V. Il regno del contratto
Il contratto sociale rappresenta la vittoria della libertà dell’individuo, ma la libertà è subito perduta nel primo atto di esercizio, che fonda la comunità statale a cui le parti contraenti sono per loro stessa volontà consegnate. Sul terreno restano lo Stato moderno e i suoi cittadini.
Nel mondo contemporaneo la democrazia si realizza attraverso una fitta rete di contrattazioni tra soggetti privati: imprese e lavoratori, imprese e consumatori, sindacati di imprenditori e di lavoratori su questioni economiche; partiti politici, movimenti, associazioni su temi politici e sociali.
La radice di questo stato di cose è rinvenibile nella dottrina di Johannes Althusius sulla giusta istituzione, concepita come il risultato di una costante attività contrattuale multilivello, realizzata già all’interno della famiglia e poi nella città, nella provincia e infine nel regno. La differenza con questa visione medievale – superata da Hobbes, che teorizzò il patto tra individui (e non gruppi) liberi e uguali (e non sottoposti alla gerarchia delle società parziali, a partire dalla famiglia) – è che oggi i contraenti utilizzano il contratto non per confermare ma per superare la propria condizione, reclamando nella trattativa, in modo sempre più avanzato, il riconoscimento dei propri interessi.
È questo il regno del contratto, dove tutto può essere negoziato, e il legame sociale si afferma nell’intesa precariamente raggiunta, fino a che la trattativa non riprende alla volta di un nuovo contratto.
1. Autonomia collettiva.
La proposta teorica di Gauthier è proficua perché valorizza l’interesse individuale. La considerazione di quell’interesse permette che al contratto come atto subentri la contrattazione come attività1. Il patto sociale non è più un risultato, ma diventa un metodo di convivenza. Vivere nella società politica implica di rinnovare il contratto sociale alla ricerca di assetti che possono essere di volta in volta condivisi.
Salvatore Veca immagina gli individui hobbesiani appena usciti dalla condizione di natura che si pongono il problema non più di sopravvivere, ma del senso che deve essere dato alla vita ormai assicurata. E descrive una scena: «i nostri individui a mano a mano che si impegnano nel tentativo di dare significato alla vita si accorgono che il problema non è più quello, la cui soluzione coincide con l’istituzione generata dal patto sociale. In altri termini il patto è sottoposto a forti tensioni. Esso non è più in grado di garantire la soluzione appropriata al nuovo problema in cui si trovano impegnati gli individui. È ora il patto, infatti, a essere diventato un problema»2. Occorre rinnovare il patto alla luce degli stili di vita, delle convinzioni etiche e politiche che si affermano nella società, non più dominata – come nel libro di Hobbes – dal Leviatano, dallo Stato che vorrebbe valere come sintesi dialettica delle istanze vive nella società politica. Maggiore è la distanza tra queste visioni, più urgente è il rimedio del contratto.
Nel libro sul dissidio, Jean-François Lyotard scrive della incommensurabilità delle istanze valoriali che contrappongono il capitale al lavoro, la posizione degli imprenditori a quella dei lavoratori subordinati. Esemplifica, in questo difficile conflitto, un caso paradigmatico di un’insolubile disputa, che traspare anche nelle formule con cui nei codici civili si descrive il contratto di lavoro subordinato3. Per il codice civile italiano «è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore»4. Il conflitto tra le parti è gestito in un rapporto gerarchico che rende compatibile il contratto con la dimensione verticale in cui è organizzata l’impresa5. Il vincolo di subordinazione, così necessario all’organizzazione della produzione, stabilisce un dislivello tra le parti del contratto che, per definizione, cessano di essere uguali. Nello stesso contratto è interrato il seme del conflitto.
L’epocale confronto, nel corso del Novecento, tra capitale e lavoro si è incanalato nella pratica di reciproca legittimazione della contrattazione collettiva tra sindacati di imprenditori e sindacati di lavoratori. Ne è derivata l’evidenza di una importante forma di autonomia: l’autonomia collettiva. Nei contratti collettivi di lavoro si confrontano le organizzazioni rappresentative di interessi contrapposti per stabilire regole generali valide come tutela minima del lavoratore nelle situazioni concrete. Il codice civile prevede che i contratti collettivi prevalgano sui contratti individuali, a meno che in questi ultimi non siano previste condizioni più favorevoli per il lavoratore6.
L’autonomia collettiva assolve a una funzione di governo sociale paragonabile a quella assicurata dai partiti politici attraverso l’esercizio dell’autodeterminazione (autonomia) nel diverso campo della politica. Annota Bobbio: «il contratto collettivo ha proprio quei caratteri di arbitrarietà, e quindi di provvisorietà, di tutela d’interessi particolari e di limitazione secondo l’oggetto, in cui Hegel riteneva di cogliere l’inferiorità del contratto come mezzo di espressione della volontà dello stato, le cui decisioni dovrebbero assumere, per essere vincolanti, durevoli e d’interesse generale, la forma della legge»7.
Il senso fondamentale del contratto come scambio reciproco di promesse patrimoniali espressive dei contrapposti interessi (anche morali) delle parti assume, nel contratto collettivo, una forma pura. Le parti sono animate da valori contrastanti, da visioni contrapposte della vita: sono destinate a farsi guerra, a riprodurre la guerra nel contesto sociale. L’insanabile contrasto di interessi tra datori di lavoro e lavoratori suscita un costante conflitto collettivo, che trova la massima espressione nello sciopero8. Negli anni del più acceso confronto sindacale, l’intesa contrattuale non apriva al tempo della pace, ma sospendeva il tempo della guerra, chiudendo le parti della irriducibile contesa – della lotta di classe – in una tregua provvisoria. Lo spettacolo delle trattative e delle manifestazioni di massa che ne dettavano il ritmo suggerì l’idea, destinata a un’ampia diffusione, che nei contratti collettivi si riattualizzasse il rito del patto sociale.
Idee del genere erano favorite dall’atteggiamento dei sindacati dei lavoratori maggiormente rappresentativi i quali, pur operando nell’orbita della Costituzione (che all’articolo 39 tutela la libertà sindacale), rivendicavano nei fatti una radicale autonomia operativa, estremizzata nella pretesa che il diritto di sciopero, il cui esercizio è costituzionalmente garantito all’articolo 40, non fosse disciplinato dalla legislazione, ma rimesso alla autolimitazione delle parti del contratto. Di modo che sarebbe stato il contratto stesso, e non più la legge dello Stato, lo strumento per governare il conflitto, l’argine al disordine sociale e la garanzia per la pace collettiva. Già nei primi anni del Novecento Santi Romano aveva annotato il fenomeno del «sindacalismo integrale» e, per quanto concerneva i sindacati operai, la pretesa della «sostituzione dell’attività del sindacato a quella statuale»9.
Della grande stagione del conflitto sindacale ci resta, ai fini del nostro discorso, un importante lascito teorico. L’iniziale classificazione dell’autonomia collettiva come specie del genere «autonomia privata»10 è caduta in crisi irreversibile, in quanto è sembrato che il carattere normativo di quella contrattazione, la sua effettività, la capacità di applicazione generalizzata dei suoi risultati anche rispetto ai diversi contenuti dei contratti individuali di lavoro, consentissero di qualificare i contratti come fonti del diritto extra ordinem, senza che la natura privatistica delle associazioni sindacali potesse costituire un ostacolo, considerata la possibilità per soggetti privati di esercitare funzioni pubbliche e di esprimere poteri normativi11. Quanto più importa ai fini del nostro discorso, è tuttavia che il fenomeno della contrattazione collettiva ha dimostrato come anche ciò che è incommensurabile sul piano valoriale, eticamente contrapposto e moralmente non sintetizzabile in qualcosa di comune o di accomunante, anche ciò che genera un profondo e irresolubile dissidio – etico, economico, politico – può essere dedotto nel mondo del diritto in un contratto fatto di promesse corrispettive che, realizzando i contrapposti interessi delle parti, danno anche ragione delle loro aspettative valoriali.
In questo straordinario e magico effetto sta la forza indomita del contratto: che ne fa lo strumento di maggior successo non solo per legittimare, come sua derivazione, l’ordinamento dello Stato; ma anche per governare con realismo il conflitto nelle società pluraliste. Questa seconda funzione riscatta il deficit che il contratto accusa nell’assolvere alla prima. La contrattazione nella posizione originaria astrae l’individuo dalla realtà; la qual cosa è funzionale a fissare diritti di libertà nei confronti dello Stato, ma non a rimuovere efficacemente le disuguaglianze che esistono nel mondo reale12. Per questo risultato, occorre considerare gli interessi vivi nella società e farli interagire in una contrattazione non ideale ma effettiva.
2. Contrattazione politica e populismo.
«Non si vuole porre di fronte allo Stato che l’individuo: l’individuo in apparenza armato di una serie infinita di diritti enfaticamente proclamati e con non costosa generosità largiti, ma nel fatto non sempre protetto nei suoi legittimi interessi», scriveva Santi Romano nel 190913. Quarant’anni fa Bobbio annotava: «Oggi lo stato […] è, più che la realtà di una volontà sostanziale, il mediatore e il garante delle contrattazioni fra le grandi organizzazioni, i partiti, i sindacati, le imprese, i gruppi di pressione, […] i cui conflitti d’interesse vengono risolti spesso dopo lunghe e laboriose trattative con accordi che, come tutti gli accordi bilaterali, sono il risultato di concessioni reciproche e durano quanto dura l’interesse dei singoli contraenti a osservarli»14.
Mettere in discussione lo Stato equivale a mettere sul banco degli imputati il contratto fondativo. La contrattualizzazione della politica, di cui il contratto di governo è l’ultimo significativo prodotto, determina un’esaltazione dell’azione dei partiti, e una corrispondente esaltazione dell’autonomia della politica in direzione di un nuovo contratto sociale continuamente rinnovato e aggiornato.
L’esperienza dei contratti collettivi di lavoro, su cui pure si riattualizzò il dibattito sul contratto come strumento costitutivo e anche regolativo della società civile, ha di fatto perso di importanza pratica e di centralità per il grande cambiamento avvenuto nel mercato del lavoro nella società post-industriale. Tra tutte le comunità intermedie che determinano la nuova contrattazione sociale, le imprese hanno subito una grande trasformazione. Alcune di esse hanno assunto una dimensione esorbitante, un potere economico che tende a sintetizzarsi in forme di potere puro, inglobando ogni altra modalità di dominio, compresa quella della politica. Anche per l’azione di queste imprese gigantesche, la dinamica del potere nelle moderne democrazie costituzionali si conferma tuttora corrispondente a quell’analisi.
Cosicché l’idea del contratto sociale come principio costitutivo della società civile, oppure principio regolativo dell’ordine assiologico della comunità, deve essere abbandonata a vantaggio di una concezione molto più operativa. Il contratto vale non come idea ma come esperienza; come esercizio democratico collaterale alla dinamica istituzionale. Per effetto della contrattazione, nella pratica politica quotidiana il ruolo delle istituzioni – a partire dagli organi costituzionali – viene condizionato fin quasi a diventare, per così dire, «subalterno» a quello delle organizzazioni politiche che raccolgono e amministrano il consenso popolare secondo i percorsi stabiliti nella Costituzione.
Su questo sfondo si staglia l’operazione del contratto di governo. Il contratto svolge la funzione simbolica di relativizzare le istituzioni a vantaggio dell’espressione della volontà popolare. Un primo aspetto di questa vicenda è nella valorizzazione, come metodo per l’intesa, del contratto piuttosto che della deliberazione nelle sedi istituzionali. Un secondo aspetto riguarda la diretta partecipazione delle forze politiche al contratto stesso, al lato dell’azione istituzionale svolta ...