Breve storia dell'emigrazione italiana in Svizzera
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Breve storia dell'emigrazione italiana in Svizzera

Dall'esodo di massa alle nuove mobilità

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Breve storia dell'emigrazione italiana in Svizzera

Dall'esodo di massa alle nuove mobilità

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«Nel Mondiale giocato in Brasile nel 2014, la Svizzera è stata la nazionale più cosmopolita. Paradossalmente, la nazionale elvetica è diventata la più internazionale del mondo, proprio qualche mese dopo il 9 febbraio del 2014. Quando, per una manciata di voti, passò, per la prima volta nella sua lunga e travagliata storia di impulsi anti-stranieri, l'iniziativa contro l'immigrazione di massa che fece tremare le cancellerie di mezza Europa e funse da modello per i fautori della Brexit».In fatto di migrazione, la Svizzera rappresenta un caso emblematico e, insieme, un modello ricco di paradossi. Nel 2014, quando per una manciata di voti passò l'iniziativa contro l'immigrazione di massa, la Svizzera espresse anche la nazionale più cosmopolita del Mondiale in Brasile. È il paese europeo che nel secolo scorso ha conosciuto il tasso d'immigrazione più alto del continente, assorbendo quasi la metà dell'emigrazione italiana del secondo dopoguerra. In settant'anni ha raddoppiato la sua popolazione, passando da quattro milioni agli oltre otto odierni, e la migrazione è al centro del dibattito da sempre. Nel 1948, per la prima volta nella sua storia, la Svizzera firmò un accordo di reclutamento di manodopera straniera, che divenne un modello per i successivi e cambiò per sempre la sua storia e quella del suo principale fornitore di donne e uomini, l'Italia. Paese dal quale, a partire dai trafori dell'Ottocento e per un secolo, sono giunti oltre cinque milioni di persone, la metà solo nel secondo dopoguerra. Ancora oggi, quella in Svizzera è la terza comunità italiana nel mondo. Concepita come temporanea, dopo qualche decennio divenne stanziale e rappresentò il carburante per la crescita e l'espansione dell'economia elvetica. Nessun paese europeo registrò performance così favorevoli e allo stesso tempo un così alto numero di morti bianche, che raggiunsero l'apice con la tragedia di Mattmark. Assopitosi il decennio delle tensioni xenofobe, all'inizio degli anni ottanta venne accantonata una possibile soluzione per migliorare le condizioni di chi contribuiva al progresso e al benessere del paese. Sono ormai lontani gli anni delle baracche, del «non si fitta agli italiani» o dei trentamila bambini clandestini. A tutt'oggi, la Svizzera è l'unico paese al mondo, oltre all'Italia, in cui l'italiano è lingua ufficiale. E l'italianità, pur tra alti e bassi, è riconosciuta, ricercata, apprezzata. Da un decennio si registra la ripresa di una nuova mobilità italiana: alle professioni specializzate si è unito il crescente numero di frontalieri e di chi è alla ricerca di un lavoro qualsiasi. Il rischio è che si ripropongano le questioni di un passato ricco di suggestioni e contraddizioni, che fanno della migrazione italiana in Svizzera un unicum senza precedenti.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788868437947
Argomento
Storia

IV. L’integrazione durante gli anni del razzismo: percezioni, cambiamenti e amare continuità

1. La Svizzera tra rappresentazioni, percezioni e divieti.

«Nel XIX secolo eravamo una nazione rivoluzionaria; oggi siamo una delle più conservatrici al mondo»1. Questo è uno dei passaggi che racchiude meglio il senso dell’Helvetisches Malaise (malessere elvetico) di Max Imboden, che determinò l’inizio del processo di revisione costituzionale in Svizzera2.
Oltre a denunciare l’involuzione di un paese nel bel mezzo del suo boom economico, malessere elvetico fu anche un modo per stimolare una riflessione più profonda su quanto stava accadendo a Losanna: siamo nel 1964 e nella città romanda si teneva l’Expo nazionale. La Svizzera voleva raccontarsi al mondo come un paese del tutto nuovo che si proiettava verso il futuro, avvertendo la necessità di mostrare come fosse cambiata e pienamente entrata nella moderna società dei consumi e dei trasporti individuali3. Furono quasi 12 milioni i visitatori che, per la prima volta, attraverso le tante novità, assistettero alla timida messa in discussione del passato4. Iniziarono a vacillare l’immagine del piccolo villaggio, la cartolina delle Alpi, l’idea di rappresentare ancora la Svizzera attraverso le narrazioni dei grandi viaggiatori del XVIII e del XIX secolo. Come nel resto dell’Occidente, anche qui ormai si era diffusa la società dei consumi. Motorizzazione e consumi di massa portarono al cambiamento repentino delle categorie sociali. La classe media, che ancora negli anni cinquanta era misurabile nel 7% dell’intera popolazione, in meno di un decennio corrispondeva a quasi la metà del paese. Basti pensare che già nel 1963, il 97% delle filiali della Migros – una delle principali catene della grande distribuzione – furono realizzate con il concetto del self-service5. La Svizzera stava cambiando e mentre assisteva a questo processo epocale iniziò una lunga riflessione su chi, materialmente, stava contribuendo al suo successo.
Per anni abbiamo considerato solo il punto di vista economico. È il momento di accordare maggiore attenzione all’aspetto umano. […] Dobbiamo renderci finalmente conto che i lavoratori stranieri non sono venuti in Svizzera unicamente a causa di una tensione congiunturale momentanea, ma che sono ormai diventati un fattore indispensabile della nostra vita economica. La nostra futura politica d’ammissione non potrà limitarsi a frenare l’entrata di nuovi lavoratori […] dovrà tendere piuttosto a mantenere e ad assimilare la manodopera che si è affermata. La norma derivata dai negoziati con l’Italia si muove in questo senso6.
Fu la prima volta, nella lunga tradizione di paese importatore di manodopera, che Berna mise in discussione l’idea di temporaneità della migrazione. La posizione del governo suscitò forti reazioni di parti sociali, contraenti e gestori finali di questo processo. Il mondo dell’impresa, contrario alle aperture in ambito sociale – che avrebbero favorito oltre modo la manodopera italiana –, chiedeva la possibilità di attingere a quella a basso costo dei paesi in via di sviluppo. Il sindacato, dal canto suo, già qualche mese prima della ratifica del nuovo trattato con l’Italia invitava a fissare un tetto massimo, corrispondente alle 500000 unità7. Ciò avrebbe significato un taglio di quasi un terzo degli stranieri presenti nel paese, che nel 1965 erano 840000 e rappresentavano il 14,2% dell’intera popolazione8. Tutto questo avvenne nel momento in cui si stava riaffacciando prepotentemente alla ribalta la paura dell’infiltrazione straniera.
L’Überfremdung, come già accennato, è un concetto degli inizi del XX secolo, ma fu dalla metà degli anni sessanta e per tutto il decennio successivo che il panico per l’invasione, l’inforestierimento, si pose al centro del dibattito politico e intellettuale della Svizzera.
Che significa infiltrazione straniera? Il giovanotto che nell’albergo prende il mio bagaglio, la cameriera ai piani, il barista, più tardi il portiere di notte, l’altro cameriere che serve la prima colazione, tutte queste persone che rendono piacevole il mio soggiorno in patria sono rispettivamente: uno spagnolo, una jugoslava, un italiano, ancora un italiano, un terzo italiano, un renano. Ignoro chi fa i piatti e chi lava le camicie. L’unico che parli dialetto svizzero è il proprietario. […] si fiuta un pericolo per la nazione […]. Da una parte tutto ciò che è sano, sacrosantamente giusto, nostrano e valido, in breve: svizzero. Dall’altra eserciti di estranei che piombano sul nostro benessere, sempre più piccoli e sempre più neri, calabresi, greci, turchi. […] alcuni si preoccupano per il fatto che gli italiani, del cui aiuto abbiamo bisogno, sono cattolici. Altri temono che i lavoratori italiani possano essere comunisti9.
Per Max Frisch, il differente credo religioso e l’anticomunismo non sarebbero sufficienti a spiegare l’avversione nei confronti degli italiani. Esso nascerebbe dalla paura che possano essere più bravi e più abili: «in ogni modo il loro ingegno è diverso, diverso per esempio nell’assaporare la vita, nell’essere felici». Tale percezione, nonostante gli svizzeri vivessero una condizione sociale privilegiata, sfociava in atti di disprezzo, generando facili stereotipi, soprattutto nei confronti dei meridionali.
Che i meridionali siano sporchi è, da parte nostra, una speranza: perché allora possiamo vantarci, se non sappiamo cantare, di essere almeno puliti. Ma nemmeno questa speranza trova sempre conferma: un medico condotto mi ha assicurato che gli italiani, al contrario dei pazienti locali, si presentano con i piedi lavati. […] Si ha un bel definirli manodopera straniera: sono creature umane. Diamo loro baracche e, appena possibile, anche appartamenti: un’inserzione apparsa in un quotidiano svizzero, per mezzo della quale si offriva un pollaio come alloggio per gli italiani, dev’essere considerata un’infelice eccezione10.
L’autocritica e il confronto con l’altro, tanto diverso ma strutturalmente funzionale ai dettami economici, inducono a dover ripensare anche alla storia della Svizzera, alla reputazione del paese e alla sua immagine internazionale. Per quanto riguarda gli italiani, «il risentimento, di cui sono spesso fatti oggetto, è naturale, perché figli di una grande cultura, meno abbienti e meno istruiti di noi, ci fanno sentire la loro possibile superiorità nell’arte del vivere»11. Detto diversamente, si può prendere in prestito la provocazione del dialogo più famoso de Il terzo uomo (Orson Welles, 1949): «Sai che diceva quel tale? In Italia, per trent’anni sotto i Borgia, ci furono guerre, terrore, omicidi, carneficine, ma vennero fuori Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera non ci fu che amore fraterno, ma in cinquecento anni di quieto vivere e di pace cosa n’è venuto fuori? L’orologio a cucù»12.
Sempre alla metà degli anni sessanta, Peter Bichsel, lo scrittore elvetico più noto dopo Frisch e Dürrenmatt, nel suo La Svizzera dello svizzero, raccontò in maniera chiara come gli svizzeri percepissero loro stessi: «gli svizzeri coltivavano la convinzione che l’immagine della propria nazione fosse frutto della loro capacità di fare comprendere linguisticamente cosa fosse la Svizzera. L’immagine che della Svizzera si aveva nel mondo e, soprattutto, l’immagine che gli svizzeri avevano del loro Paese sono state costruite durante il periodo della seconda guerra mondiale». Secondo Bichsel, l’essere stati risparmiati dal conflitto aveva contribuito a rafforzare l’autostima degli elvetici e un anticomunismo convinto13.
Questi stati d’animo e queste percezioni – aggiunti alle preoccupazioni di natura economica sollevate dalle parti sociali – posero inevitabilmente la questione stranieri al centro del dibattito pubblico e, di conseguenza, dell’agenda politica.
La risposta di Berna fu immediata. Il 9 febbraio 1965, il Consiglio federale adottò la doppia limitazione14. L’intento fu di riportare i lavoratori stranieri per ogni impresa al 95% sulla base di quelli presenti al 1° marzo 1965, così da vietare l’incremento del totale effettivo, con un conseguente funzionamento più restrittivo delle eccezioni. Questo provvedimento era stato preceduto da un altro del mese prima, che rendeva obbligatorio il permesso di soggiorno, senza cui i lavoratori stranieri non potevano entrare in Svizzera. Non sarebbe stato quindi più sufficiente vantare una semplice promessa di assunzione o un contratto di lavoro. E, inoltre, i permessi di soggiorno non sarebbero stati più rilasciati ai lavoratori stranieri entrati illegalmente.
Il tentativo di limitare gli ingressi – volto a calmierare la crescente paura dell’Überfremdung – produsse tuttavia effetti alquanto alterati: limitò il numero dei salariati, frenò lo sviluppo delle imprese in espansione e difese le aziende meno competitive. Conseguentemente, la mobilità della manodopera venne limitata, con l’obiettivo di impedirne il licenziamento da parte delle imprese più concorrenziali. Ne risultò, dunque, una sorta di protezionismo verso i settori più deboli dell’economia. Le autorità si mostrarono ben coscienti di questo inconveniente, ma al momento non disponevano di altre soluzioni.
Nell’ottobre dello stesso anno, una commissione di esperti creata dal Consiglio federale propose di introdurre, dopo una fase di adattamento, una limitazione del contingente globale a partire dal 1968, vale a dire un tetto massimo per tutto il paese, consentendo allo stesso tempo una maggiore mobilità agli stranieri, sia per settori che territoriale15.
Il provvedimento scatenò una dura presa di posizione da parte dei cantoni economicamente più deboli, che avvertivano il rischio di essere marginalizzati. Sull’altro fronte, le imprese interpretarono la limitazione globale come una sorta di protezionismo che avrebbe minacciato interi settori dell’economia. A favore dell’iniziativa si schierò solo il sindacato che, come abbiamo visto, da tempo chiedeva dei massimali. Visto il clima, il Consiglio federale cercò di attutire le tensioni varando altri due decreti volti a un’ulteriore limitazione globale: nel marzo 1966 del 3% e nel febbraio 1967 del 2%16. Tuttavia, nonostante si fosse registrata una diminuzione degli ingressi, già nel 1964 la percentuale di stranieri continuò a crescere, superando il 17% nel 196817.
Gli italiani con regolare permesso di soggiorno aumentarono, erano 531501 nel 1969 e raggiunsero l’apice nel 1974, con oltre 550000 presenze. Il 1972 fu l’anno della progressiva metamorfosi per la presenza italiana: se nel 1964 quasi l’80% di italiani era temporaneo (stagionali e annuali), meno di dieci anni dopo la quota scese al 45%. L’anno successivo, nel 1973, fu la prima volta in cui gli stagionali vennero conteggiati separatamente, aumentando la presenza italiana, nella quale fino ad allora non erano rientrati, visto che le rilevazioni si basavano sulle presenze al 31 dicembre18.
Nonostante fossero divenuti il problema e percepiti come meramente funzionali all’economia – un crescente costo sociale, il soggetto delle campagne anti-stranieri, che nei fatti si erano tramutate in campagne anti-italiani –, quasi inconsapevolmente iniziarono a sentirsi a casa. Se il calcio, la tv e il cinema in migrazione rappresentarono momenti per conoscersi e condividere un destino comune, servì ben altro, un tributo di sangue senza precedenti, per iniziare a farsi percepire come soggetti degni di riconoscenza.

2. La Coppa Italia si gioca in Svizzera.

Nel 1959 iniziarono i preparativi di quella che sarebbe passata negli annali del calcio dilettantistico come la Coppa Italia in Svizzera.
La Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera organizza nella prossima stagione calcistica 1960/61 una competizione calcistica riservata alle squadre italiane in Svizzera. Lo scopo di tale manifestazione oltreché sportivo è altamente benefico, proponendosi, nella fase finale della competizione, di raccogliere fondi per la costruzione di un Asilo d’Infanzia per i figli degli italiani in Svizzera19.
Per essere ammesse alla competizione, le squadre dov...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Prefazione di Sandro Cattacin
  6. Prologo
  7. I. Da antica presenza a esodo di massa
  8. II. L’accordo più importante della migrazione italiana
  9. III. Arrivano dalla provincia italiana: il miracolo economico dell’emigrazione
  10. IV. L’integrazione durante gli anni del razzismo: percezioni, cambiamenti e amare continuità
  11. V. La Svizzera esporta la disoccupazione: dalla stagione solidale alle nuove mobilità