IV. Dal Codice di commercio del 1882 alla vigilia del Codice del 1942
1. La nuova giuscommercialistica e il magistero di Cesare Vivante.
Negli anni ottanta dell’Ottocento un’aria nuova circola nella dottrina del diritto commerciale.
Nei decenni precedenti non erano mancati personaggi di un certo livello come Luigi Borsari1, onesto esegeta non alieno però a risalire nell’analisi degli istituti a concetti generali2; oppure Giuseppe Carnazza Puglisi3 buon conoscitore della dottrina tedesca4 o Enrico Galluppi5 attento alle esigenze dei traffici e critico delle soluzioni antiquate adottate del codice, ma certamente il livello non era all’altezza della dottrina di altri paesi anche se è ingeneroso il giudizio di Alfredo Rocco per il quale lo studio del diritto commerciale prima della svolta impressa da Cesare Vivante «quando voleva essere pratico era di non di rado pedestre, e quando voleva essere scientifico poco si allontanava dai modelli di Francia»6.
Nei primi anni ottanta si assiste a un profondo rinnovamento degli studi giuscommercialistici a opera principalmente di Alberto Marghieri7, Ercole Vidari8 e David Supino9.
In conseguenza dell’incontro con la dottrina tedesca10 si iniziò a proporre una lettura sistematica del diritto commerciale: già nello stesso anno dell’entrata in vigore del Codice di commercio Alberto Marghieri (che si distinse anche come traduttore di giuristi stranieri)11, pubblicò un volume dal significativo titolo Il diritto commerciale italiano esposto sistematicamente12; dal suo canto anche Ercole Vidari, nella sua imponente produzione, si misurò con una lettura sistematica del diritto commerciale13.
Ed è in quegli anni che iniziarono a diffondersi le idee che guideranno per quasi mezzo secolo la riflessione della giuscommercialistica italiana14.
In primo luogo, soprattutto sulla scia dell’insegnamento di Levin Goldschmidt, si sosteneva che il diritto commerciale era sempre stato, ed era anche nel presente, un diritto di formazione consuetudinaria con vocazione «universale», in perenne trasformazione per aderire alle sempre nuove esigenze della vita economica.
In secondo luogo si affermava la necessità che lo studio del diritto commerciale non potesse prescindere dalla puntuale conoscenza dei fondamenti economici degli istituti oggetto della disciplina15.
Era rivendicata inoltre l’autonomia del diritto commerciale16, diritto speciale sì, ma non eccezionale, con il conseguente riconoscimento della possibilità che dalle regole commercialistiche potessero dedursi principî generali diversi da quelli del diritto civile.
Non solo, ma le regole e i principî del diritto commerciale erano destinati ad essere recepiti dal diritto civile; si radicava, allora, la convinzione, diffusa anche tra i giuscivilisti17, che faceva del diritto commerciale (come aveva sostenuto Goldschmidt) il «pioniere» del diritto civile.
Ma il maggior contributo al rinnovamento degli studi si deve a Cesare Vivante18, la cui opera rappresentò «una ventata di aria fresca» che «percorse il chiuso terreno dei commercialisti»19.
Vivante subì il fascino del metodo sistematico e delle raffinate elaborazioni che la dottrina del diritto civile, sulla scia della pandettistica tedesca, andava elaborando in quegli anni20 ed è utilizzando con rigore il nuovo metodo che il grande giuscommercialista costruì delle teorie, spesso originali, aventi a oggetto praticamente tutti i principali istituti del diritto commerciale.
L’adesione al metodo concettuale-dogmatico però non escludeva per Vivante la costante attenzione alla funzione economica degli istituti studiati e alla conseguente esigenza di formulare quelle soluzioni più congeniali ai bisogni dei traffici21.
Per Vivante, infatti, «il giurista non deve mai dimenticare che il diritto è ordinamento del sociale e non può mai inaridirsi in un corpus iuris prestabilito»22, da ciò una particolare attenzione veniva rivolta all’evoluzione degli istituti23 per trarre, come scriveva nella dedica a Levin Goldschmidt del primo volume del Trattato, «dall’intimità della storia il sistema del diritto vigente».
Per colmare quelle lacune, «frequenti negli affari commerciali che pigliano continuamente nuove forme non previste dal diritto positivo»24, Vivante indicava tra le fonti del diritto la natura dei fatti e spiegava:
Quando il giudice è convinto, per una fitta serie di osservazioni desunte dai fatti e dalla loro funzione sociale e economica, che una regola è conforme alla natura dell’istituto non ancora disciplinato dal diritto positivo, esso dovrà applicarla perché gli elementi essenziali e connaturali di un istituto non abbisognano di un’esplicita dichiarazione convenzionale e legale per essere riconosciuti25;
tuttavia questa proposta, salvo una limitata adesione di Alberto Asquini26, non trovò terreno fertile nella dottrina giuridica italiana27 fedele al più rigido legalismo statualista.
Cesare Vivante non solo indicò un nuovo metodo di studio del diritto commerciale, ma sostenne anche che il lavoro del giurista non si poteva esaurire in un’opera di comprensione e sistemazione del diritto positivo: il suo compito era anche quello di collaborare a preparare il diritto dell’avvenire.
E allora la dottrina giuscommercialistica italiana – e in particolare Vivante e la folta schiera dei tanti formatisi al suo insegnamento – fornì non poche occasioni di riflessione, offrì diversi suggerimenti di riforma del diritto positivo (basti pensare alle proposte di Sraffa, di regolamentare la «lotta commerciale», o alle ricorrenti proposte dello stesso Vivante sulla riforma delle società anonime), ma i suggerimenti e le provocazioni non trovarono né nella classe politica, né nel mondo imprenditoriale interlocutori disposti a condividere le stesse istanze di rinnovamento.
Così (e la vicenda si ripeterà altre volte) proposte di riforma in grado di imprimere una svolta importante nella disciplina delle attività economiche diventarono oggetto di dibattito soltanto all’interno del mondo accademico.
Stimolata da questi insegnamenti si formò in quegli anni una generazione di giuristi che, sottoponendo al rigoroso processo della critica giuridica ogni parte del Codice di commercio e inquadrando gli istituti commercialistici nel sistema generale del diritto privato, portarono il diritto commerciale all’altezza delle scienze giuridiche tecnicamente più elaborate28.
Tra i tanti giuscommercialisti di quegli anni va ricordato anzitutto Angelo Sraffa che con Vivante è protagonista del riformismo progressista di quel periodo e che, sensibile a percepire gli sviluppi dell’economa e della società, fu capace di intuizioni anticipatrici delle future evoluzioni del diritto commerciale.
E ancora, solo per rammentarne qualcuno, Ageo Arcangeli29, per il quale una compiuta intelligenza di un istituto giuridico si può conseguire soltanto attraverso le sue radici e il suo itinerario storico30 e che fu autore anche di importanti saggi storici31; Umberto Navarrini32, più attento ai profili economici e sociali del commercio che non alla costruzione di un sistema.
2. Il dibattito sull’unificazione del diritto privato.
Nel corso dell’Ottocento non erano mancate voci a favore dell’abolizione del Codice di commercio e per un codice unico del diritto privato33, ma si deve a Vivante34 l’aver riproposto con particolare vigore e sviluppato l’idea, suscitando un vastissimo dibattito35.
Vivante espose la sua proposta per la prima volta nella prolusione all’Università di Bologna del 188736.
Il grande giuscommercialista riconosceva che la forza espansiva del diritto commerciale avrebbe portato come necessaria conseguenza l’unificazione del diritto privato:
La storia del diritto commerciale è una storia di continua espansione. Vi è una tendenza evidente, costante, che trae i nuovi fatti economici a preferire la legge del commercio, come più semplice ed efficace37.
Una profonda fiducia negli effetti benefici dello sviluppo economico, nella capacità dell’organismo sociale di risolvere, superandoli con la filantropia e la solidarietà, le contraddizioni e i conflitti più acuti, contraddistingue questa primissima fase della riflessione di Vivante che non riconosceva al diritto il compito di eliminare le distorsioni sociali e le disuguaglianze economiche, ma piuttosto quello di assecondare un «naturale» progresso della società.
Nella prolusione bolognese non mancava la condanna delle «stridenti ingiustizie» di molte disposizioni del Codice di commercio «che furono dettate dalla più evidente soperchieria delle imprese commerciali a pregiudizio dei cittadini»38, ma veniva anche con sicurezza affermato che con il Codice unico le denunciate ingiustizie sarebbero venute meno in quanto
in un Codice unico gli opposti interessi dei commercianti e degli altri cittadini sarebbero stati regolati spontaneamente con proporzioni più eque e […] i principi tradizionali del diritto c...