IV. L’integrazione durante gli anni del razzismo: percezioni, cambiamenti e amare continuità
1. La Svizzera tra rappresentazioni, percezioni e divieti.
«Nel XIX secolo eravamo una nazione rivoluzionaria; oggi siamo una delle più conservatrici al mondo»1. Questo è uno dei passaggi che racchiude meglio il senso dell’Helvetisches Malaise (malessere elvetico) di Max Imboden, che determinò l’inizio del processo di revisione costituzionale in Svizzera2.
Oltre a denunciare l’involuzione di un paese nel bel mezzo del suo boom economico, malessere elvetico fu anche un modo per stimolare una riflessione più profonda su quanto stava accadendo a Losanna: siamo nel 1964 e nella città romanda si teneva l’Expo nazionale. La Svizzera voleva raccontarsi al mondo come un paese del tutto nuovo che si proiettava verso il futuro, avvertendo la necessità di mostrare come fosse cambiata e pienamente entrata nella moderna società dei consumi e dei trasporti individuali3. Furono quasi 12 milioni i visitatori che, per la prima volta, attraverso le tante novità, assistettero alla timida messa in discussione del passato4. Iniziarono a vacillare l’immagine del piccolo villaggio, la cartolina delle Alpi, l’idea di rappresentare ancora la Svizzera attraverso le narrazioni dei grandi viaggiatori del XVIII e del XIX secolo. Come nel resto dell’Occidente, anche qui ormai si era diffusa la società dei consumi. Motorizzazione e consumi di massa portarono al cambiamento repentino delle categorie sociali. La classe media, che ancora negli anni cinquanta era misurabile nel 7% dell’intera popolazione, in meno di un decennio corrispondeva a quasi la metà del paese. Basti pensare che già nel 1963, il 97% delle filiali della Migros – una delle principali catene della grande distribuzione – furono realizzate con il concetto del self-service5. La Svizzera stava cambiando e mentre assisteva a questo processo epocale iniziò una lunga riflessione su chi, materialmente, stava contribuendo al suo successo.
Per anni abbiamo considerato solo il punto di vista economico. È il momento di accordare maggiore attenzione all’aspetto umano. […] Dobbiamo renderci finalmente conto che i lavoratori stranieri non sono venuti in Svizzera unicamente a causa di una tensione congiunturale momentanea, ma che sono ormai diventati un fattore indispensabile della nostra vita economica. La nostra futura politica d’ammissione non potrà limitarsi a frenare l’entrata di nuovi lavoratori […] dovrà tendere piuttosto a mantenere e ad assimilare la manodopera che si è affermata. La norma derivata dai negoziati con l’Italia si muove in questo senso6.
Fu la prima volta, nella lunga tradizione di paese importatore di manodopera, che Berna mise in discussione l’idea di temporaneità della migrazione. La posizione del governo suscitò forti reazioni di parti sociali, contraenti e gestori finali di questo processo. Il mondo dell’impresa, contrario alle aperture in ambito sociale – che avrebbero favorito oltre modo la manodopera italiana –, chiedeva la possibilità di attingere a quella a basso costo dei paesi in via di sviluppo. Il sindacato, dal canto suo, già qualche mese prima della ratifica del nuovo trattato con l’Italia invitava a fissare un tetto massimo, corrispondente alle 500000 unità7. Ciò avrebbe significato un taglio di quasi un terzo degli stranieri presenti nel paese, che nel 1965 erano 840000 e rappresentavano il 14,2% dell’intera popolazione8. Tutto questo avvenne nel momento in cui si stava riaffacciando prepotentemente alla ribalta la paura dell’infiltrazione straniera.
L’Überfremdung, come già accennato, è un concetto degli inizi del XX secolo, ma fu dalla metà degli anni sessanta e per tutto il decennio successivo che il panico per l’invasione, l’inforestierimento, si pose al centro del dibattito politico e intellettuale della Svizzera.
Che significa infiltrazione straniera? Il giovanotto che nell’albergo prende il mio bagaglio, la cameriera ai piani, il barista, più tardi il portiere di notte, l’altro cameriere che serve la prima colazione, tutte queste persone che rendono piacevole il mio soggiorno in patria sono rispettivamente: uno spagnolo, una jugoslava, un italiano, ancora un italiano, un terzo italiano, un renano. Ignoro chi fa i piatti e chi lava le camicie. L’unico che parli dialetto svizzero è il proprietario. […] si fiuta un pericolo per la nazione […]. Da una parte tutto ciò che è sano, sacrosantamente giusto, nostrano e valido, in breve: svizzero. Dall’altra eserciti di estranei che piombano sul nostro benessere, sempre più piccoli e sempre più neri, calabresi, greci, turchi. […] alcuni si preoccupano per il fatto che gli italiani, del cui aiuto abbiamo bisogno, sono cattolici. Altri temono che i lavoratori italiani possano essere comunisti9.
Per Max Frisch, il differente credo religioso e l’anticomunismo non sarebbero sufficienti a spiegare l’avversione nei confronti degli italiani. Esso nascerebbe dalla paura che possano essere più bravi e più abili: «in ogni modo il loro ingegno è diverso, diverso per esempio nell’assaporare la vita, nell’essere felici». Tale percezione, nonostante gli svizzeri vivessero una condizione sociale privilegiata, sfociava in atti di disprezzo, generando facili stereotipi, soprattutto nei confronti dei meridionali.
Che i meridionali siano sporchi è, da parte nostra, una speranza: perché allora possiamo vantarci, se non sappiamo cantare, di essere almeno puliti. Ma nemmeno questa speranza trova sempre conferma: un medico condotto mi ha assicurato che gli italiani, al contrario dei pazienti locali, si presentano con i piedi lavati. […] Si ha un bel definirli manodopera straniera: sono creature umane. Diamo loro baracche e, appena possibile, anche appartamenti: un’inserzione apparsa in un quotidiano svizzero, per mezzo della quale si offriva un pollaio come alloggio per gli italiani, dev’essere considerata un’infelice eccezione10.
L’autocritica e il confronto con l’altro, tanto diverso ma strutturalmente funzionale ai dettami economici, inducono a dover ripensare anche alla storia della Svizzera, alla reputazione del paese e alla sua immagine internazionale. Per quanto riguarda gli italiani, «il risentimento, di cui sono spesso fatti oggetto, è naturale, perché figli di una grande cultura, meno abbienti e meno istruiti di noi, ci fanno sentire la loro possibile superiorità nell’arte del vivere»11. Detto diversamente, si può prendere in prestito la provocazione del dialogo più famoso de Il terzo uomo (Orson Welles, 1949): «Sai che diceva quel tale? In Italia, per trent’anni sotto i Borgia, ci furono guerre, terrore, omicidi, carneficine, ma vennero fuori Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera non ci fu che amore fraterno, ma in cinquecento anni di quieto vivere e di pace cosa n’è venuto fuori? L’orologio a cucù»12.
Sempre alla metà degli anni sessanta, Peter Bichsel, lo scrittore elvetico più noto dopo Frisch e Dürrenmatt, nel suo La Svizzera dello svizzero, raccontò in maniera chiara come gli svizzeri percepissero loro stessi: «gli svizzeri coltivavano la convinzione che l’immagine della propria nazione fosse frutto della loro capacità di fare comprendere linguisticamente cosa fosse la Svizzera. L’immagine che della Svizzera si aveva nel mondo e, soprattutto, l’immagine che gli svizzeri avevano del loro Paese sono state costruite durante il periodo della seconda guerra mondiale». Secondo Bichsel, l’essere stati risparmiati dal conflitto aveva contribuito a rafforzare l’autostima degli elvetici e un anticomunismo convinto13.
Questi stati d’animo e queste percezioni – aggiunti alle preoccupazioni di natura economica sollevate dalle parti sociali – posero inevitabilmente la questione stranieri al centro del dibattito pubblico e, di conseguenza, dell’agenda politica.
La risposta di Berna fu immediata. Il 9 febbraio 1965, il Consiglio federale adottò la doppia limitazione14. L’intento fu di riportare i lavoratori stranieri per ogni impresa al 95% sulla base di quelli presenti al 1° marzo 1965, così da vietare l’incremento del totale effettivo, con un conseguente funzionamento più restrittivo delle eccezioni. Questo provvedimento era stato preceduto da un altro del mese prima, che rendeva obbligatorio il permesso di soggiorno, senza cui i lavoratori stranieri non potevano entrare in Svizzera. Non sarebbe stato quindi più sufficiente vantare una semplice promessa di assunzione o un contratto di lavoro. E, inoltre, i permessi di soggiorno non sarebbero stati più rilasciati ai lavoratori stranieri entrati illegalmente.
Il tentativo di limitare gli ingressi – volto a calmierare la crescente paura dell’Überfremdung – produsse tuttavia effetti alquanto alterati: limitò il numero dei salariati, frenò lo sviluppo delle imprese in espansione e difese le aziende meno competitive. Conseguentemente, la mobilità della manodopera venne limitata, con l’obiettivo di impedirne il licenziamento da parte delle imprese più concorrenziali. Ne risultò, dunque, una sorta di protezionismo verso i settori più deboli dell’economia. Le autorità si mostrarono ben coscienti di questo inconveniente, ma al momento non disponevano di altre soluzioni.
Nell’ottobre dello stesso anno, una commissione di esperti creata dal Consiglio federale propose di introdurre, dopo una fase di adattamento, una limitazione del contingente globale a partire dal 1968, vale a dire un tetto massimo per tutto il paese, consentendo allo stesso tempo una maggiore mobilità agli stranieri, sia per settori che territoriale15.
Il provvedimento scatenò una dura presa di posizione da parte dei cantoni economicamente più deboli, che avvertivano il rischio di essere marginalizzati. Sull’altro fronte, le imprese interpretarono la limitazione globale come una sorta di protezionismo che avrebbe minacciato interi settori dell’economia. A favore dell’iniziativa si schierò solo il sindacato che, come abbiamo visto, da tempo chiedeva dei massimali. Visto il clima, il Consiglio federale cercò di attutire le tensioni varando altri due decreti volti a un’ulteriore limitazione globale: nel marzo 1966 del 3% e nel febbraio 1967 del 2%16. Tuttavia, nonostante si fosse registrata una diminuzione degli ingressi, già nel 1964 la percentuale di stranieri continuò a crescere, superando il 17% nel 196817.
Gli italiani con regolare permesso di soggiorno aumentarono, erano 531501 nel 1969 e raggiunsero l’apice nel 1974, con oltre 550000 presenze. Il 1972 fu l’anno della progressiva metamorfosi per la presenza italiana: se nel 1964 quasi l’80% di italiani era temporaneo (stagionali e annuali), meno di dieci anni dopo la quota scese al 45%. L’anno successivo, nel 1973, fu la prima volta in cui gli stagionali vennero conteggiati separatamente, aumentando la presenza italiana, nella quale fino ad allora non erano rientrati, visto che le rilevazioni si basavano sulle presenze al 31 dicembre18.
Nonostante fossero divenuti il problema e percepiti come meramente funzionali all’economia – un crescente costo sociale, il soggetto delle campagne anti-stranieri, che nei fatti si erano tramutate in campagne anti-italiani –, quasi inconsapevolmente iniziarono a sentirsi a casa. Se il calcio, la tv e il cinema in migrazione rappresentarono momenti per conoscersi e condividere un destino comune, servì ben altro, un tributo di sangue senza precedenti, per iniziare a farsi percepire come soggetti degni di riconoscenza.
2. La Coppa Italia si gioca in Svizzera.
Nel 1959 iniziarono i preparativi di quella che sarebbe passata negli annali del calcio dilettantistico come la Coppa Italia in Svizzera.
La Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera organizza nella prossima stagione calcistica 1960/61 una competizione calcistica riservata alle squadre italiane in Svizzera. Lo scopo di tale manifestazione oltreché sportivo è altamente benefico, proponendosi, nella fase finale della competizione, di raccogliere fondi per la costruzione di un Asilo d’Infanzia per i figli degli italiani in Svizzera19.
Per essere ammesse alla competizione, le squadre dov...