Thoreau e le parole della natura
Introduzione di Salvatore Proietti
1. Quasi un ipertesto.
Autore di pochi libri, collaboratore di periodici di scarsa circolazione pur se prestigiosi, residente per quasi tutta la vita in un piccolo centro del Massachusetts, morto a soli quarantacinque anni, Henry David Thoreau (1817-1862) diventa gradualmente, a due secoli dalla nascita, una figura sempre più imprescindibile nella letteratura degli Stati Uniti. Sono molti i paradossi legati a Thoreau, esploratore dell’infinito nel piccolo, creatore in Walden di un’opera che, con ambizioni quasi epiche, in un paio di centinaia di pagine trasfigura la descrizione di un laghetto del Massachusetts in un volume che è allo stesso tempo autobiografia, filosofia, poesia, scienza, critica di costume – nel nome di un individualismo democratico un po’ anarchico che affascina generazioni di scrittori e critici, con interpretazioni straordinariamente contraddittorie1. Negli anni novanta, un libro ormai fondamentale di Lawrence Buell reinquadra Thoreau al centro di una tradizione di letteratura ambientalista, una riflessione sul rapporto tra esseri umani e natura che non nasce con Thoreau, ma che con lui e con Walden acquisisce consapevolezza di sé2. È Thoreau, direttamente o indirettamente, ad aprire la strada per i pionieri dell’ecologia nordamericana, da John Muir e George Perkins Marsh alla land ethic: e tutte le varianti dell’ambientalismo contemporaneo (letterarie, filosofiche, politiche) sono in debito con lui. Esistono, ovviamente, diversi approcci «politici» alla letteratura, ma l’attenzione ai temi dell’ambiente sta dando vita a una ricerca sempre più fruttuosa, a partire dal mondo anglofono, che affronta spazi letterari e culturali sempre più ampi3. Senza la fioritura «ecocritica», questo Dizionario non sarebbe stato concepibile.
D’altra parte, Thoreau non dimentica mai di essere innanzitutto un letterato, non un teorico o un filosofo sistematico: tuffarsi nelle sue opere significa ragionare per analogie, metafore ricorrenti, a volte sviluppate sotto forma di descrizioni fattuali, a volte di meditazioni intime, in registri che spesso si fondono. In alcuni casi intricatamente complesso nel fraseggiare, lanciato a capofitto in autentici gorghi ipotattici, in altri fulmineamente aforistico, lo stile è anche quello del poeta, dell’oratore, e del narratore che punteggia i suoi scritti di vignette che sono vere e proprie parabole, e di commenti ironici. Per il compilatore (campionatore?), la principale sorpresa è la scoperta di echi, rifrazioni, rimandi che collegano descrizioni di viaggio, studi scientifici, voci di diario, lettere, che sono stati una guida alla compilazione. Questo è un dizionario, non un’enciclopedia o una concordanza, e sarebbe stato possibile includere altri animali, piante, luoghi, umori, riflessioni; tante di queste «voci» sembrano parlarsi a vicenda: abbiamo preso questa immaginaria conversazione come segno di una continuità, affidandoci a Thoreau stesso nella, per definizione imperfetta, ricerca di una rappresentatività. L’esplorazione di questo corpus è somigliata a una navigazione nella rete, seguendo punti di contatto quasi ipertestuali. Allora questa introduzione non vuole tanto essere un riassunto, quanto la presa d’atto di un magma testuale che lascia molto alla jouissance di uno sguardo partecipe, ma poco al caso, il suggerimento di una strategia di lettura.
2. Ibridi e legami.
Cantore a metà Ottocento di un’umanità e di una nazione che del divenire fa una ragion d’essere, Thoreau presenta sempre categorie cangianti, colte in un mutare incessante. In un’immaginazione consapevolmente visuale (si interroga su come rappresentare la notte), che quando è pittorica sembra presagire l’impressionismo, i colori si mescolano e si sovrappongono, come quelli dell’acero o del susseguirsi delle stagioni, in cui in un momento del giorno o dell’anno si intravedono tutti gli altri. A Walden Pond i colori, materiali e spirituali allo stesso tempo, sono metafora letteralizzata di una visione del mondo che è allo stesso tempo tesa verso la materialità e verso la trascendenza (nell’acqua allo stato liquido come nel ghiaccio), in un luogo sia di purezza sia di scambio e di scambi.
Anche le forme sono grottesche, ibride, dall’alce alle alghe alle meduse (segno di una condizione simile al caos primigenio che talvolta sopravvive vicino a noi); perfino le navi sono un ibrido di elemento naturale e artificio umano. E se il centro dell’attenzione è sempre l’esperienza diretta del «suo» New England, a partire da fiumi, laghi, boschi e montagne ben conosciute si può costruire un legame con diverse regioni del continente nordamericano, come nella descrizione di uccelli migratori quali oche e anatre. Soprattutto i fiumi ci collegano con altri luoghi – e per il principio di somiglianza ai luoghi in cui scorrono altri fiumi, tutti messaggeri dell’avventura del nuovo. Anche Thoreau goes with the flow, ma non per accettazione di una dimensione di stabilità, piuttosto come anelito utopico.
Allora la sua prospettiva può essere globale: se l’economia di Concord si regge anche sul commercio del ghiaccio, l’acqua del lago di Walden connette il Massachusetts con i luoghi mistici, sublimi e favolosi degli antipodi, Walden e il Gange, il prosaico e il poetico, il materiale e lo spirituale, domesticità e alterità.
Nel tessuto dell’ecosistema globale sono intrecciati tutti gli esseri viventi, come il gallo, animale domestico universale, nel quale sentiamo la presenza del resto del mondo in cui è diffuso, e che cancella steccati e confini tra «noi» e «l’altro» della natura. In questo senso, il tempo può essere come lo spazio, e il grillo è portatore di tracce del futuro.
3. Economia sostenibile.
In Walden, «Economia» è il controverso titolo del primo e più lungo capitolo. In Thoreau, le metafore economiche sono ovunque. Anche l’economia è una variante della connessione; così, se si invoca l’economia della natura (ecologia?), uno scambio più autentico di quello del presente materialista, a emergere non è tanto la visione di una società di cacciatori-raccoglitori, ma un’agricoltura che non sia di rapina, che non trascuri i valori d’uso nel nome di quelli di scambio o del godimento immediato (qui la parabola è quella del contadino, dell’acqua e dell’alcol). Pur se fondata su un capitale differente, si tratta sempre di un’economia del dare e dell’avere. Per quanto riguarda il lavoro produttivo, conta la sua capacità di fornire tempo libero, di essere investito in tempo non alienato; meglio ancora quando si riesce a cancellare l’alienazione dal lavoro produttivo, coltivando la terra, studiando, scrivendo.
Il progetto di Thoreau è conciliare individuo e natura, concepirne la coesistenza, e allora in diverse declinazioni una parola chiave è «determinazione», un’autentica crescita interiore che, in una filiazione che parte da Benjamin Frank lin, renda possibile, per parafrasare C. B. Macpherson, un individualismo non possessivo. Le parabole di dealienazione sono quelle della legna e della preparazione del pane, o del confronto tra l’ozio del camminatore e quello del réntier della speculazione finanziaria, fra qualcuno che conosce il valore della natura e chi lo lega alla sua distruzione (a cui torna parlando di pini: l’uso non deve cancellare la permanenza originaria). Abrasivamente scettico sui trionfi della modernità, Thoreau non alberga alcun sogno di regressione pre-capitalista, e ironicamente osserva: servirà una nuova rivoluzione borghese per eliminare le tracce «aristocratiche» nella cultura della pera, e poterla di nuovo apprezzare genuinamente.
Così il regno naturale può dare vita a un’«alleanza» con gli esseri umani, accompagnandoli nelle migrazioni, nel nome sia della continuità sia del cambiamento, con una natura sempre fluida nelle sue interazioni con l’umanità. Se la mela (e l’ambiente) si può umanizzare, per l’umano l’importante è mantenere una traccia di selvaticità, concludendo, nelle osservazioni della vegetazione prossima agli insediamenti umani, che i «frutti selvatici» – fragole, more, mirtilli, bacche ecc. – sono migliori di quelli coltivati.
È la caccia, invece, ad annullare questa interazione,priva di qualsiasi scopo che la renda parte di un ciclo. È questo, forse, che lo attira nel vegetarianesimo, mentre la dieta di carne, dice, spezza quel legame tra mente e corpo, ponendo l’accento solo sul secondo. D’altra parte, aggiunge, si fa la stessa violenza cancellando un’animalità che non può essere esclusa dall’umano. Dunque, pur con ripensamenti almeno il rituale della pesca trova una legittimità: qualcosa che ci ricorda che la natura non è lontana dall’insediamento umano, anzi resta sempre presente dentro di noi.
4. Paesaggio intermedio.
In La macchina nel giardino, lo studio di Leo Marx che, nel 1964, cominciò a riflettere sul rapporto tra natura e letteratura americana, il concetto chiave è «paesaggio intermedio», luogo in cui sono compresenti natura e società, wilderness e modernità4. Una delle forme più compiute del middle landscape è la casa nel bosco, rifugio dalla società a pochi chilometri dal paese di Concord, in cui si può tornare regolarmente per trovare amici e parenti, con la ferrovia a portata d’occhio e orecchio. Prima della foresta e del lago, a circondare la casa è una natura familiare e domestica fatta di more, rape, alberi da frutto e api: una natura ordinaria in cui si può scoprire lo straordinario (una domesticità che talvolta Thoreau applica alla natura, fino a farne uno scenario al femminile, come nell’equiparazione tra la neve e il bianco del bucato steso al sole). E il «selvaggio» Maine è facilmente raggiungibile dal Massachusetts, mentre la distinzione tra civile e incivile non è una funzione della vicinanza o lontananza dalla natura, piuttosto della qualità del rapporto – e si misura non in base a un beato isolamento ma sulla capacità di interagire con lo straniero (in una formulazione che, riprendendo da Emerson un aforisma forse indiano, ripropone la naturalità come funzione della «scienza»). Chissà se il vero eroe di Thoreau non sia la patata, tubero che cancella la distinzione fra natura coltivata e selvatica, e che dunque potrebbe sopravvivere all’umanità.
In Walden, Thoreau parla spesso di semplificare l’esistenza, ma quando inserisce le quattro «necessità della vita» (fornendo esempi di noble savages che ne fanno a meno, e forse concludendo che il fuel, il combustibile, è l’unico totalmente indispensabile), li considera non la fine ma l’inizio della ricerca umana: se ci sono quelle, allora si può uscire dalla (per dirla con Giorgio Agamben) nuda vita, avere la possibilità di pensare al perseguimento dei piaceri veramente significativi – che, dice, sono ricercati anche dagli animali che vivono intorno a noi, come cani e gatti.
Verso la fine del libro, l’intensa scena del disgelo e del sand foliage, in cui si raggiunge la visione di Dio e della creazione del mondo sul terrapieno della ferrovia, fenomeno naturale su supporto artificiale, disvela un’economia trascendente, brevetto primigenio e algoritmo della vita, che riunisce minerale, vegetale e animale, mente e corpo, divino ed escrementizio.
Altrettanto intensa, la scena dell’ascesa del monte Katahdin (o Ktaadn, come lo chiama Thoreau), è il sublime del contatto con un assoluto incommensurabile, una natura non antropizzata che esclude l’umano (tranne forse un buon selvaggio molto ambiguo), che sembra fatta per esaltare, piuttosto che cancellare, l’individuo che la sperimenta. Per questo è giusto che il biennio di Walden abbia un termine: la natura è valorizzata come fonte di vitalità in grado di guidarci a rendere sostenibile la nostra vita di moderni, non come occasione di fuga.
5. Movimenti, visioni.
Siamo nell’America della grande fiducia precedente alla guerra civile, che si sente all’inizio di un’inarrestabile espansione. Con Thoreau, come con Emerson e Whitman, troviamo questa propensione all’avanzamento sotto forma di intimazione individuale, democratica, che affonda le radici nei puritani e nei Padri fondatori, e crede nell’espansione verso Ovest, che è anche movimento verso il futuro. In Camminare, l’incipit parla della natura come luogo di una «libertà assoluta» oltre che della selvaticità – ma per tutto il resto della sua carriera, Thoreau esplora quanto sia necessario concepire dei limiti a quell’assoluto. In Walden l’immagine ricorrente è quella dell’alba: ci si immerge nella natura per sentirsi sempre all’inizio della giornata, in una «infinita attesa» che è anche quella del guardiano del faro di Cape Cod, un luogo al confine, scrutato speranzosamente da tutti.
In questa temperie culturale, le voci più scettiche sono quelle Nathaniel Hawthorne e soprattutto di Herman Melville, con metafore naturali inquietanti e disturbanti5. Ma c’è qualcosa di precario anche in Thoreau, e la rassicurazione della terra firma sulla quale si fondano visioni e decisioni è fornita da una crosta sottile che riposa su un’acqua di cui si ha ovviamente bisogno, una società che non può fare a meno della natura – anche senza presentare mai direttamente la posta in gioco se non quando ricorda l’importanza degli spazi non antropizzati.
O forse un’eccezione c’è, almeno in un caso in cui, romantico e trascendentalista emersoniano, Thoreau ricorre alle influenze del neoclassicismo settecentesco, da cui riprende le tecniche della personificazione e della mockepic, e a meno di dieci anni dalla guerra civile la battaglia delle formiche (mirmecomachia?) è una piccola grande parabola della guerra. Di personificazioni ne troviamo parecchie in un amante delle letterature classiche, da quella di Cape Cod, geografia fatta corpo e genius loci, o del gufo che dà voce a Walden, o nella voce della poesia che (à la Whitman) si identifica con Walden (e anche Walden è a sua volta ibrido di lago, bosco e casa) o nelle stagioni (l’inverno, in fondo, deve essere gentile se infine porta all’agnizione della creazione). Il repertorio settecentesco consente anche di presentare la natura non necessariamente come armonia ma come concordia discors (da sussumere come armonia superiore): il verso dei gufi, che trasmettono l’umore della natura (anche il malumore è parte del ciclo, non un’interferenza o un annuncio di catastrofe), come di quello dei rospi (affascinante, un piacere che non viene cancellato dalla scoperta della prosaica origine: «Non temerò di sapere»).
Il discorso di Thoreau sulla natura è in stretto dialogo con Emerson, mentore e amico-nemico che nel saggio del 1836 Natura presenta un’immersione nell’ambiente che è sia un annullamento sia un’onnipotenza dell’io, nella celebre metafora della pupilla trasparente in cui l’individuo annichilito si fonde con il divino, in una raffinata strategia retorica che presenta la trascendenza come predicata sull’esperienza diretta; solo il metodo scien tifico, sembra dire Emerson, può avvicinarci a un Dio diffuso e panteistico6.
Per Thoreau, dunque, non c’è alcuna contraddizione tra perseguimento di un’economia della trascendenza e osservazione scientifica. Immergersi nella natura fornisce fiducia nel futuro, purché lo scienziato mantenga qualcosa del bambino all’alba della vita. Anche la metafora della nebbia mattutina riporta a una visione in costante rinnovamento, un orizzonte che si apre con il rischiararsi dell’aria. Il movimento è soprattutto quello del ciclo delle stagioni, secondo cui è strutturato Walden, un tempo naturale sempre in mutamento. Allora il concetto stesso di mutamento non è quello di un «evento» che punteggia e interrompe la storia, ma di un fattore incancellabile di ogni fenomeno.
In questo, trova posto anche l’accettazione tormentata dell’errore, e Thoreau si rifiuta di presentarsi come innocente o puro, nell’uccisione della tartaruga nel nome dell’esperimento come nell’involontario incendio del bosco nel nome del divertimento. La controparte della sostenibilità è, sempre, la responsabilità, che è anche quella di coloro che rovinano l’habitat delle vongole7 (e le conchiglie possono essere metafora sia del profondo, sia del consunto).
Così, la sua posizione – exemplum delle proprie tesi – è sempre, senza eccezioni, quella di un osservatore mai distaccato, partecip...