«Dall’immenso oceano disgiunti»
1. John Trumbull dipinge gli eroi romani.
Nel corso di una discussione tra un padre e un figlio che ragionano di inclinazioni e opportunità nell’intraprendere una professione, si allude alla Grecia classica per sostenere la scelta di dedicarsi all’attività artistica.
Mio padre continuava a spingermi allo studio del diritto, come professione che in una repubblica ti garantisce guadagni e prestigio, e per cui avevo avuto buone basi nella mia educazione scolastica. La mia risposta era che, per quanto fossi in grado di comprendere, la legge era resa necessaria dai vizi dell’umanità – di cui ne avevo conosciuti troppi, per dedicarmi di buon grado a una professione che mi avrebbe tenuto in perpetuo implicato o nella difesa dell’innocenza dalla frode e dall’ingiustizia, o (cosa ancora più rivoltante in un’indole schietta) nella protezione della colpa da una punizione giusta e meritata. In breve, io mi struggevo di desiderio per le arti, di nuovo mi lanciavo in una elaborata difesa della mia predilezione, e ancora mi soffermavo sugli onori tributati agli artisti nei giorni gloriosi della Grecia e di Atene. Mio padre mi ascoltava pazientemente, e quando avevo finito si complimentava con me per l’abilità con cui avevo difeso ciò che a lui appariva comunque una causa persa; avevo però confermato la sua opinione che con studi adatti sarei potuto diventare un buon avvocato. Ma aggiungeva: «Mi devi lasciar dire che sembri aver sottovalutato o tralasciato un punto fondamentale». «Vi prego signore, quale?», ribattevo. «Sembri esserti dimenticato che il Connecticut non è Atene…».
Siamo nell’America del 1782, alla fine della guerra d’indipendenza, e questo giovane col sacro fuoco dell’arte si chiama John Trumbull. Il padre era un personaggio conosciuto, avendo tra l’altro ricoperto la carica di governatore del Connecticut.
Si può discutere, e forse ancora concordare, sull’opportunità di dedicarsi alla professione forense per avviare una carriera sicura; ma che i Greci e i Romani avessero colonizzato il Connecticut, almeno in senso culturale, rientra nel tema interessante, e ben indagato, della classicità agli albori della nazione americana.
La passione di Trumbull per l’antichità classica è testimoniata da una delle sue prime prove artistiche: la tela con Bruto e gli amici [22] alla morte di Lucrezia conservata alla Yale University Art Gallery a New Haven, dono degli eredi di David Trumbull Lanman. Come sappiamo, anche una delle copie del quadro di Hamilton, che rappresenta lo stesso soggetto, è entrata a far parte della collezione universitaria.
Nell’Account of Paintings, Trumbull scrisse che la descrizione di questa scena era «in parte copiata da una stampa tratta da Gavin Hamilton e in parte originale». Si trattava dell’incisione realizzata da Domenico Cunego, secondo la prassi ben consolidata – e lo abbiamo visto nel precedente capitolo – per molte opere del pittore scozzese. La creazione «originale» comporta alcune varianti allo schema di Hamilton, con l’aggiunta di dettagli derivati da modelli diversi.
Nel confronto tra le due scene, la compattezza dei tre attori del giuramento dipinto dal pittore scozzese, all’unisono nel prospettare una reazione, si allenta nella versione di Trumbull, dove Bruto è ancora il protagonista, ma con un atteggiamento più partecipe che vendicativo. Egli tralascia, infatti, di alzare al cielo il pugnale sfilato dal petto di Lucrezia, che, ormai vinta dalla morte, abbandona la mano in grembo, senza la forza di afferrarsi alla tunica di Bruto, in quell’ultimo gesto disperato, fissato da Hamilton.
Jules David Prown, nel catalogo delle opere di Trumbull, curato da Helen A. Cooper in occasione della mostra celebrativa per i 150 dalla fondazione della Yale University Art Gallery, indica, come altra possibile fonte del quadro, la versione del giuramento di Bruto com’è raccontata nel trattato di storia romana di Charles Rollin, illustrato da Gravelot. Questo testo, pubblicato in francese negli anni quaranta del Settecento e poi tradotto in inglese, è incentrato sul contrapporsi di azioni dettate dai vizi e dalle virtù, secondo una lettura moralizzante degli avvenimenti del mondo antico. Trumbull lo ammirava molto, e, nel 1773, vi si era ispirato per dipingere il suo primo quadro originale, La morte di Paolo Emilio nella battaglia di Canne: una composizione complessa, [23] per la quale ammetteva di aver selezionato, da incisioni diverse, figure che si adattassero al suo intento, combinandole in gruppi e colorandole, secondo la modalità del pastiche da lui spesso usata per i soggetti storici.
Trumbull rappresenta il console ferito a morte, al quale il tribuno Gneo Lentulo offre il suo cavallo per consentirgli di mettersi in salvo. Nel rovesciamento di una delle più celebri battute pronunciate da un personaggio shakespeariano, Paolo Emilio rifiuta il cavallo e incita il tribuno a galoppare fino a Roma, per avvertire del pericolo mortale che corre la città.
Così, alla vigilia della guerra d’indipendenza, Trumbull percepiva – e lo scriverà in seguito nella sua autobiografia – che i personaggi di Bruto, di Paolo Emilio, degli Scipioni erano vivi nella sua memoria, e il loro devoto patriottismo sempre davanti ai suoi occhi.
Nel catalogo delle opere di Trumbull, stilato da Theodore Sizer nel 1950, compaiono anche altre opere di soggetto romano, a riprova della sua passione per la storia antica.
2. L’educazione di un artista americano.
Questo certo non stupisce in un artista che conosceva il greco e il latino sin da ragazzo, e che si deliziava alla vista delle riproduzioni delle rovine romane di Piranesi. Fu il primo artista americano a essersi laureato – a Harvard! – e trascorse molti anni tra Londra e Parigi, a contatto con i protagonisti del neoclassicismo europeo, aiutato dal suo francese fluente.
Colpisce di più come queste prime prove del periodo giovanile, imperniate sulla narrazione di episodi di storia romana, si rivelino fondanti nell’impresa di raccontare in immagini gli episodi chiave dell’indipendenza, compito cui Trumbull dedicò tutta la vita; in quell’ottica di una «Roma rinata sui lidi occidentali», che Eran Shalev ha compiutamente indagato nel suo libro sull’immaginazione storica nella creazione della Repubblica americana. Da questo e da altri studi di grande interesse emerge come i patrioti americani costruirono il loro presente rivoluzionario guardando alle gesta dei Greci e dei Romani, appellandosi a loro per rafforzare il proprio credo, giustificare le proprie azioni, trovare conforto nei momenti difficili della guerra.
Nell’impegno di narrare la guerra d’indipendenza, Trumbull aveva avuto due importanti sostenitori: uno fu Thomas Jefferson, succeduto a Benjamin Franklin come ministro americano alla corte francese, che ospitò il pittore a Parigi nel 1786. Gli si legò di tale amicizia da affidargli le lettere dirette a Maria Cosway, pittrice di origine italiana e moglie di Richard, anch’egli pittore, della quale Jefferson si era innamorato nel corso di una delle visite della coppia di artisti a Parigi. Il ruolo di messaggero d’amore di cui fu investito Trumbull non è sfuggito a un regista attento come James Ivory, che nel suo film Jefferson in Paris fa dire a Maria, tornata in Inghilterra e afflitta dalla scarsa corrispondenza di Jefferson: «Mr. Trumbull è venuto a Londra e non ti sei fidato nemmeno di lui».
Thomas Jefferson era rimasto particolarmente impressionato dalle tele che Trumbull si era portato da Londra, su cui aveva narrato due momenti fondamentali della Rivoluzione americana da poco conclusa. Fu poi lo stesso Jefferson a consigliargli di dipingere anche l’atto costitutivo della nuova nazione, rappresentato dalla Dichiarazione d’indipendenza.
L’altro protettore di Trumbull era Benjamin West. Cresciuto come ritrattista a Filadelfia e trasferitosi a Londra dopo un lungo soggiorno italiano, West aveva educato artisticamente il più giovane collega americano, a lungo ospite nel suo studio londinese. La sua posizione di pittore di spicco alla corte del re Giorgio III, che lo guardava dipingere leggendogli Livio, in modo tale da ispirarlo a nobili soggetti, rendeva poco opportuno che fosse lui stesso a celebrare l’indipendenza degli Stati Uniti; aveva allora iniziato a rappresentare il tema più conciliante della sigla del trattato di pace con l’Inghilterra, che ebbe luogo a Parigi nel 1783. L’opera rimase incompiuta, ma vi si coglie il realismo e la deferenza per il loro compito, con cui sono ritratti i protagonisti americani.
Trumbull, invece, aveva preso parte alla guerra a fianco dei ribelli e nel novembre 1780, durante un soggiorno londinese, era stato addirittura imprigionato dal governo britannico, probabilmente per ritorsione all’impiccagione, a New York, del maggiore inglese John André, accusato di spionaggio; fu poi liberato grazie all’interessamento di West e altri colleghi. Un’altra sua prerogativa stava nei buoni rapporti, oltre che con Washington e Jefferson, con alcune note personalità del mondo politico americano: John Jay – colui che dette il nome al trattato di amicizia, commercio e navigazione tra Sua Maestà Britannica e gli Stati Uniti d’America siglato a Londra nel 1794 –, Benjamin Franklin – figura poliedrica di politico, sportivo, musicista, inventore, nonché uno dei redattori della Dichiarazione d’indipendenza e della Costituzione americana – e John Quincy Adams – figlio del secondo capo di Stato e divenuto in seguito, a sua volta, presidente degli Stati Uniti –. Ecco che per lui quest’incarico era particolarmente congeniale: l’artista trentenne se lo assunse con entusiasmo. Seguendo il filone degli exempla virtutis che stavano alimentando la pittura di storia in Europa, puntò sugli episodi di eroismo, assurti ad atti di martirio nella consueta agiografia post bellica.
3. Come raccontare l’Indipendenza.
La prima serie di otto quadri di piccolo formato che Trumbull dedicò a questa saga, giudicati i più riusciti in una carriera artistica non sempre felice, anzi segnata da un declino palpabile, sono conservati nella collezione della Yale University. Il professor Sillimann, eminente scienziato e docente a Yale, marito di una nipote di Trumbull, fu particolarmente premuroso nei confronti dell’artista ormai anziano, che incoraggiò a scrivere un’autobiografia per mettere a tacere critiche e alcune indiscrezioni sul suo conto; fu Sillimann a trattare con l’amministrazione il lascito della maggior parte del corpus delle opere, in cambio di una pensione annua per il loro autore. La fama decrescente di Trumbull, alcuni investimenti sbagliati, la penuria di commissioni causata da un periodo di instabilità politica, la sua incapacità di creare una sintonia con gli artisti più giovani negli anni della presidenza dell’American Academy of Fine Arts gli avevano infatti causato difficoltà economiche.
Fu lo stesso Trumbull a suggerire il modello della galleria neoclassica che ospitò la collezione delle sue opere e che funse anche da cappella sepolcrale per l’artista e per la moglie.
I soggetti legati alla guerra d’indipendenza conservati a Yale, oltre che a segnare il momento più fortunato della carriera artistica di Trumbull, hanno trasmesso a ogni americano una sorta di film sull’origine della propria nazione. Questa prima serie rimane la più convincente dal punto di vista artistico: quando gli fu chiesto di replicare alcuni di questi temi in un formato molto più grande per il Campidoglio di Washington, la lunghezza nell’esecuzione e la sua diminuita vena portarono a un risultato meno felice; ulteriori repliche, eseguite per Daniel Wadsworth e conservate a Hartford, sono giudicate poco riuscite. Probabilmente, con l’età, si erano anche aggravati i problemi alla vista: per un incidente occorsogli da bambino, Trumbull era infatti cieco da un occhio.
La genesi di queste op...