stiamo buscando el levante… e poiché non c’è Nuovo Mondo a proseguire sul sentiero scorretto, conviene invertire rotta se non altro per rimotivare al viaggio.
Insomma è mancata la politica perché tutto il resto, il contorno, a modo suo ce lo siamo tenuto. Mal gestito, rattoppato, a volte con successi del momento come nel botto alle europee7. Niente ci siamo fatti mancare, compresi dissensi, autoritarismi, scissioni. Solo la politica, ma provate a giudicarla un’inezia.
Con l’ultima aggiunta. Quella, la politica, al pari di progresso, giustizia e libertà, vive nel legame a un fine. Un traguardo. Senza, il vuoto di senso non riguarda un programma. È vuoto di sostanza. Un buco della storia. Lo scrivo in punta di tastiera: ho letto senza paraocchi l’ultimo libro del leader del Pd8. Al di là del genere, tra memoir e progetto, arrivato a fondo sono tornato al titolo. Perché Avanti è un’esortazione, immagino sincera. Resta una domanda. Resta «la domanda». Avanti, ma verso dove?
*
A volte penso, a base di tutto dev’esserci un paradosso. Trovarci in una terra di nessuno, in questo anno zero della sinistra, quando attorno il mondo arruola schemi e valori prossimi alla radice delle democrazie. Sugli esempi uno pesca nel mucchio. Tipo questo.
2017, inizio estate. Vicino ad Amburgo fallisce il G209. Su questioni decisive – clima, cooperazione, rotte del potere – si consuma un distacco palese e nessuna foto del club lo ha potuto camuffare. Aveva ragione chi all’innesco della Grande crisi ammoniva: «Non è chiaro come ne usciremo, se da sinistra o nell’altro verso. Con istituzioni più forti o il loro arretramento». La scena indica la seconda strada con grandi potenze – le più grandi tra tutte – sensibili a dispotismi o stili autoritari incistati fino al cuore di rodati sistemi liberali. Trump, Putin, il leader cinese, quello turco sono cose assai diverse, ma con la stessa inclinazione a tollerare poco o nulla il pluralismo sindacale, culturale, dell’informazione. L’aneddoto di Amburgo col presidente Usa distante un secondo dal tavolo e rimpiazzato dalla figlia rispecchia un’involuzione dinastica ficcata nella sovranità americana. Non perché laggiù il principio sia nuovo. Bush, il padre, si è goduto il figliolo giurare sulla Bibbia. E i democratici, ancora di recente, hanno investito prima sul marito, poi sulla moglie. Ma quella figlia – per il momento solo una figlia, ancorché prediletta – accomodata sulla sedia dello statista più potente in Occidente rivela una qualche arroganza del comando. E però nulla avviene per caso. La realtà è cruda. L’equilibrio della seconda metà del Novecento aveva allineato democrazia e capitalismo, ma non ha retto l’urto. È imploso un patto, solido in apparenza, e il capitale si è imposto su democrazie ripiegate. Non so dire se il vecchio capitalismo sia finito per una sbornia da successo. Certo è un fatto se la sinistra più ortodossa oramai testimonia di un’epoca al tramonto mentre da Londra all’Atlantico la lingua residua di quella cultura è improntata alla discontinuità più netta10. In questo senso un lessico intero della nostra parte andrebbe dismesso a partire da meriti senza uguaglianza, concime di un ritorno alla democrazia del censo. Di questo dovrebbe parlare il progressismo ovunque e la sua forza più grande da noi. Precisamente di questo.
Dovrebbe farlo l’Europa perché qual era è rimasta, la sola prospettiva sulla quale puntare. L’idea di usare Bruxelles come pungiball da gloriare a fini di consenso è tecnica di scarso merito. L’Unione europea ha un mare di difetti, lo abbiamo visto, e li mostra tutti agli occhi di popoli impoveriti, ma la risposta non sarà il sovranismo delle nazioni. Non equivarrebbe a una riscossa, ci limiteremmo a passeggiare nel deserto. Per anni, decenni, si è immaginato quel miracolo laico, l’architettura politica e sociale dell’Europa, come un edificio destinato a crescere in altezza e comunque dalle fondamenta profonde. Il risveglio – dapprima la Brexit, poi l’irrompere di destre xenofobe – è stato brusco. Ma è questa pressione degli eventi a imporre subito una scelta. Lincoln decise una guerra civile per condurre l’America a divenire una federazione a tutti gli effetti. Il nostro continente le sue guerre civili le ha consumate nei secoli e il prezzo sono milioni di tombe. Allora tocca alla politica aggredire l’infezione e riparare gli errori di una gobalizzazione mal diretta, a cominciare dai sentimenti delle genti. Non basterà la retorica, servirà il coraggio per invertire rotta. Al fondo era l’agosto del 1952 quando Jean Monnet profetizzava poteri sovrani, allora come oggi in capo ai governi nazionali, da trasferire a un’Europa federale. Da lì in avanti il tiro alla fune tra difensori dello schema intergovernativo e timidi o radicali federalisti è proseguito senz...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. La sinistra e noi
  6. L’inverno del nostro scontento
  7. Mare Nostrum?
  8. Intermezzo
  9. I raggi di questo sole
  10. E prima…
  11. E poi…
  12. Spunti e rimandi