Napoli, promemoria
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Storia e futuro di un progetto per la città

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Storia e futuro di un progetto per la città

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«Il piano regolatore di Napoli è l'unico piano di una grande città italiana che non prevede consumo di suolo. Che proprio la città immortalata da Francesco Rosi a simbolo del saccheggio urbanistico sia stata la prima a praticare una virtuosa politica di risparmio del territorio è indiscutibilmente un fatto clamoroso, meritevole della massima attenzione».Il libro racconta la storia del lungo filo rosso che lega il piano delle periferie del sindaco Maurizio Valenzi, negli anni settanta e ottanta, alle dirompenti novità introdotte negli anni novanta dalle sindacature di Antonio Bassolino, fino alle attuali giunte guidate da Luigi de Magistris, che ha difeso con determinazione il progetto Bagnoli confermando i caratteri distintivi e durevoli dell'esperienza urbanistica di Napoli. Di questa storia, ormai quarantennale, Vezio De Lucia è stato protagonista. La sua vita professionale e intellettuale – scrive nella prefazione Tomaso Montanari – «dimostra alla mia generazione che è ancora possibile, nonostante tutto, non dover scegliere tra essere fedeli alle proprie idee o poter incidere sulla realtà. De Lucia non ha scelto tra rigore e pragmatismo: non è arretrato di un millimetro, non ha tradito». Ma il libro racconta anche una storia plurale, vissuta insieme da un gruppo di urbanisti pubblici che hanno dedicato la loro vita al riscatto di Napoli. «L'ufficio urbanistico, i ragazzi del Piano, il Partito comunista sono i veri eroi collettivi di questo libro», scrive ancora Montanari. Un libro denso e conciso che, senza nascondere contraddizioni, limiti ed errori, descrive puntualmente la sostanza e la forma del nuovo piano regolatore approvato nel 2004, l'unico di una grande città a non prevedere zone di espansione. Emerge dal libro un'altra Napoli, che ribalta l'immagine di «città simbolo della speculazione» e quella abitualmente raccontata dalle cronache: una Napoli in cui il sessanta per cento del territorio comunale è rigorosamente tutelato; in cui, caso pressoché isolato, è vigente una disciplina scientifica per i centri storici; in cui l'urbanistica è coordinata con il trasporto pubblico su ferro. Una Napoli, infine, in cui Scampia non è più Gomorra, ma è attraversata da una vitalità prorompente.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788868438319
Categoria
Sociology

Dagli indirizzi urbanistici al nuovo piano regolatore

La formazione del nuovo piano regolatore ebbe inizio con un documento di indirizzi urbanistici. Nel novembre 1993, a pochi giorni dall’insediamento, la presidenza del Consiglio dei ministri ci chiese di sottoscrivere un accordo finalizzato al recupero dei cassintegrati di Bagnoli dove da poco più di un anno erano stati chiusi gli altoforni dell’Italsider. Si proponeva di affidare a un’intesa fra governo, Regione, Iri, sindacato e Comune la riconversione dell’area. Il progetto urbanistico doveva essere affidato a una società dell’Iri e poi ratificato dal Consiglio comunale. Rifiutammo quell’impostazione, vistosamente in contrasto con l’impegno assunto di ripristinare a Napoli regole e procedure ordinarie. Il che significava, in primo luogo, che le decisioni in materia urbanistica andavano puntualmente valutate, discusse e votate, non ratificate, in Consiglio comunale (e poi sottoposte alle osservazioni dei cittadini), senza scorciatoie. Per questo scegliemmo il percorso del rinnovamento del piano regolatore attraverso un certo numero di varianti, cominciando da Bagnoli. Procedere per varianti imponeva, evidentemente, un inquadramento generale, un testo nel quale fossero esposti gli obiettivi e le ipotesi, in una parola la filosofia urbanistica che il Comune intendeva seguire. Nacquero così gli indirizzi.
In effetti ci fu un’altra ragione che indusse a scegliere la strada delle varianti successive. Fu la consapevolezza che non avrebbe avuto molto senso la formazione di un nuovo piano regolatore generale per il solo Comune di Napoli, il cui territorio è una minima parte della grande conurbazione che si estende anche oltre i confini provinciali di Caserta e Salerno (la Provincia di Napoli – credo sia utile ripeterlo – è più piccola e più popolata del Comune di Roma). È evidente che i problemi importanti dell’area napoletana e del capoluogo si possono risolvere solo in un quadro di area vasta. E allora, nel 1994, sembrava ancora praticabile la riforma delle Città metropolitane prevista dalla legge del 1990, dopo lunghe traversie sostituita nel 2014 dalla cosiddetta riforma Delrio, anch’essa ormai impantanata.
Alla fine del maggio 1994, il documento di indirizzi era pronto. Era stato scritto da Roberto Giannì e da me per «delineare il metodo, i principi e gli obiettivi di massima che dovranno guidare l’amministrazione di Napoli in materia di urbanistica». Un documento breve, 66 pagine, una premessa e sette capitoli, il primo riguarda il risanamento dell’ambiente e la tutela dell’integrità fisica. I capitoli successivi trattano delle quattro parti di Napoli da sottoporre a successive varianti urbanistiche: la zona orientale; la zona occidentale; il centro storico; il resto del territorio comprendente i quartieri consolidati (Vomero, Fuorigrotta, Vasto, San Carlo all’Arena), le grandi zone Peep (Piano per l’edilizia economica e popolare) di Scampia e Ponticelli e i territori degli ex Comuni autonomi (riprendendo la riqualificazione avviata con il piano delle periferie).
Gli altri capitoli riguardano la mobilità, scritto con Ada Becchi assessore ai Trasporti e vicesindaco, e i servizi, con una dettagliata stima degli spazi da destinare al verde e alle altre attrezzature insoddisfatte.
Gli indirizzi furono approvati il 22 giugno del 1994, suscitarono un vastissimo consenso, un vero e proprio entusiasmo nel mondo della cultura e dell’ambientalismo, lo sconcerto delle opposizioni. Vola alto l’amministrazione comunale, vola alto Napoli. E lo fa restando con i piedi per terra, titolò «Il Mattino» a tutta pagina, e non diverso il tono del «Corriere della Sera», «la Repubblica», «La Stampa», «l’Unità». Era stato colto l’obiettivo di chiudere un capitolo della storia di Napoli mettendo al primo posto la qualità urbana «come requisito essenziale per ogni ipotesi di sviluppo dell’economia e dell’occupazione».
La salvaguardia
La linea tracciata dagli indirizzi fu sostanzialmente rispettata. Fu formata innanzitutto la cosiddetta variante di salvaguardia, che riguarda circa 3500 ettari sugli oltre 11000 del territorio comunale. Adottata nel 1996 e approvata nel 1998, essa è volta alla tutela delle aree verdi sopravvissute alla forsennata speculazione del dopoguerra. In evidente continuità con il piano delle periferie e il programma straordinario del dopo terremoto, la variante «segna una tappa decisiva nell’urbanistica napoletana: indicando nel binomio centro storico e natura valenze di indiscutibile interesse generale, delinea i limiti oltre i quali la trasformazione non può ledere il diritto a preservare risorse irripetibili, patrimonio della collettività» (Formato e Travaglini).
Secondo Giovanni Dispoto, cui si devono i primi studi per la valorizzazione dello spazio aperto, «nonostante gli stravolgimenti urbanistici causati dalla crescita speculativa e disordinata del secondo dopoguerra, oltre che dall’abusivismo, si deve prendere atto che Napoli ha conservato buona parte dei fondamentali caratteri dell’ambiente urbano originale e dei suoi celebrati dintorni: il centro storico, il paesaggio collinare, il litorale marino da capo Posillipo a Monte Echia, il panorama del golfo con le isole». Nonostante tutto, sostiene Dispoto, è sopravvissuta l’iconografia «che rappresenta Napoli ricca di giardini e circondata da orti e coltivi che scendono verso il centro storico lungo ripidi pendii collinari: gli ultimi testimoni di questo paesaggio sono i piccoli orti del centro storico, i superstiti fondi rustici di Posillipo e delle altre colline che circondano Napoli a Ovest e a Nord. Completano l’ideale geografia del verde cittadino “gli orti detti le paludi”, cioè quello che ancora resta, tra depositi petroliferi e svincoli autostradali, della fertile piana costiera orientale».
Un esempio è la collina di San Martino, sopra ai Quartieri Spagnoli, sulla quale è tornata l’agricoltura con il reimpianto dei vigneti. In alcuni punti – lo Scudillo, la stessa vigna di San Martino – lo spazio rurale tocca il centro storico. Senza dimenticare la restituzione del Sebeto alla originaria identità di fiume, riscattandolo dalla condizione di fognatura.
Per la protezione e gestione del verde superstite, nel 2004 è stato istituito un apposito parco regionale (p. 66).
La variante di salvaguardia definisce anche il perimetro del centro storico corrispondente all’estensione della città alla fine della seconda guerra mondiale, comprendendo quindi i nuclei originari dei casali periferici. Nei primi anni novanta, la decisione di considerare «storico» lo sviluppo di una grande città fino al fascismo non era scontata, e se oggi è una pratica abbastanza diffusa lo si deve anche all’esempio di Napoli. Perché ci parve giusta quella data? Non certo per il tempo trascorso, vale a dire che non pensammo a cinquanta anni come a un periodo congruo per riconoscere la «storicità» di un insediamento urbano. Le ragioni della scelta furono altre, dipendenti dalla definitiva rottura della misura e del ritmo di crescita delle città che si è verificata in Italia dopo la seconda guerra mondiale. Ha avuto inizio allora il più vertiginoso sviluppo edilizio della nostra storia. In quasi tutta l’Italia, lo spazio oggi urbanizzato è stato realizzato per 9/10 negli ultimi settant’anni; solo 1/10 era stato formato nei precedenti duemila anni. Ma c’è di peggio. La disordinata crescita del dopoguerra è avvenuta, salvo rarissime eccezioni, senza forma e senza regole. Non è assoggettata a un qualsivoglia disegno urbanistico (com’era stato fino al fascismo) ma solo alle convenienze della proprietà.
Alla disciplina della salvaguardia per il centro storico fu aggiunta anche una normativa transitoria, in attesa del nuovo piano, consentendo la ripresa dell’attività edilizia in precedenza subordinata all’approvazione di piani particolareggiati che non sarebbero stati mai formati.
Bagnoli e l’area occidentale
Quasi contemporaneamente a quella di salvaguardia fu preparata la variante per Bagnoli e l’area occidentale. Già gli indirizzi disponevano la definitiva chiusura dello stabilimento Italsider come occasione irripetibile per restituire alla città la piana di Bagnoli, «un luogo dotato di qualità ambientali potenzialmente incomparabili». Ma la scelta fondamentale è la trasformazione di gran parte delle aree dismesse dell’ex acciaieria in parco pubblico, attività connesse alla ricerca scientifica, al turismo e al tempo libero. E per il litorale di Bagnoli era previsto il ripristino della balneazione, un obiettivo leggendario in una città non per tutti bagnata dal mare.
Quella della zona occidentale è la più nota delle varianti e fu oggetto di infinite discussioni in Consiglio comunale e in città. All’inizio fu una sorpresa, nonostante fosse stata anticipata dagli indirizzi. La sinistra napoletana era stata sempre compattamente favorevole all’Italsider di Bagnoli e, quando tramontò ogni speranza per la produzione siderurgica, fu invocata la «vocazione» industriale dell’area. Non più acciaio, non più inquinamento e rumore, ma a Bagnoli industria era e industria doveva restare. La prospettiva postindustriale, la previsione di un grande parco pubblico (che si prolunga nel maestoso ex pontile ferroviario dell’Italsider trasformato in passeggiata a mare) e di attrezzature per la ricerca, il turismo e il tempo libero destarono quasi scandalo. Come poteva Bassolino, esponente autorevole della cultura operaia e operaista di Bagnoli, abbandonare la sua storia e una strada che pareva obbligata? In effetti, fu proprio la credibilità allora altissima di Antonio Bassolino a far passare la proposta di riconversione di Bagnoli. Non fu difficile far capire che la chiusura dell’Italsider forniva un’occasione straordinaria per recuperare un luogo pubblico nel cuore dell’area metropolitana, quasi un risarcimento del danno subito dalla crescita spaventosa di Napoli nei decenni del dopoguerra. Alle critiche di chi riteneva sbagliato rinunciare all’area industriale di Bagnoli non fu difficile rispondere che erano sterminate le superfici disponibili altrove per la localizzazione di nuove attività manifatturiere: nelle aree industriali dismesse di Napoli orientale e nelle migliaia di ettari appositamente attrezzati e mai utilizzati nelle aree di sviluppo industriale in provincia di Napoli, di Caserta e di Salerno.
Ma le critiche da sinistra per la rinuncia allo sviluppo industriale furono presto soverchiate dalla durissima e sfacciatamente strumentale contestazione animata da Forza Italia e dalla destra che ci accusavano di favorire la speculazione fondiaria. A smentire chi farneticava di speculazione provvide la società del gruppo Iri proprietaria delle aree ex Italsider che, nel bilancio 1996, ridusse di quasi il 30 per cento il loro valore. Non era mai successo prima che un piano urbanistico avesse determinato la svalutazione anziché l’incremento di valore delle aree oggetto di un intervento. Una novità che qualifica l’urbanistica napoletana. Credo infine che debba essere apprezzata la capacità di resistenza, per così dire, del progetto Bagnoli che ha subìto oltre un ventennio di defatiganti vicende. Un progetto, come vedremo, esaltato, poi biasimato, obliterato, bollato come insostenibile, finalmente rilanciato dall’accordo fra governo e Comune di Napoli dell’estate 2017.
Intanto erano state preparate le altre proposte di variante previste dagli indirizzi e unificate, dopo complesse fasi di elaborazione, in un’unica e ultima variante per il centro storico, la zona orientale, la zona nord-occidentale.
Il centro storico
Dotato di una sorprendente vitalità, sopravvissuto agli sventramenti dell’Ottocento, alle immani distruzioni belliche, al piano di ricostruzione di via Marittima, al sacco laurino, non presenta quei fenomeni di violenta terziarizzazione che hanno snaturato le grandi città del Centro-nord, a cominciare da Roma. Né vi regnano i fenomeni di spopolamento e abbandono che ancora affliggono il centro di Palermo. È invece tuttora occupato dalla popolazione e dalle attività tradizionali, ma le condizioni fisiche e sociali sono di intollerabile degradazione. Il restauro del centro storico è il compito più impegnativo per l’urbanistica napoletana, anche perché è in gran parte letteralmente sovrapposto alla città greco-romana, il che obbliga a un confronto continuo con l’archeologia assunta come una componente essenziale della città moderna. Fu perfetto il rapporto con il soprintendente archeologo Stefano De Caro e con Daniela Giampaola, responsabile del centro storico per la soprintendenza archeologica. Insieme decidemmo alcune importanti demolizioni nell’area dell’Acropoli: dei padiglioni del Primo Policlinico e del palazzaccio per uffici a piazza Cavour. Un esempio delle straordinarie potenzialità d’intervento è il restauro – completato recentemente – del teatro romano che sta in un isolato fra via San Paolo e la strada dell’Anticaglia, riportato alla luce e dopo duemila anni restituito alla città (senza aver mai allontanato i residenti dai propri alloggi).
Le testimonianze archeologiche, tutte facenti parte del centro storico, non sono solo quelle ubicate nel reticolo ortogonale della Neapolis greco-romana ma anche quelle disseminate nel resto del territorio comunale. L’esempio forse più celebre è la villa di Vedio Pollione su Capo Posillipo – segmento estremo della destinazione a centro storico a sud-est della città –, un possente complesso comprendente un teatro da duemila posti (attrezzato anche per spettacoli di nuoto), un odeon, un ninfeo e un impianto termale, di fronte a Capri e alla penisola sorrentina. Vi si accede dalla cosiddetta Grotta di Seiano, una galleria artificiale di circa 800 metri con vertiginosi affacci sugli scogli di Trentaremi, realizzata nel primo secolo dopo Cristo per collegare la villa con la piana di Coroglio e quindi con i Campi Flegrei e con Roma. La villa e la Grotta furono riaperte al pubblico in occasione del G7 e le considerammo una componente del Progetto Bagnoli.
Da ricordare anche il lavoro svolto per il recupero degli edifici di culto: contammo nel centro storico oltre cento chiese abbandonate o in rovina che proponemmo di destinare a funzioni culturali avviando un proficuo colloquio con la Curia. Lavoro purtroppo interrotto, che sarebbe bene riprendere e sviluppare.
La normativa del centro storico prevede il ricorso ai piani attuativi solo per le trasformazioni funzionali alla tutela archeologica, e per poche altre circostanze. Per il resto la disciplina che regola gli interventi è quella derivante dalla metodologia dell’analisi e della classificazione tipologica, la più idonea ad agevolare, tra l’altro, la pratica degli interventi diretti, superando la paralizzante normativa del piano regolatore del 1972 basata su piani particolareggiati mai redatti. In tavole di mirabile fattura (elaborate in collaborazione con gli uffici del ministero dei Beni culturali) è rappresentata la classificazione di oltre 16000 edifici e spazi scoperti, raggruppati, per epoca e per appartenenza, in poco più di cinquanta tipologie per ciascuna delle quali sono stabiliti gli interventi edilizi e le utilizzazioni ammissibili.
Mi consento qui una d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Prefazione
  6. Ringraziamento
  7. Un filo rosso lungo quarant’anni
  8. Dal colera a Maurizio Valenzi
  9. Il piano delle periferie, il terremoto e la ricostruzione
  10. Nuove mani sulla città
  11. Antonio Bassolino. I cento giorni e piazza del Plebiscito
  12. Dagli indirizzi urbanistici al nuovo piano regolatore
  13. Non è una corona di spine
  14. Bagnoli, vent’anni dopo
  15. Renzi-de Magistris. La storia ricomincia
  16. Riferimenti bibliografici