Preparativi per la villeggiatura
(1985-1987)
a Giampiero Neri
MUSICA DA CAMERA
le lacche le lune dei corridoi
si ricordano dei nostri sguardi
stanchi e si guardano nell’imitarli.
Il silenzio non compete che la campagna
questi gabbiani, così diligenti nel dimenticare e ritegnosi se gli domandi l’ora del pasto, carnivori e, allo stesso tempo, immediatamente, pacifici, assiepati come pavoncelle galleggianti, pericolosamente prolifici, non sudati, come gli dèi, mai.
le terre autunnali acquistano le maschere ocra
e gli sguardi fluviali delle brughiere.
Nell’aria odorosa i viaggiatori solitari
masticano tabacco e lo sputano sulle insegne
degli dèi ventosi che stanno a struggere
la nettezza del mare
Paesaggi
1
librano dalle chiuse verdi e umbratili lievi larve di ragazze ora gorgoniche ora gentili fendenti a quest’ora il paesaggio imbiaccato e coperto (molle?). Sono fiammelle in bluse pastello, gioventù in disarmo distese su una tarda perfetta musica.
2
dalle fiale serotoniche delle torri emana una brace taigale che si dispone sulle bacche, sulle bacche spirate da luce infantile. I corrieri del disinganno a me noti s’annunciano guatando stagni bruni, oscurando la conclusiva lucentezza del sole di novembre, le palesi tonalità del sonno.
3
guardavo il lago fermo come il cielo senza un pensiero. Per mia sorte si stese a coprirmi una minima coda di foglie, di spoglie che annegavano nell’obliquità del vento, in frutteti che defoliavano.
le strane fanciulle, le fuggitive attente,
si sono allontanate in fretta dai campi
pomeridiani e vuoti.
Ingrassate e allungate, riposano in qualche
costa orientale che lambisce un diluvio di fiori
e terme dove sciamano rose come bocche diffuse,
nuvole migratorie, alte e pacifiche.
la fuggitiva sotto una pergola di lane assopita
non vede il ragazzo dai capelli rossi…,
è lui a sonargli la corda del sonno,
battendo dolcemente le ali sul corpetto.
(Oh, l’Egitto è lontano, una visione
di piane e montagne).
sorelle relegate dalla sciagura in pioppi
squamati…, un temporale devasta gli argini
di sesamo dalle lingue dorate e celesti.
Poi, fole riunitesi al largo dell’estate,
serrano le inanimate con piene di polvere.
in un giorno d’estate vista afflosciarsi a un muro sotto uno scroscio improvviso nello stesso punto del gonfiore del fiume che noi passiamo incantati da chissà quale musica…, l’entità che per un attimo interloquisce debolmente prego lo stesso di risparmiarci
chi si preoccupa e pota piante e piantine (pure le risecche e inamovibili) è uno zio memorabile, l’arabo anziano che porge dalla pioggia minuscoli limoni. Giardinieri di tutti i giardini, vinti dalle più turpi abitudini, da vizi ineguagliati, prestati dalle sopraffazioni vegetali, so di adorarvi…, io che non ho coraggio di sfiorarvi, eppure sempre vi nomino
perché lamentarsi? Hai avuto anni di giornate infinite, adolescenziali, in cui il tempo si protraeva in lenti crepuscoli. Allungata oltre i naturali confini, l’infanzia si è mutata in un mostro inavvertito, in cicliche e sorde lancinanze, ma finché è durata, è durata…, perché lamentarsi ora, come non credere (non cedere) all’ipotesi d’una generica armonia?
di là da un vino di brividi e schiume,
le statuette di pietra serena (calate
da una fermezza senza fondo), benedicono
i gomitoli di carne che siamo diventati,
la miopia che ci preserva il segreto dell’orto,
l’avello di beltà ornata e beltà disadorna,
congiunte insieme
ci si risveglia attraverso piccole porte
a specchio, strette porte che danno
su corridoi infiorati e calmi
(i giardini italiani rasati sono divisi
in stanze chiarite dall’orina del mattino,
ogni cosa sepolta da smagliante cielo,
da una selva di leggerissima invisibile lana)
il risvegliarsi del vecchio e del bambino
sfiniti insieme da chi continuamente
stordisce coi rumori della vasca e del fogliame
(viridario)
nella sala dove sta affogando nessuna lampada che ricordi i viola di Bonnard, quelli che sfilano a capo chino sotto un crinale di betulle. L’amore c’inonda d’un acuto beffardo, d’acquitrini e nastri di rapide derive. L’impronta di una voce chinata su sé è quanto rimane di più vite distanziate che mai ebbero l’opportunità d’intrecciarsi.
saltate da giovani lepri occhieggianti alle reti,
non calcano più i verdi tappeti i superbi dromedari,
preferendo sciogliersi su poltrone da giardino,
e fissare semiaddormentati (in realtà, attenti),
i volteggi delle ombre in luce
quando il sangue corre a fiumi per i campi, formando isole di piaghe gialle e crateri, tutti credono all’inoltrarsi della primavera. Invece, nella verde occlusione, è il destarsi, in giardini autunnali, alitati d’avori, dei docili assenti, rivoltati nella calma della sventura… Di questa stagione, il mare possiede soprattutto limiti, contiene e rinserra le flotte di neve sul dorso grigio, come una montagna, di un vecchio bue, avvolto nel polline di uccelli fastidiosi come mosche. Nella foce dove vagano sospesi da eterno tremolio, l’oro e il pianto si toccano in silenzioso armistizio, legiferando sull’acqua dell’aria, sulle prime nebbie serene. Direbbero la luce la testa di un bimbo che al risveglio fugga a tanto rantolare?
sei mai stato, d’inverno, negli ultimi giorni dell’anno, in un tennis dai campi vuoti, qua e là gelati o sciolti in pozzanghe...