Parte seconda
Guerra
Lutto, senso comune, mito e politica nella memoria della strage di Civitella Val di Chiana*
1. Lutto e senso comune.
21 agosto 1995. Ieri, per la seconda volta in un mese, una svastica nera ha coperto il cippo che a pochi metri da casa mia ricorda i «martiri della Storta»: tredici prigionieri, civili e militari, fra cui Bruno Buozzi, uccisi dai tedeschi in ritirata da Roma nel giugno 1944. Poche settimane dopo, la linea del fronte tedesco si attestava presso Arezzo.
Il massacro di Civitella Val di Chiana (29 giugno 1944) ha generato, come scrive Giovanni Contini, una «memoria divisa»1. Da una parte sta una memoria «ufficiale», che celebra le vittime come martiri della Resistenza; dall’altra la memoria dei superstiti, che costruisce sul lutto condiviso un’identità collettiva e attribuisce ai partigiani la colpa di avere provocato la rappresaglia: «ora si riversa tutto sui tedeschi […]. Però noi la colpa la si dà ai partigiani perché se loro non facevano quello non succedeva tutto questo. Loro hanno ammazzato per rappresaglia» (M. C.)2.
L’azione che risultò nella morte di tre soldati tedeschi nell’abitato di Civitella fu probabilmente condotta con «estrema leggerezza» (don Daniele Tiezzi)3. I partigiani che agivano attorno a Civitella non erano tra i più organizzati e l’utilità dell’attentato è incerta; non è chiaro se intendessero uccidere i tedeschi o solo disarmarli, se abbiano sparato a freddo o per difendersi. Coinvolsero il paese agendo al suo interno e non rimuovendo le tracce dell’azione; non furono in grado di aiutarlo in seguito. Tuttavia, la strage la fecero i tedeschi: la possibile irresponsabilità dei partigiani non può far passare in secondo piano la calcolata responsabilità dei nazisti.
Più di una volta, queste due memorie si sono scontrate, anche fisicamente: le celebrazioni resistenziali sono apparse ai superstiti come una falsificazione degli eventi e una violazione del loro lutto. Il convegno «In Memory» (Arezzo, 22-24 giugno 1994) si poneva quindi come un risarcimento dovuto a questa memoria violata e una riflessione sui limiti della memoria resistenziale. Tuttavia, tale dovuta ammenda si inseriva ambiguamente in un contesto in cui la sinistra, incerta delle proprie ragioni e intenta a superare le ideologie, finisce spesso per inglobarsi acriticamente in ragioni e ideologie altrui. A questo rischio, per la drammaticità degli eventi e la serietà degli errori, si presta in modo particolare la vicenda di Civitella.
I racconti di Civitella tolgono il fiato; ma compito dello studioso, una volta assorbito l’impatto, è di fare un passo indietro, respirare a fondo, e ricominciare a ragionare. Nel pieno rispetto per le persone coinvolte, i loro sentimenti e le loro profonde ragioni, si tratta di interpretare criticamente tutti i documenti e i racconti – compresi i loro. Come cercherò di mostrare, non esistono, infatti, solo una memoria «ufficiale» e «ideologica», da un lato, e una memoria autentica e pura, dall’altro (per cui una volta decostruita la prima possiamo affidarci alla verità della seconda), ma una molteplicità di memorie tutte mediate sul piano ideologico, culturale, e narrativo.
Nelle relazioni presentate al convegno un atteggiamento umanamente giusto di commossa contemplazione prevaleva spesso sul lavoro di analisi. Mentre Giovanni Contini ripercorre le contraddizioni delle versioni partigiane4, nessuno fa lo stesso con le testimonianze dei sopravvissuti, non tanto per metterne in dubbio l’attendibilità quanto per riconoscere la costruzione narrativa di eventi e significati. Valeria Di Piazza si identifica con l’inestricabile dilemma dei superstiti fra «esprimibile/inesprimibile», fra il desiderio di tacere e l’impulso di parlare e di far sapere: «Quello che dicono tutti i civitellini è vero: non si può dire e non si può spiegare, non si può far capire ad un altro. Una persona che non ha mai avuto esperienza di eventi simili non riuscirebbe mai a capire che cosa ha dentro la gente di Civitella»5. Come scrive Pietro Clemente, «è come se chi fa ricerca entrando in relazione di dialogo con un lutto incontrollabile per il pensiero, ne restasse contagiato, e dovesse avviare proprie procedure di elaborazione di questo lutto storico»6.
Clemente condivide un «giudizio storico», secondo cui l’errore dei partigiani non toglie la colpa dei tedeschi, ma ribadisce che il punto di vista antropologico privilegia «le rappresentazioni che una comunità costruisce, non la verità dei fatti o la tendenza dei valori». Dall’arroccamento di Civitella attorno al proprio lutto emerge allora lo «scandalo» di una memoria comunitaria che resiste all’atomizzazione individualista della modernità e all’«incapacità del pensiero laico-resistenziale di comprendere vissuti diversi dal proprio modello».
Non so se questa incapacità sia prerogativa del pensiero laico e resistenziale7 da cui sarebbe esente il pensiero religioso e in particolare cattolico. Confrontarsi con vissuti diversi, comunque, dovrebbe costituire l’essenza dell’esperienza, eminentemente laica, dell’antropologia. Morte, lutto e dolore sono davvero esperienze indicibili, sia in sé, sia per i limiti intrinseci del linguaggio: forse nulla è davvero dicibile; che non sia possibile condividere un’esperienza altrui, luttuosa o meno, è infine un luogo comune. Tuttavia, morte, lutto e dolore, per quanto indicibili, vengono comunque detti; lo sforzo di narrare l’inenarrabile si traduce in narrazioni interpretabili, costruzioni culturali di parole e di idee. Prende forma a Civitella una «memoria di gruppo… modellata durante innumerevoli occasioni narrative», trasmessa da «narratori riconosciuti» e «specialisti» tematici tramite racconti dotati di «una forma fortemente coesa, strutturata, ben focalizzata attorno al tema politico», e sottoposta ad un tangibile elemento di «controllo sociale»8.
La contraddizione fra queste narrazioni strutturate e controllate e l’inesprimibilità di cui parla Di Piazza è stridente ma superficiale. Proprio perché le esperienze sono indicibili, ma debbono tuttavia essere dette, in soccorso dei narratori vengono gli strumenti del linguaggio, dell’ambiente, della religione, della politica. Come scrive Clemente, «Lo “scandalo” iniziale… è stato quello di scoprire che la memoria collettiva dei sopravvissuti… non solo rifiutava di considerarsi appartenente al moto della resistenza, ma si poneva esplicitamente contro di esso attribuendo ai partigiani la responsabilità della strage». A me pare tuttavia che questo «scandalo» si sia infine tradotto in una costruzione politico-narrativa che rientra in pieno nel buon senso della «zona grigia» dell’ideologia italiana: già due giorni dopo la strage delle Fosse Ardeatine, l’«Osservatore Romano» chiamava «colpevoli» i partigiani, «vittime» i tedeschi uccisi, e «persone sacrificate» i massacrati delle Ardeatine. Forse lo «scandalo» comincia qui9.
La storiografia resistenziale non ha mai preso questo senso comune abbastanza sul serio. Trovarlo in forma così pura e così giustificata dovrebbe costituire un’occasione di studio sui limiti egemonici ed etici della Resistenza e sulla forza dei costrutti ideologici su cui si basa oggi la sua demolizione.
Si tratta, infatti, di una costruzione di memoria e di elaborazione del lutto che ha preso forma nel tempo, non di un nucleo immobile e impenetrabile. Nelle testimonianze rese alla commissione inglese d’inchiesta nel 1945 e in quelle raccolte da Romano Bilenchi nel 1946, infatti, l’accusa ai partigiani trapela occasionalmente, ma non costituisce l’elemento strutturante delle narrazioni: «Il conflitto coi partigiani – scrive Contini – non è un punto di partenza, ma di arrivo». Sono invece esplicite le condanne dei tedeschi («e lì piangemmo tutti insieme, pensando alla disgrazia che ci aveva colpito, e maledicendo i tedeschi»: Ada Sestini ved. Caldelli, RB, p. 255); molte testimonianze si soffermano sul sadismo con cui infieriscono sulle vittime e sul paese («Erano le dieci, la mitraglia era quasi ferma, ma si udiva la voce di quelle belve assetate di sangue innocente cantare, ridere e suonare gli strumenti»)10. Nel tempo, queste immagini scompaiono, mentre emerge il rancore nei confronti dei partigiani, e il tono si evolve dalla concretezza dei dettagli di allora agli accenti patetici un po’ ripetitivi di oggi.
Diversi fattori possono aver suscitato questi cambiamenti: l’autocensura, che può aver indotto a tacere le responsabilità dei partigiani quando questi erano sulla cresta dell’onda; il risentimento per soprusi commessi più tardi dai partigiani in paese, «punendo» e umiliando persone rispettate che non erano state più fasciste di altri; i processi alla Resistenza o le polemiche su via Rasella, che hanno offerto un apparato ideologico ancora non formato subito dopo i fatti11.
Quello che vale per il tempo vale anche per lo spazio. Nella vicina Vallucciole furono ammazzate 108 persone, compresi donne e bambini; ma nei racconti di questa località il «tema della colpa» è attenuato o «del tutto assente»: «tema centrale di riferimento per gli informatori sono le responsabilità dei nazi-fascisti» (Cappelletto - Calamandrei). Al di là delle differenze sociali e di modalità dell’evento, questa differenza conferma che lo «scandalo» di Civitella non è eterno e universale ma storico e specifico. Ciò non ne dissolve il significato; anzi, lo precisa e lo focalizza e ne acuisce la conflittualità di rappresentazione contrapposta ad altre.
Ha ragione Clemente a distinguere «la verità dei fatti» dello storico e le «rappresentazioni» dell’antropologo. Tuttavia, rappresentazioni e «fatti» non esistono in universi separati, e solo mettendoli in relazione possiamo riconoscerli e distinguerli12. Le rappresentazioni lavorano sui fatti e ambiscono allo statuto di fatti; i fatti si organizzano secondo le rappresentazioni; gli uni e le altre confluiscono nella soggettività e nei discorsi degli esseri umani. A qualcuno spetterà pure il compito di farli interagire: forse alla storia orale, pratica di confine, che è tenuta ai fatti in quanto storia ma che si confronta sempre con le rappresentazioni per la sua prassi di lavoro dialogico sul campo e di incontro rispettosamente critico con l’alterità dei narratori.
2. Innocenza.
22 agosto. Davanti al cippo, alcuni meccanici e artigiani della zona, con spugna e carta vetrata, discutono dei pennelli da usare per restaurare i nomi sulla pietra. Anziani sopravvissuti della vecchia borgata sopraffatta dal dormitorio per classi medio-alte, forse ricordano.
M. C.: Ecco! e lì incomincia la dolorosa storia!
Intervistatrice - Ma che cosa era successo?
M. C.: Che i partigiani aveono ammazzato i tedeschi.
Quasi tutti i racconti sulla strage di Civitella, a partire da quelli del 1946, cominciano con l’uccisione dei tedeschi: «Il giorno 18 giugno… vennero uccisi per mano dei partigiani due soldati tedeschi. Di lì cominciò la mia agonia e quella di tutti i miei compaesani»; «All’imbrunire del giorno 18 Giugno, non ricordo esattamente l’ora, la relativa calma che regnava in paese, nonostante l’avvicinarsi del fronte, fu improvvisamente rotta da un rumore di spari»13.
Prima che il racconto cominci per definizione non succede niente: l’incipit segna la rottura di equilibrio e silenzio, e l’avvento brusco di movimento e disordine. Così, sembra che a Civitella prima dell’attentato partigiano non accadesse niente: «noi a Civitella, tranquilli… perché noi fino ai 18 giugno la guerra la s’era sentita fino a un certo punto, ecco» (M. C.); «a Civitella si viveva tranquilli e felici» (P. F.)14. Civitella era un paese «incorniciato dal verde di boschi profumati», un «“piccolo mondo antico” pieno di fascino ovattato e misterioso» dove «le estreme faziosità politiche, che dividono gli animi e accendono l’odio, non erano mai esistite». I tedeschi «noia non davano» (M. C.); quanto ai fascisti, «chi aveva creduto in buona fede a quella politica non si era macchiato di alcuna nefandezza»15.
Calamandrei e Cappelletto parlano di immagini di «paradiso perduto» e di «innocenza»: strane rappresentazioni per un paese sotto occupazione nazista, che ha attraversato il fascismo e ha visto avvenire il massacro di Vallucciole. Dobbiamo quindi interrogarci su come queste rappresentazioni lavorano sui «fatti». Per esempio, Alberto Rossi, che aveva 15 anni, ricorda un «tempo di guerra e di tristezza» che era anche, comprensibilmente, tempo di spensieratezza adolescenziale. Ma poi, sorprendentemente, trova proprio nella guerra i motivi della spensieratezza:
L’occasione di soddisfare alcuni nostri desideri si presentò nei primi mesi dell’anno, quando, vicino al paese, furono installati dai tedeschi un deposito di carburante e uno di munizioni. Le nostre escursioni incominciarono allora in quei paraggi e, eludendo la stretta sorveglianza, spesso riuscivamo a sottrarre qualcosa che ci riempiva di entusiasmo (CR, p. 229).
Non c’è niente di male in questa m...