1. Machiavellici e machiavelliani
Machiavelli è il più profondo conoscitore del mondo politico che l’Italia abbia avuto. E che questo ruolo la tradizione politica italiana abbia onorato è indubbio. Come è incontestabile che nel corso degli ultimi decenni anche la letteratura italiana su di lui si sia profondamente arricchita e rinnovata1. Ma né il machiavellismo né l’uso politico con finalità nazionali o rivoluzionarie dei suoi scritti né il repubblicanesimo di una tradizione reinventata a partire dal suo pensiero sono peculiarità italiche.
Basti qui richiamare per sommi capi una storia di stupefacente complessità. Il Machiavelli malfamato della stagione dei machiavellismi è quello che insegna le tecniche del governo come un sapere strumentale al servizio di chi lo sappia acquisire e che porta avanti un programma di «smoralizzazione della politica» che finisce per minare la religione come instrumentum regni2. La quintessenza della sua dottrina è ricondotta in questa fase alla massima «il fine giustifica i mezzi», che rappresenta, come Negri ha efficacemente formulato, «il vero condensato logico del rovesciamento “machiavellico” dell’insegnamento di Machiavelli»3. Già questo impoverimento del messaggio ha a che fare con la nostra storia: sembra infatti plausibile ritenere che in qualche versione del machiavellismo coniugata con l’ideologia della religione come instrumentum regni vada ravvisata la chiave della debolezza della tradizione italiana sul versante del liberalismo e della democrazia.
Un’altra fase di questa vicenda si apre con la riscoperta europea e poi atlantica del Machiavelli repubblicano. In un libro famoso John Pocock ha ricostruito la fondazione del paradigma repubblicano riportandola al «momento machiavelliano»4, nel quale vengono ricompresi gli sviluppi del pensiero politico occidentale da Harrington ai Padri fondatori della Rivoluzione americana. In questi autori il machiavellismo si è «trasformato in religione civica di un popolo in armi, che rivendica la virtù come garanzia della repubblica e la proprietà come sua base materiale»5. Degno di nota è il fatto che l’operazione interpretativa compiuta da Pocock, poggiando su due libri arendtiani che hanno segnato il dibattito non solo filosofico del secondo dopoguerra (Vita activa e Sulla rivoluzione), abbia aperto la via a quel repubblicanesimo che negli ultimi decenni si è proposto di individuare una terza via tra liberalismo e socialismo.
Una terza stagione è quella della valorizzazione di Machiavelli ad opera del nazionalismo europeo. In posizione eminente troviamo qui pensatori come Fichte, che ne ha esaltato il patriottismo emancipatorio6, e Hegel, per il quale il Fiorentino è l’autore che ha mostrato che «la libertà è possibile solo là dove un popolo si è unito, sotto l’egida delle leggi, in uno stato»7. In questa età prende corpo la figura del Machiavelli profeta e demiurgo e generatore di un mito, che il nazionalismo ottocentesco alimenterà dentro ed oltre il processo di unificazione nazionale. Ora, che la continuità dell’ideologia italiana sia quella dell’«antico sogno del profetismo politico italiano da Dante a Gioberti»8 è difficilmente contestabile: e in questa tradizione si può collocare, almeno per la perorazione che conclude Il Principe, Machiavelli.
Un capitolo estremo è quello della fortuna di Machiavelli nel Novecento delle guerre civili ideologiche. È la stagione dei machiavellismi di destra e di sinistra, che giustificano il ricorso al mezzo della violenza per raggiungere un fine eticamente qualificato. Fra i molti documenti andrà menzionato il caso di Mussolini che, in un articolo del 1923 per la rivista «Gerarchia», articolo che non sarebbe sfuggito all’attenzione di Gobetti e di Gramsci, vede in Machiavelli l’antesignano della «politica come forza» posta al servizio dei popoli9. È questa l’età del machiavellismo di massa dei regimi totalitari, della fascinazione dei dittatori per il Principe, di cui essi si presentano come autentiche incarnazioni: strumentalizzazioni che avevano luogo in anni in cui anche un autore come Carl Schmitt prendeva le distanze dall’interpretazione machiavellistica e si accostava all’opera del Fiorentino, riconoscendola non «strumentalizzabile né dai poteri anonimi e invisibili né dagli psicoapparati di massa della propaganda»10. Giocando sul fatto che quello di Machiavelli appariva come un realismo radicale, le cui riforme costituzionali erano dettate dallo stato d’eccezione e da un senso di disperazione, gli interpreti di questa stagione vi trovavano la legittimazione per disegni di riassetto costituzionale che ribaltavano il vecchio ordine liberale11.
E nell’ultimo dopoguerra? In questa stagione, in cui la letteratura su machiavellismo e totalitarismo ha continuato a crescere (con Aron, Berlin, Maritain)12, ha ripreso corso la lettura repubblicana, da ultimo risultata vincente. O, se si preferisce, si è lavorato all’invenzione di quella tradizione (neo)repubblicana di cui sopra si è detto, spingendosi sempre più avanti, fino a vedere in Machiavelli l’autore che prepara i materiali di costruzione per una teoria della dittatura costituzionale e della democrazia radicale13. Naturalmente, ancora una volta, il repubblicanesimo machiavelliano dei decenni successivi alla seconda guerra mondiale è un composto multivalente, in cui un repubblicanesimo liberale e addirittura costituzionale convive con un repubblicanesimo a tinte più nazionalistiche e con un repubblicanesimo popolare e populista, fino agli estremi del populismo multitudinario – letture ovviamente che nulla concedono alla tradizione delle demonizzazioni del Segretario fiorentino, che dai teologi controriformisti sale fino a Leo Strauss e Dolf Sternberger14.
In un recente tentativo di sintetizzare il problema delle interpretazioni contemporanee, Carlo Galli ha invitato a leggere Machiavelli «scorgendovi problemi diversi da quelli divenuti egemonici grazie alla politica istituzionalizzata», e diverse anche le soluzioni rispetto a quelle classiche o a quelle «democratiche e rivoluzionarie (Gramsci), decisionistiche ed estremistiche (Schmitt), compromissorie e rassegnate (Ritter), fondative e “violente” (Althusser)»15. Il che implica innanzitutto la necessità di prendere le distanze da ogni tentativo di imprigionare Machiavelli nella comparazione con il paradigma della modernità, da cui egli è lontano. Ed implica il riconoscimento dell’«iperpoliticismo» machiavelliano, che è invece il tratto che risulta più congeniale alla tradizione italiana. Ma il fatto che in Machiavelli «l’iperpoliticismo trionfi senza determinare una moralizzazione della politica» sta a significare innanzitutto che per lui «la politica è esistenziale»; e poi che il suo è un «pensiero della contingenza», distinto da quello moderno che è «pensiero della forma e della norma», e da quello dell’oltrepassamento schmittiano del moderno che è «pensiero dell’eccezione». Quello di Machiavelli «è il pensiero dell’azione politica concreta non garantita da alcuna tecnica, è il pensiero della contingenza nella contingenza»16.
Una parte considerevole della letteratura novecentesca su Machiavelli è dedicata ad ogni buon conto alla costruzione del topos Machiavelli rivoluzionario17. Andrebbe per altro rilevato che quello del Machiavelli rivoluzionario è un tema antico, ricordando un’opera dimenticata di Giuseppe Ferrari, Machiavel juge des révolutions de notre temps (1849), ben esemplificativa dell’uso politico e rivoluzionario che di Machiavelli hanno fatto il Risorgimento italiano e il movimento democratico europeo dell’Ottocento. La sua chiave di lettura, che avrebbe fatto scuola tra gli interpreti italiani contemporanei, e sorprendentemente anticipa quella del Negri di Potere costituente, non è quella hegeliana, che vede la Riforma alternativa alla Rivoluzione, ma la linea Rinascimento-Riforma-Rivoluzione francese. E la tesi di fondo è che i precetti di Machiavelli vanno «sottratti alla logica del singolo per essere rivisti in chiave collettiva»: divengono giusti se posti al servizio delle masse popolari18.
Al Ferrari autore della Storia delle rivoluzioni d’Italia (1858) anche Gramsci si sarebbe richiamato. Il programmatico § 1 del Quaderno 13. Noterelle sulla politica del Machiavelli esordisce proprio trattando di Machiavelli come teorico della «rivoluzione nazionale» (un concetto che sarebbe stato ampiamente sviluppato dalla politologia storica, a cominciare da Stein Rokkan): dove il concetto di rivoluzione nazionale, nella duplice componente di «formazione di una volontà collettiva nazional-popolare di cui il moderno Principe è nello stesso tempo l’organizzatore e l’espressione attiva e operante, e riforma intellettuale morale»19, prefigura già la complessità di un programma politico che trova nella costruzione dell’egemonia la sua chiave di volta. A connettere Machiavelli con il pensiero rivoluzionario è poi, su un altro eppur convergente versante, Hannah Arendt (in Sulla rivoluzione), in particolare dove si richiama la tesi di Robespierre, secondo cui «il programma della Rivoluzione francese era scritto a grandi linee nei libri […] di Machiavelli»20.
È infine con gli operaisti italiani, che interpretano Machiavelli a partire da Gramsci (e da Althusser21), che si consolida una lettura positiva di Machiavelli come autore rivoluzionario. Due riferimenti d’obbligo. Fin da principio, ciò che a Mario Tronti preme è riaffermare il movimento operaio come il vero erede della lezione di Machiavelli, il soggetto collettivo che più consapevolmente «ha rideclinato nei termini di strategia e di tattica il rapporto rigorosamente moderno tra politica e contingenza»22. Col tempo la posizione di Tronti si è affinata in dialogo con Althusser, giungendo a connettere la teoria dei rapporti tra tattica e strategia all’analisi machiavelliana della «qualità dei tempi»: «Il realismo rivoluzionario sa tenere insieme le due cose, l’impeto e il rispetto, l’audacia e la cautela, la forza e la prudenza»23. Ma è il Machiavelli che ragiona sulla sua sconfitta politica a esercitare per questo lettore una forte attrazione. La solitudine di Machiavelli rappresenta bene – e questa era la lezione di Althusser – la solitudine del rivoluzionario. In questa retorica della solitudine è evidente una componente di orgogliosa autocommiserazione, qualcosa che attiene allo stato di tutti gli sconfitti24.
Più radicale e innovativa la posizione di Negri, che, come già abbiamo anticipato, fa del Segretario fiorentino il teorico del potere costituente e della democrazia assoluta – quasi un nuovo «mito» soreliano. «Il problema di Machiavelli non sarà mai quello di chiudere con la rivoluzione – la costituzione è per lui l’apertura, sempre, del processo rivoluzionario della moltitudine»25. A Machiavelli è attribuita «una rivoluzione copernicana che riconfigura la politica come movimento perpetuo», operando da un lato attraverso l’introduzione del «concetto del potere come potere costituente, e cioè come un prodotto di un’inte...