La luminosa virtù
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Un'idea di costituzione nel Mezzogiorno del Settecento

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Un'idea di costituzione nel Mezzogiorno del Settecento

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«La bontà relativa delle leggi consiste nel rapporto collo stato della nazione alla quale vengono emanate: la natura del governo; il genio e l'indole de' popoli; il clima; la natura del terreno; la situazione locale; la maggiore o minore estensione del paese; l'infanzia o la maturità del popolo; e la religione, questa forza divina che, influendo su i costumi de' popoli, deve richiamare le prime cure del legislatore. Lo scopo che io propongo è tutto diverso da quello di Montesquieu: egli cerca in questi rapporti lo spirito delle leggi ed io vi cerco le regole. Egli procura di trovare in essi la ragione di quello che si è fatto ed io procuro di dedurne le regole di quello che si deve fare». Gaetano FilangieriCome riformare uno Stato nell'età dell'assolutismo? È questo il quesito che affronta la Scienza della legislazione di Gaetano Filangieri, una delle opere più significative del pensiero civile italiano dell'Illuminismo. La tesi essenziale di Filangieri era che l'opera riformatrice dovesse cominciare dalle leggi, in modo da poter stabilire attraverso di esse un corretto rapporto tra re e sudditi. Il grande pensatore napoletano prefigurava, in tal modo, sulla scia di Montesquieu, una forma di Stato che si sarebbe solo con difficoltà affermata nell'Europa continentale: la monarchia costituzionale. Filangieri si ispirava soprattutto alla Rivoluzione americana, che alla base dell'edificio istituzionale poneva la virtù dei cittadini. Con confuciano pragmatismo, il giovane filosofo napoletano capì che nessuna norma avrebbe potuto funzionare senza la spontanea adesione e la compartecipazione di governanti e governati. Era necessaria una profonda riforma morale che doveva partire dal basso, attraverso un sistema di educazione civile diffuso, a diversi gradi, in tutto il paese, senza distinzioni di luogo e di censo. Conosceva Filangieri l'opera di Confucio? Certamente sì. Un gesuita napoletano aveva tradotto per la prima volta nel 1590 i classici del grande filosofo orientale e sempre a Napoli, nel 1732, era stato fondato da Matteo Ripa il Collegio dei Cinesi. Nella popolosa capitale delle Sicilie, lungo le vie del mare, confluivano le grandi opere del pensiero politico. Con straordinario acume, dalla sua villa di Vico Equense, Filangieri immaginò un'utopia possibile per il Mezzogiorno, nella convinzione che fosse quella l'unica via percorribile per spianare la strada a un nuovo mondo di pace e di virtù. Nella sua opera il pensatore napoletano enuncia quelli che ci appaiono ancora oggi come veri e propri principî universali, validi in tutte le democrazie: aborrire la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti interni ed esterni; promuovere la felicità dei cittadini con un sistema legislativo chiaro e uniforme su tutto il territorio nazionale; abolire il regime feudale; favorire le opere dell'intelletto e le libere associazioni; separare Stato e Chiesa e ridimensionare la proprietà ecclesiastica; istituire un sistema gratuito di pubblica istruzione e favorire i cittadini virtuosi; garantire la libertà di espressione; condividere con gli Stati europei i valori comuni di tranquillità, sicurezza e diritto delle genti; trasformare la società in modo graduale con un piano di riforme e col ripudio di ogni violenza; assicurare il benessere economico dei cittadini. Scelti e commentati dall'appassionata e sapiente cura di Eugenio Lo Sardo, i brani più significativi e curiosi di questa «utopia civile» ispirata al Mezzogiorno d'Italia vengono qui proposti in un agile volume che riporta a evidenza il pensiero di uno dei più grandi filosofi politici del nostro patrimonio intellettuale.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788868437725

III. Della giusta pena

Il Libro terzo è un vastissimo affresco della storia del diritto, in cui i principî fondamentali della scienza giuridica vengono esposti in una concatenazione estremamente stringata e logica. Per giudicare la corretta proporzione tra pena e delitto bisognava, secondo il Filangieri, valutare attentamente il sistema politico in cui un crimine era stato commesso. Così ad esempio l’esilio dalla patria poteva costituire la pena capitale in un governo democratico ed essere la pena minima in una monarchia, e nello stesso Stato avrebbe rappresentato «una gran pena» per l’aristocrazia e «una pena molto piccola per la plebe». Ma nel confronto con il rigore egualitario del Beccaria il progetto filangieriano appare più condizionato dalla realtà giuridica degli Stati di Ancien régime, anche perché fondato su una maggiore attenzione al contesto politico e culturale su cui avrebbe inciso la legge penale. La pena di morte nei paesi «dove la dottrina della trasmigrazione delle anime fosse universalmente ricevuta» avrebbe provocato, a suo dire, «meno impressione». Nell’analisi delle dottrine giuridiche si inserivano quindi considerazioni di altra natura che preavvertivano quel sensibile mutamento da alcuni definito come passaggio dal neoclassicismo al preromanticismo, o ancora dal meccanicismo newtoniano all’organicismo e vitalismo di Georges-Louis Buffon e Denis Diderot e, a Napoli, di Domenico Cirillo. Era una nuova sensibilità che si stava affermando e richiedeva una più spiccata attenzione antropologica, scientifica e religiosa.
Filangieri offre in queste pagine una accurata ricostruzione di alcuni aspetti del diritto romano in età repubblicana. È in particolare attratto dalla formazione delle giurie in campo penale. La delicatezza dei legislatori di Roma, fu, a suo dire, ammirevole poiché non affidarono ad un corpo professionale l’esercizio della legge bensì a cittadini di riconosciuta probità. Gli imputati erano autorizzati a rifiutare quei componenti delle giurie da loro ritenuti, per ogni motivo, sospetti e a farli sostituire. Totalmente diversa era la situazione delle Sicilie, dove una pletora di diverse magistrature con varie competenze e magistrati di professione esercitavano gli Arcana iuris.
Un solo paese in Europa aveva un sistema garantista simile a quello romano: l’Inghilterra. Lì i depositari delle leggi non erano «un corpo permanente di ministri della corona», composto da pochi «dipendenti mercenari» del capo della nazione, ma, viceversa, uomini della stessa condizione economica e sociale del reo, riconosciuti dall’accusato come imparziali e incaricati di esprimere il loro giudizio sul singolo caso loro affidato. Ancora maggiori erano le garanzie per gli imputati di reati gravissimi che altrove venivano giudicati quasi sempre senza processo.

Giurie popolari o magistrati di nomina regia?*

Dare ad un Senato permanente la facoltà di giudicare; rendere più spaventevole agli occhi del popolo il magistrato che la magistratura; affidare a poche mani un ministero, le funzioni del quale esigono più integrità che lumi, più confidenza dalla parte di colui che deve esser giudicato, che cognizioni dalla parte di colui che dee giudicare; obbligare il cittadino ad esser giudicato da certi uomini, de’ quali questo è l’unico mestiere e che la consuetudine indura sovente piuttosto per le conseguenze de’ loro errori, che non insegni loro a preservarsene; diminuire, o, per meglio dire, rendere quasi nullo quel dritto prezioso che aver dovrebbe ogni uomo nelle gravi accuse, di escludere que’ giudici non solo che possono manifestamente essere sospetti di parzialità, ma quelli ancora che per leggierissime cause meritar non potrebbero la sua piena confidenza; fare, in una parola, di un’arte che tutta si raggira nell’esame de’ fatti, il patrimonio esclusivo di un ristrettissimo corpo; funesto e spaventevole metodo è questo, che le nazioni, dove la libertà civile del cittadino è stata più rispettata, han giustamente abborrito, ma che il concorso di molte cause ha introdotto da gran tempo nell’Europa e che abolir non si potrebbe senza correggere e riformare la legislazione stessa, la mostruosa imperfezione della quale lo rende oggi un male necessario. Le vicende della criminale giudicatura presso i Romani ci somministrano de’ lumi molto opportuni per illustrar quest’interessantissimo oggettoa.
In Roma, discacciati i re, i consoli, che sotto diversi nomi ereditata avevano una gran parte delle loro spaventevoli prerogative, conservar non potettero per lungo tempo quella che dava loro il dritto di sovranamente decidere della sorte de’ cittadini ne’ criminali giudizi. Bruto, che colla sua sola autorità aveva condannati alla morte i suoi figli e gli altri complici dell’istesso attentatob, aveva data una gran lezione alla sua patria, nel tempo istesso che aveva difesa la sua libertà. I Romani si avvidero quanto pericolosa fosse un’autorità della quale per altro egli avea fatto un uso così prezioso. Essi videro che la mano onnipotente del console poteva opprimere l’innocenza coll’istessa facilità colla quale oppressi aveva i vili partigiani de’ Tarquini; che dall’istesso fonte poteva scaturire la giustizia e la violenza e che coll’istessa autorità, colla quale si era punita la bassezza, si poteva spaventare il patriottismo e la libertà. Si pensò dunque di correggere questo vizio della nascente costituzione e si trasferì all’assemblea del popolo l’esercizio di una prerogativa ch’è sempre pericolosa quando non è divisa tra molti, quando è affidata ad una magistratura molto potente o per la durata della sua carica o per l’estensione del suo potere. La legge Valeria dette il primo passo; le leggi delle XI[I] Tavole dettero il secondo. Quella stabilì l’appellazione al popolo da’ decreti de’ consoli che riguardavano la vita de’ cittadinic e queste tolsero interamente a’ consoli la cognizione delle criminali accuse. Esse stabilirono che un cittadino romano non potesse esser condannato alla morte che ne’ grandi stati del popolo, o sia ne’ centuriati comizid e che non potesse esser condannato ad una pena pecuniaria che ne’ comizi per tribùe.
Nella legge si trovava la pena del delitto e ne’ comizi si discuteva della verità del fattof, o si nominava dal popolo il questore che ne doveva in suo nome giudicare col criterio de’ giudici che la legge gli davag.
L’ingrandimento della repubblica; la maggior frequenza de’ delitti; gl’inconvenienti che vi erano nel convocare troppo frequentemente i comizi; i disordini che nascevano da questa viziosa riunione della facoltà legislativa coll’esecutiva richiedevano un temperamento a questo nuovo piano, che conservar non poteva tutta la sua estensione senza produrre almeno l’impunità de’ delitti. Si vide che vi era bisogno di alcuni tribunali fissi per gli affari criminali, come vi erano per gli affari civili. Si stabilirono dunque le qaestiones perpetuaeh. Il loro numero da principio non fu che di quattro: Silla l’estese fino ad otto e le leggi Giulie ne accrebbero per la seconda volta il numeroi. Ogni tribunale esercitava una questione ed ogni questione aveva per oggetto una sola classe di delittij. In ciaschedun tribunale presiedeva un pretore ed un magistrato inferiore che chiamavasi giudice della questione e l’uno e l’altro si mutava in ogni annok.
Questi due magistrati non facevano che presedere, dirigere e preparare il giudizio. L’esame del fatto era riserbato ad alcuni giudici, la scelta de’ quali dipendeva dalla sorte e dal consenso delle parti.
La delicatezza de’ legislatori di Roma fu ammirabile riguardo a quest’oggetto. Quattrocentocinquanta cittadini di conosciuta probità venivano in ogni anno nominati dal pretore della città, o dal peregrinol, per esercitare in tutt’i tribunali le funzioni di giudice. I loro nomi erano scritti in un registro pubblico, e l’album iudicum era a tutti noto. Il pretore, ricevuta legittimamente l’accusa, gittava in un’urna i loro nomi. Alla presenza delle parti, il giudice della questione ne tirava a sorte quel numero che la legge prescriveva per quel giudiziom.
L’accusatore e l’accusato rifiutavano allora quelli ch’essi credevano sospetti e questi erano sostituiti dagli altri, che ’l giudice della questione tirava nell’istessa maniera dall’urnan. Finché esistevano altri nomi nell’urna, finché il numero de’ quattrocentocinquanta giudici non era esaurito, la ripulsa era sempre libera ed ognuna delle parti aveva il dritto di cercare dalla sorte un altro giudice, nel quale egli aver potesse una confidenza maggiore. In alcuni casi la legge permetteva all’accusatore ed all’accusato di nominare essi stessi i giudici e di poterli scegliere da tutto il popolo, senza esser costretti a prender quelli ch’erano scritti nel rollo dal pretoreo. Vittime infelici della stranezza delle leggi e della viziosa ripartizione della giudiziaria autorità sarebbero sembrati, agli occhi de’ liberi romani, tutti que’ disgraziati cittadini che noi conduciamo al patibolo sul giudizio di due o tre giudici, che gl’intrighi di un cortigiano hanno il più delle volte intrusi nel tempio di Temi e de’ quali la più giusta diffidenza delle parti non potrebbe escluderne neppure un solo, senza intraprendere un arduo e pericolosissimo giudizio nel quale quasi sempre il giudice resta superiore, perché i suoi colleghi son quelli che debbono giudicarlo e l’infelice cittadino che l’ha intentato, invece di un giudice dubbio ne acquista uno sicuramente inimico. Que’ fieri repubblicani, estremamente gelosi della civile libertà, non ebbero confidenza in altra mano per depositarvi il sacro ministero della giustizia, se non in quella che l’arbitrio de’ litiganti avesse giudicata immune da qualunque parzialità: «neminem voluerunt majores nostri», diceva Cicerone, «non modo de existimatione cuiusquam, sed ne de pecuniaria quidem re minima iudicem esse, nisi qui inter adversarios convenisset»p. Altra condizione non cercavano essi nella persona del giudice, che una probità conosciuta, una sufficiente logica e più di ogni altro la mutua confidenza delle parti. La cognizione del dritto era per essi inutile. Il pretore era quello che l’istruiva di ciò che aveva rapporto al drittoq e adattava il fatto da essi conosciuto alla legge, della quale egli era l’immediato depositario: il pretore era quegli che veder doveva se il giudizio era stato legittimamente introdotto ed egli era quegli che doveva invigilare affinché l’ordine giudiziario prescritto dalle leggi non venisse alterato. Tutt’i materiali opportuni all’appuramento del fatto erano dal giudice della questione disposti e somministrati. Egli ordinava che i testimoni si trovassero in quel tale luogo e in quel tale giorno nel quale dovevano da’ giudici sentirsi le loro deposizioni. Egli raccoglieva le scritture e i monumenti, che dalle due parti si esibivano per le loro mire opposter. I giudici non facevano altro ch’esaminare la verità del fatto e gittare in un’urna la lettera iniziale ch’esprimeva il loro giudizios. Questa secretezza di suffragi, agli apparenti vantaggi che racchiudeva, univa però un vizio reale che la poteva render molto perniciosa. Come punire l’iniquità di un giudice, quando il suo giudizio è occulto? Ma la moltiplicità de’ giudici, la brieve durata della loro giudicatura e la libertà delle ripulse rendeva poco spaventevole questo picciolo vizio di un metodo così degno della libertà de’ tempi ne’ quali ebbe originet. Ed in fatti finché Roma fu libera, o finché la moribonda libertà reclamava ancora i suoi diritti contro il nascente dispotismo, il sistema della criminale giudicatura non fu alterato. I primi tiranni dell’impero dovettero rispettare questo antico baloardo della civile libertà. I loro passi piccioli ma frequenti non permisero alla tirannia di giugnere così presto al termine della sua perfetta onnipotenza. Per dare l’ultima scossa all’edificio della civile libertà, sostenuto in gran parte da questo ben ordinato sistema de’ criminali giudizi, essi dovettero aspettare quel momento nel quale i Romani, stanchi ormai dagli urti continui e da’ perpetui contrasti dell’ambizione e della libertà, cercassero finalmente il riposo e la quiete nella vile sofferenza e nello stupido letargo della depressione e della servitù. Allora fu che, trasferiti i comizi nel senatou colle altre prerogative della sovranità del popolo, questo corpo permanente di cortegiani ambiziosi, o di schiavi avviliti, acquistò anche quella di conoscere di que’ delitti che il popolo o da se stesso giudicava, anche dopo l’istituzione delle perpetue questioniv, o che alle volte venivano coll’appellazione portati ne’ comizi dopo il giudizio del tribunale competentew. Questa fatale alterazione dell’antico sistema fu l’epoca infelice del compimento della servitù de’ Romani. La tirannia poté allora gloriarsi di potere a suo talento disporre de’ giudici e delle leggi. I delitti di maestà in primo capo, de’ quali il popolo si aveva sempre serbata la cognizione, furono d’allora innanzi portati al senato ed una gran parte de’ delitti furono compresi in questa classe. Il cittadino accusato in quest’assemblea non poteva più disfarsi di un giudice iniquo o sospetto ed il giudice non poteva più ritornare nella condizione privata. Le leggi rimasero senza vigore e divennero inefficaci a garantire la civile libertà, subito che la facoltà esecutiva affidata venne in mani così indegne di esercitarla ed il cittadino, costretto ad esser giudicato da uomini che non poteva più escludere quantunque fossero interamente privi della sua confidenza, non trovò più quell’asilo che aveva fino a quel tempo difesa la sua privata sicurezzax.
Che l’esempio di Roma sia dunque il fondamento delle nostre idee in un argomento che tanto interessa la civile libe...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Presentazione
  6. Il Mondo nuovo di Eugenio Lo Sardo
  7. Nota all’edizione
  8. La luminosa virtù
  9. I. Felicità e Costituzione
  10. II. Popolazione e ricchezza. La riforma agraria e la leva obbligatoria
  11. III. Della giusta pena
  12. IV. Educare alla virtù
  13. V. La religione dei filosofi