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Donne e manicomio nell'Italia fascista

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Donne e manicomio nell'Italia fascista

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A quarant'anni dalla legge Basaglia, che ha sancito la chiusura dei manicomi, riemergono le storie e i volti di migliaia di donne che in quei luoghi hanno consumato le loro esistenze. In questo libro sono soprattutto donne vissute negli anni del regime fascista: figure segnate dal medesimo stigma di diversità che, con le sue ombre, ha percorso a lungo la società, infiltrandosi fin dentro i primi anni del l'Italia repubblicana. All'istituzione psichiatrica fu consegnata, dall'ideologia e dalla pratica «clinica» del fascismo, la «malacarne» costituita da coloro che non riuscivano a fondersi nelle prerogative dello Stato. Su queste presunte anomalie della femminilità, il dispositivo disciplinare applicò la terapia della reclusione, con la pretesa di liberarle da tutte quelle condotte che confliggevano con le rigide regole della comunità di allora. La possibilità di avvalersi del manicomio al fine di medicalizzare e diagnosticare in tempo «gli errori della fabbrica umana» non fece che trasformare l'assistenza psichiatrica in un capitolo ulteriore della politica sanitaria del regime, orientata alla difesa della razza e alla realizzazione di obiettivi di politica demografica, attraverso l'eliminazione dalla società dei «mediocri della salute», dei «mediocri del pensiero» e dei «mediocri della sfera morale». Fu così che finirono in manicomio non solo le donne che si erano allontanate dalla norma, ma anche le più deboli e indifese: bambine moralmente abbandonate, ragazze vittime di violenza carnale, mogli e madri travolte dalla guerra e incapaci di superare gli smarrimenti prodotti da quell'evento traumatico. In questo libro i percorsi di queste esistenze perdute vengono finalmente ricomposti, attraverso l'uso sapiente di una ricchissima documentazione d'archivio: diari, lettere, relazioni mediche, cartelle cliniche. Materiali inediti che raccontano la femminilità a partire dalla descrizione di corpi inceppati e che riletti oggi, con sguardo consapevole, possono contribuire a individuare l'insieme dei pregiudizi e delle aberrazioni che hanno alimentato – e in modo nascosto e implicito continuano ancora oggi ad alimentare – l'idea di una «devianza femminile», da sradicare per sempre dal nostro orizzonte culturale.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788868437589
Argomento
History
Categoria
World History

Appendice Scrivere la follia

Se le cose terrene ti hanno dimenticato, di’ alla terra silenziosa: io scorro.
E all’acqua rapida, parla: io sono.
Rainer Maria Rilke, Sonetti a Orfeo (1923)
Le lettere delle ricoverate sono state rinvenute all’interno dei loro fascicoli personali. La conservazione di questi scritti si deve alla scrupolosa attività di censura dispiegata dall’istituzione nei confronti di quante, con la loro voce, tentarono di mettersi in contatto con interlocutori diversi – medici, famigliari, autorità – e aprire una breccia nei confini che delimitavano la reclusione. Tutti i manoscritti sequestrati sono stati prodotti da una minoranza di donne, composta da coloro che avevano un livello sufficiente di alfabetizzazione; diversamente questi documenti non sarebbero mai esistiti.
Un atto di volontà annoda tra loro le scritture: dietro ogni grafia – dai tratti a volte decisi, altre volte incerti – si coglie, infatti, non soltanto la necessità di comunicare i dettagli, quasi sempre drammatici, dell’esperienza vissuta, non semplicemente il desiderio di stabilire un legame emotivo con i destinatari, ma il bisogno di affermare se stesse, di dimostrare che, pur vivendo in un contesto che aveva azzerato ogni margine di autonomia, si era ancora in grado di essere persone dotate di capacità di pensiero. Le donne che hanno scritto durante il periodo della degenza in manicomio smentiscono il luogo comune costruito dall’istituzione totale che le voleva vittime o carnefici, mai creature capaci di esprimere una soggettività autonoma; le loro scritture dimostrano il contrario ed esprimono la determinazione di continuare a essere considerate umane in un «non luogo» che le identificava unicamente come «casi clinici».
Per questa ragione si è scelto di presentare ogni lettera con la diagnosi riportata in calce sulla cartella clinica e con i dati anagrafici delle autrici, per poi lasciare spazio alla semplicità scarna dei discorsi, al loro contenuto dimesso, rivolto ai piccoli fatti quotidiani e impastato soprattutto di dolore. Nei temi delle autobiografie è possibile scorgere il mondo che le ha ispirate: la ribellione al conformismo, la schiettezza dei comportamenti, la disperazione, la denuncia di violenze e soprusi, l’urgenza di esprimersi e i tentativi frustrati.
Queste donne non riuscirono a farsi capire. Dai loro drammi di persone travolte da un destino incontrollabile, dalle loro testimonianze affidate a un foglio di carta scaturisce un fascino sottile che induce a prestare attenzione alle tante richieste condannate all’indifferenza. È stato proprio per includere le parole delle escluse nel nostro linguaggio se esse sono state trascritte nella loro forma originale e consegnate, per la prima volta, al mondo esterno.

Marianna R.

14 anni, nubile, proprietaria, entra per la prima volta su richiesta del fratello nell’agosto 1892, esce migliorata nel novembre 1894, diagnosi: pazzia isterica con pervertimento morale; rientra nell’aprile 1895, esce guarita nell’agosto 1897, diagnosi: pazzia isterica (pazza morale).
6 genn. 1893
Cara Madre, ho ricevuto la vostra lettera ed ho letto; che novità, che se non mi levo questa fissazione alla mente, non tornerei a casa. Tanto piacere io questo volevo sentire, sono molto contenta di rimanere qua, perché da che me ne sono partita mi ho riposato di tutto; tanto dal dormire, del mangiare e del letto, io qua sono molta contenta. Se poi voi non siete contenta, accomodate tutte le cose; altrimenti, non voglio venire un’altra volta a patire come prima; non mi scrivete più delle fissazione; perché vi dico che questo è il mio temperamento; e non è una malattia, come la nervatura, che si può guarire; perciò vi ripeto fatemi stare qua e così cresciendo de’ anni io mi farò Suora. Saluta la cara nonna, la zia e Donna Clara con le sue figlie Maria, Giulietta e Lucia.

Anna B.

18 anni, nubile, donna di casa, entra nel febbraio 1901, esce guarita nel settembre 1901, diagnosi: mania acuta.
Carissima Sorella,
mi perdoni se non le ho scritto, che sono stata molto negligente nel mio dovere. Cara Sorella non ho trovato nulla di contento nel ritornare d’Assisi in Aquila. Il mio cuore non poteva star tanto tempo in questa agitazione in cui mi trovo. Ho visto molte cose, ma io stavo sempre fissa con te, nel pensare al gran male che ho fatto nel separarmici. Ma non sono stata io come tu l’hai ben visto che mi hanno rimandata in furia ed in fretta. La mia vita mi sembra troppo addolorata. Sono andata due giorni in carrozza di continuo […]. Mi ho consumato tutto da parte mia e mi sono molto vergognata che non ho più forza di andare a nessuna parte. La zia Concetta si ha preso la premura di farmi rimettere, essa così ha detto, mi ha voluto per forza mandare a Teramo in uno stabilimento dove ci sono molte donne, che io non mi ci so proprio vedere. Mi vedo come un’anima smarrita che non ritrova pace in nessuna parte, mi è dispiaciuto moltissimo di lasciar di studiare e specialmente la musica che mi piaceva tanto. Che cosa dirà Padre Maestro del lungo allontanamento che ho fatto? Mi credevo di trovarmici bene in casa della zia, ma tutto il contrario mi sembrava veramente un carcere. D’uscire a passeggio non avevo voglia, perché le scarpe rotte, le giornate non tanto buone e mi rimanevo sempre sola. Mi mettevo a piangere certe volte come una disperata. Dio volesse che mi facesse rivenir con te. Prega la Madre Generale che mi facesse di nuovo ritornare in codesto istituto che farò tuttociò che mi comandano e con l’aiuto di Dio spero che la mia preghiera sarà esaudita così un giorno mi potrò ben vedere vestita con l’abito di S. Francesco e star sotto l’ubbidienza comandata. Ho avuta un po’ la testa stordita per il viaggio sprecato che ho fatto. Ma con la buona volontà ferma veramente mi voglio mettere di studiare acciò un giorno mi potrò trovare contenta come lei desidera. Madre, fiduciosa mi volgo a lei, che ha un cuore veramente buono di perdonarmi e di farmi rimettere nel numero delle sue figlie. Tanti saluti a tutte le monache e le ragazze. Addio, non ho altro da dire le chiedo la santa benedizione e mi dico sempre affettuosissima
sorella Annina

Elisabetta V.

25 anni, nubile, povera, entra nel dicembre 1898, trasferita nel luglio 1904 ad Aquila, diagnosi: stato maniaco.
Rispettabile dott. Raffaele, ti anticipo innanzitutto il buon capodanno, augurandoti ancor altri venti anni felici. Ad altri venti anni ti augurerò quello che la capa mi ispira. Domani, essendo il capo dell’anno, desidero ardentemente un po’ di respirare aria libera, a veder la banda […] Non sono né matta e né infiammata, come mi dichiarano in tutti i minuti le infermiere che mi maltrattano come la più infame prostituta. In casa mia ho fatto sempre il mio comodaccio e ti raccomando perciò a volermi favorire la gentilezza di raccomandare alle Riverenti suore di darmi la libertà, almeno di farmi essere indipendente se pur dovrò stare ancora poc’altri dì e per conseguenza farmi dare le chiavi […] affinchè vado domani via a vederla fuori la musica. È quasi un anno che ho lasciato la società, il divertimento e il lusso e non mi fido più di proseguire in romitaggio. Se tutto è impossibile allora voglio andarmene alla mia provincia (Aquila) onde supplicare al signor Sindaco per essere ammessa al mio antico impiego cioè da insegnante all’asilo infantile […]. In conclusione, domani voglio vedere la musica o uscire e in seguito ottenere quanto ho già scritto […]. Vorrei sapere dal signor Dottore se è stata la pettegola la vecchia Rosina M. che ha palesato la mia malattia alle matte […]. Se devo stare ancora qualche giorno voglio qualche cosa di più perché ho rimesso un po’ d’appetito e la pietanza non mi basta signor Raffaele […]. Mentre scrivo odo la musica, corro alla spiazza per vedere la banda; ma il cuore si rattrista vedendosi non appagato, sono dai muri circondata. Colla speranza di uscire domani, le stringo forte la mano.

Maria C.

42 anni, nubile, donna di casa, entra nel novembre 1902, muore nell’agosto 1910 per enterite cronica, diagnosi: paranoia originaria poi modificata in psicosi periodica.
Se posso trovarmi contenta in manicomio? È impossibile perché io dico e ripeterò cento e mille volte che i poveri disgraziati malati che non capiscono ci si trovano contenti ma nei momenti di riflessione e con un poco di giudizio dicono tutti che per i dottori e le suore ci possono stare, ma per alcune infermiere non possono starci e sono addolorati e dispiacenti che il sig.re Direttore ed i buonissimi medici dopo che si hanno ristabiliti non ci rimandano alle case loro in santa pace […]. Adesso poi le racconterò il mio dolorosissimo romanzo in Manicomio però voglio che sia segreto e per questo l’ho messo in ultimo per non farlo sentire ai testimoni di alcune infermiere che se mi vedono di scrivere incominciano: Marietta scrive? A chi scrivete? per questo difetto della curiosità, della gelosia e dell’invidia e dell’ignoranza che regnano in questo manicomio e non vedo l’ora e il momento di uscire perché altrimenti mi farà morire o pazza o consumata […] perciò pensateci bene sig.re Direttore e mi rivolgo a lei come fosse un Re che un povero carcerato desidera la grazia della libertà ed il Signore lo compenserà il bene che fate a questa povera giovinetta colma di dispiaceri e timori per malati e sevizie di queste infermiere […]. Ora le dirò delle infermiere e malati che fin alle ore tre di questa mattina sono stata bersagliata. Il sig.re dottore Clapis non mi dice altro che mi stia tranquilla ma come ci possa essere tranquilla o sig.re Direttore una volta che hanno formato la settima contro di me povera innocente che mi sta succedendo come il figliuolo di Dio che non gli ripetevano altro che insulti e beffeggiamenti! Perciò le raccomando silenzio ed agite contro questi miei persecutori […]. Dunque a me mi pare o gentilissimo Signore che loro se ne abusano della mia bontà.

Crocifissa G.

33 anni, nubile, donna di casa, entra nel gennaio 1905, esce a richiesta dei parenti nel settembre 1907, diagnosi: demenza prima tipo ebefrenia.
Teramo, 30/11/1905
Caro padre, venitemi a riprendere decisamente, io voglio tornare a casa, non più qui, non più!… Se sapeste! Se sapeste!… Venite: e non dimenticatevi di portarmi i vestiti nuovi e biancheria, essendo sciupata quel po’ che portai: eppoi nel lavarla è stata unita ad altra piena di sporchizie, tanto ch’io non posso più indossarla. Credetemi: ed eseguite quanto vi ho detto. Non potendo voi, lasciate che venga la zia. Io non fo che attendervi di giorno in giorno, d’ora in ora per rivedervi! Da un anno non ho più notizie della famiglia! Dio lo sa quante trepidazioni! Quanti pensieri orribili turbano la mia mente! Vogliate pertanto diminuire le mie angustie e cambiare questa esistenza infelice che non ho più forza di tollerare! Non altro. Tanti saluti a tutti, baci ai bambini.
Teramo, 3 gennaio 1906
Caro fratello, scrissi ultimamente a papà pregandolo di venirmi a prendere ma non ho ricevuto risposte. Vorrei sapere perché tanta trascuratezza e tanto mistero! Son malata assai più dell’anno scorso e se non venite a prendermi ne morrò!! Ve l’assicuro! Se mi vedeste! Forse non mi riconoscereste… Son così cambiata! Certo qui son nauseati… stanchi! Di tanta responsabilità! Ne convengo! E non vorrei che altri avessero a soffrire per me. No, non me lo perdonerei per tutta la vita! Perciò son malata e bisogna che torni a casa. Se non potrò guarire spetta solo a me il peso del sacrifizio e del fatale destino! Che Iddio mi diè! Ringraziando sempre loro, pregandoli nello stesso tempo a perdonarmi il disturbo arrecato. Dunque vieni subitamente tu e Clementina e torneremo uniti.
Teramo, 20.4.906
Cara cugina, mi trovo a Teramo da quindici mesi. Finalmente adesso grazie a Dio tornerò a casa, fra pochi giorni. Io scrivo a te per pregarti di un favore, ma guai se tu rifiuti! Sarebbe una rovina! E tu poi?! Quale rimorso!! Senti: sono malata, molto molto malata, tanto che tu non potresti mai immaginare! Credimi, sa, credimi e non deridere anche te il mio immenso dolore al quale sono in preda! Devo assolutamente parlare col dottore Oreste Gubitosi non posso farne a meno, è necessario! Tuo marito Peppino mi farà piacere di parlarle di me, della mia malattia gravemente inoltrata! E poi… pregarlo di venire a Popoli dove mi troverà. Indi parlarle! Ma… s’ei rifiutasse? Non sia mai! Un momento… poche parole! Ma venga, venga! Mi raccomando non essere cattiva come sempre. L’ultima volta che torno a pregarti! Poi… addio per sempre! Saluti a tutti, baci alle bambine.
Teramo, 16 maggio 1906
Caro Peppino,
mi trovo rinchiusa, in questo carcere, così, in mezzo ai pazzi e a momenti fan diventare pazza anche me! Son costretta a fare una vita… Dio lo sa come! Se mi vedeste, non mi riconoscereste… son così cambiata!… Un soffio basta a farmi cadere. Sì, perché senza mangiare, né bere, né riposare un minuto, ed arrabbiarsi ogni momento, perché non sempre posso tollerare i grandi insulti dei pazzi che fanno a me ed alla mia famiglia. Le serve di questo luogo sporco, poi, scostumatissime persone, ignoranti, sporche donne: è qualche cosa di straordinario! Per me non ho più pazienza, di soffrire tutto questo! Venne mio fratello a riprendermi, e non ci fu caso di partire, perché il Direttore fece alcune riflessioni, dicendo a mio fratello che poteva tornare fra una decina di giorni, dovendo fare alcune pratiche. Ma son trascorsi due mesi e non si sol avere il bene di finirla con questa celebre commedia! Adesso mi prendono la scusa che papà è malato e non posso tornare. Ma io non ho che farci all’ospedale, non sono mica una miserabile oppure un’orfana; ci stiano pure gli straccioni ed i pazzi in questo luogo temerario e non avessero più ardire di insultare certe persone e basta! Ve lo devo dire? Sono svergognati abbastanza. Credimi; perciò avvisa la mia famiglia perché venisse a prendermi sul momento e dille da parte mia: non dessero più retta ai suggerimenti stolti degli altri, perché si troveranno a male. Anzi, vieni tu, se è possibile, perché non posso più...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione
  6. Malacarne
  7. I. L’invenzione della normalità
  8. II. Essere donne tra controllo e repressione
  9. III. Il disegno eugenico fascista
  10. IV. La bonifica della femminilità
  11. V. Malacarne
  12. Postfazione Eredità e trasformazioni
  13. Appendice. Scrivere la follia