Il libertino in fuga
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Il libertino in fuga

Machiavelli e la genealogia di un modello culturale

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Il libertino in fuga

Machiavelli e la genealogia di un modello culturale

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«Da Machiavelli a Shakespeare, da Montaigne a Molière, il modello culturale del libertino ha avuto e ha un ruolo centrale nell'immaginario dell'individuo moderno. Esso è pervicacemente presente, talora anche sottotraccia, nella coscienza culturale del nostro tempo. Il libertino è sempre, quasi per definizione, "in fuga", tanto dalla condanna delle morali dominanti quanto dai bisogni classificatori di chi vorrebbe trarne una categoria univoca e rassicurante».«Dopo l'età antica, nell'età medievale e poi moderna – scrive il poeta Valéry – cominciarono a chiamarsi libertini coloro i quali pretendevano di avere liberato i propri pensieri. Presto quel bel titolo venne riservato a chi non conosceva catene nell'ordine dei costumi. Più tardi ancora, i libertini furono coloro i quali resero la libertà un ideale, un mito, un fermento culturale». Muovendosi sulle tracce di questa figura multiforme, sfuggente e affascinante, Attilio Scuderi ricostruisce il modello culturale del libertino, riscoprendone il ruolo centrale nell'immaginario del soggetto moderno. Le origini di questo modello vengono riportate al pensiero e al personaggio di Machiavelli, la cui esperienza intellettuale è segnata dagli sforzi e dai drammi del bisogno insopprimibile di avere la mente libera. Proprio questo bisogno, nella sua inquietante modernità, lo condusse all'analisi del sistema politico e sociale del suo tempo, lo predispose alla comprensione dei fenomeni individuali e collettivi di relazione con il potere e lo spinse a un lavoro di vera e propria «fabbricazione» di una nuova soggettività scissa, prospettica e reattiva alle dinamiche del dominio, rendendolo da subito un punto di riferimento centrale, tanto conflittuale quanto nevralgico, del dibattito culturale rinascimentale. Nasce proprio da questa dimensione controversa e conflittuale il «mito» di Machiavelli come libertino e «padre» dei libertini, iniziatore di una genealogia mutevole di intellettuali e artisti, ma anche semplici uomini e donne, uniti dalla difesa del nucleo profondo delle proprie libertà individuali e dal bisogno di immaginare e costruire una società che le tuteli e promuova.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788868438951

II. La rivincita di Geta: giochi d’identità e sovversione

1. Una lettera che svela e nasconde.

Esonerato dai suoi uffici nel novembre del 1512 e ritiratosi nell’Albergaccio di Sant’Andrea in Percussina – dopo l’esperienza del carcere nel febbraio-marzo del 1513 –, Machiavelli trova uno strumento prezioso di espressione e riorganizzazione di sé nel dialogo epistolare con Francesco Vettori, ambasciatore fiorentino presso la corte del neoeletto papa mediceo Leone X. Le lettere tra i due, che a lungo avevano lavorato insieme ai tempi della Repubblica, diventano da subito uno dei luoghi mentali tramite cui Niccolò elaborerà il lutto (mai pienamente superato) della perdita e rielaborerà concetti chiave del suo pensiero politico (verità e fortuna, fantasia e occasione, impeto e respetto)1. In questi mesi nascono insieme, dalla stessa urgenza intellettuale e biografica, tanto il Principe quanto i Discorsi; e in tale genesi è rilevante il ruolo dello specchio (rovesciato, per ceto, idee, estrazione sociale) di Vettori. Le lettere scritte tra il marzo e il novembre del 1513 vertono essenzialmente sulla situazione politica europea, in una reciproca diagnosi delle politiche papali e francesi, imperiali e spagnole, cercando il bandolo della matassa dell’ingarbugliato scacchiere continentale e giocando, spesso amaramente, a prevedere la prossima mossa, il possibile scenario. Il 23 novembre Vettori interrompe la litania delle previsioni – spesso mancate – e si abbandona a una descrizione della vita romana nella sua casa alle pendici del Gianicolo, delle letture di classici e delle frequentazioni di cortigiane, dei vizi e delle virtù nella routine di un ambasciatore presso la sede pontificia. Machiavelli risponderà, il 10 dicembre, con la sua lettera più celebre, in cui annuncia la prima redazione del De principatibus e descrive, pan per focaccia, in componimento rovesciato e «a ripresa», la sua vita di esiliato e diseredato nelle campagne di San Casciano2. Capolavoro di «sapiente, e anche ironica, tessitura retorica»3, la lettera del 10 dicembre, sotto la rievocazione apparentemente idillica della vita di campagna e dello studio degli antichi autori «in panni reali e curiali», maschera abilmente (con i procedimenti combinati dell’attenuazione e dell’amplificazione, dell’eufemismo e della perifrasi, dell’ironia e del proverbio, oltre che valendosi d’un uso ampio di clausole e travestimenti metrici) la condizione drammatica del Segretario post res perditas: le fatiche economiche e materiali (lo scarso esito dei proventi del bosco avito, la povertà quotidiana e familiare, gli espedienti giornalieri per avere di che sfamarsi) e ancor più una condizione di estrema paura se non d’angoscia per la propria incolumità personale (il timore di essere vittima dell’ennesima delazione, l’ansia che le sue lettere siano state aperte e passate al setaccio del regime, che il suo trattato gli venga rubato, che un viaggio a Roma susciti le attenzioni inquisitoriali della polizia medicea e preluda a nuove, brutali permanenze nelle segrete del Bargello). La missiva forse più celebre dell’intera tradizione letteraria italiana e di certo la più nota del copioso epistolario machiavelliano è redatta da chi viveva da confinato politico e comunicava, di necessità, chiedendo d’esser letto tra le righe e dunque tra le righe scriveva, alludeva, indicava, giocava con se stesso – diffratto tra scrivente e personaggio – e col lettore presente e futuro. A volere dunque ricostruire il sottotesto (in questo testo così noto, complesso ed elaborato) vale non poco l’analisi stilistico-retorica, così come l’individuazione di quelle «spie» – riferimenti apparentemente innocui, cripto-citazioni, tic verbali e culturali – che attivano e denunziano un senso latente e perturbante, celato e al tempo stesso pressante. È questo il caso della conclusione della lettera, in cui Machiavelli esprime il desiderio «che questi signori Medici mi cominciassino adoperare, se dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso». Un brano che, sotto la semplice richiesta di essere impiegato anche in compiti da nulla pur di tornare ai suoi uffici fiorentini, cela il calco di un verso – tratto da una delle battute finali del comico parassita Gnatone, «satis diu hoc iam saxum volvo» (già da troppo trascino questo sasso) – dell’Eunuchus terenziano, commedia a Machiavelli più che familiare per averla copiata insieme al poema di Lucrezio sullo stesso codice vaticano Rossiano 884, come si è detto. Questo stesso e icastico verso terenziano aveva d’altronde ricevuto, proprio in quegli anni, un significativo battesimo paremiografico nella raccolta aldina degli Adagia erasmiani (1508), con un commento che Machiavelli avrebbe dunque potuto conoscere, e che si prestava a rafforzare ulteriormente l’uso proverbiale del passo (tra l’altro con una mediazione interessante e da esplorare quale quella erasmiana, non poco marcata da intenzioni anomiche e sottili richiami all’eresia della «libera libertà» di pensiero, come vedremo oltre):
1340. Trascinare un masso. Si dice di coloro che si affaticano in un’opera inesauribile e vana. Terenzio nell’Eunuco (v. 1085): «Già da sin troppo tempo trascino questo sasso». Donato avverte che il proverbio era rivolto a quelli che si affliggono in un’impresa irrimediabile, ma inutile, e lo ritiene tratto dalla notissima favola di Sisifo, che negli inferi trascinava un sasso su e giù. Opportunamente chiama «un sasso» il soldato stolto, con il quale lo stesso Sisifo era stato scaltro e astuto4.
Come giustamente è stato evidenziato – mettendo tra parentesi il tema di una potenziale influenza dell’adagium erasmiano –, è nella combinazione tra la battuta comica del parassita, l’esegesi del grammatico tardo-antico Elio Donato nei suoi commentari terenziani e la sotterranea ma ingombrante presenza del mito lucreziano di Sisifo che va individuato il senso del calco machiavelliano, partecipe – come in generale il linguaggio e lo stile del Segretario, in una compresenza unica e talora inscindibile – tanto dell’evidenza proverbiale e popolare quanto della ricerca umanistica ed erudita5. Lucrezio infatti, nel suo poema, trasforma la favola antica di Sisifo in un «apologo terreno dell’uomo politico», del fallimento dell’azione civile e della decadenza e corruzione della Repubblica (tema carissimo a Machiavelli)6. Costruendo se stesso come personaggio della narrazione epistolare – celato dietro quel Sisifo che sperimenta il potere inutile (inane imperium) e si estenua nella dura fatica (durum laborem) della pratica politica e nella mortificante persuasione elettorale –, Machiavelli pone in crisi, lui esiliato, l’universo dei rapporti politici, operando tramite il dettato mitico una sorprendente «proiezione drammatica di un desiderio e di un dubbio», rappresentando testualmente una tensione bipolare in relazione all’amato e doloroso impegno civile, in una sorta di ovidiano «nec sine te nec tecum vivere possum» (Amores, III, 11); prende dunque la scena della narrazione – sempre pervasa a ogni livello di una potente carica teatrale – un dubbio angoscioso sul suo passato, sul suo presente e ancor più sul suo futuro possibile; e proprio mentre la si nega, l’arte dello Stato si mostra degna di qualsiasi fatica, anche dell’umile «voltolare un sasso».
Machiavelli mette dunque a punto e sperimenta nell’epistola a Vettori la possibilità di una personificazione e insieme di una diffrazione del sé, di una moltiplicazione ironica del senso e dei sensi della scrittura attraverso un’eccedenza delle immagini-specchio e degli alter ego tratti dal mito e dalla letteratura. Affina insomma il trattamento letterario – comico e ironico, dunque massimamente intelligente – di «se stesso come altro».

2. Tu che sei io: sdoppiamenti e pedagogie del sé.

L’esempio di Sisifo non è l’unico né il primo che avvalori questo «scatto della serratura» nella scrittura machiavelliana. Infatti, all’inizio della lettera, compiute le rituali formule d’esordio, Machiavelli introduce il tema – che sarà quello della «ripresa», ovvero del controcanto e della palinodia – presentandosi da subito con una similitudine in parte criptica per il lettore moderno, ma colma di echi, ricca di richiami narrativi e di immagini per il lettore a lui contemporaneo; e ciò nonostante la reticenza e la stringatezza del riferimento, rapido quanto fulminante, anzi forse proprio in forza di questa dimensione icastica e allusiva. Ma guardiamo il brano:
Non posso pertanto, volendo rendere pari grazie, dirvi in questa mia lettera altro che qual sia la vita mia; e se voi giudicate che sia a barattarla con la vostra, io sarò contento mutarla. Io mi sto in villa; e poi che seguirono quelli miei ultimi casi, non sono stato, ad accozzarli tutti, venti dí a Firenze. Ho insino a qui uccellato a’ tordi di mia mano. Levavomi innanzi dí, impaniavo, andavone oltre con un fascio di gabbie addosso, che parevo el Geta quando e’ tornava dal porto con i libri di Amphitrione; pigliavo el meno dua, el più sei tordi. E cosí stetti tutto settembre. Di poi questo badalucco, ancoraché dispettoso e strano, è mancato con mio dispiacere: e quale la vita mia vi dirò… (corsivi miei).
«Li ultimi casi» è perifrasi eufemistica per il mese di carcere e torture. E proprio a quel periodo traumatico – a dimostrazione che l’eco ne è vivo e che a quell’esperienza il testo attinge – rimandano molti riferimenti, in particolare ai sonetti che Niccolò redige per Giuliano de’ Medici, signore di Firenze e primo destinatario dell’«opuscolo» De principatibus che verrà poi dedicato al di lui cugino Lorenzo di Piero de’ Medici. Il primo sonetto significativo è inviato pochi giorni dopo il rilascio – causa fortunata ne fu la grazia ricevuta per l’elezione di Leone X – e si parla proprio di tordi e uccellagioni, ma per alludere ad altre cacce – di delazioni e delatori – e ad altri pasti (ma di avversari politici).
Io vi mando, Giuliano, alquanti tordi,
non perché questo don sia buono o bello,
ma perché un del pover Machiavello
Vostra Magnificenzia si ricordi.
E se d’intorno avete alcun che mordi,
li possiate nei denti dar con ello,
acciò che, mentre mangia questo uccello,
di laniare altrui ei si discordi.
Ma voi direte: – Forse ei non faranno
l’effetto che tu di’, ch’ei non son buoni
e non son grassi: ei non ne mangeranno. –
Io vi risponderei a tai sermoni,
ch’io son maghero anch’io, come lor sanno,
e spiccon pur di me di buon bocconi.
Lasci l’opinioni
Vostra Magnificenzia, e palpi e tocchi,
e giudichi a le mani e non agli occhi.
I tordi diventano il dono sacrificale e il capro espiatorio per chi, vittima delle purghe medicee, ha da difendersi dalle calunnie infamanti (il «laniare» o infamare di alcuni, lo «spiccare» o il divorare di altri). E al signore si consiglia, infine, con misto di ossequio e superiorità – gesto consueto ed emblematico del Segretario, un vero «marchio di fabbrica» della posizione intellettuale machiavelliana (come vedremo) – di entrare nella «verità effettuale delle cose», di palpare e toccare, di giudicare dalle mani e non dagli occhi, di scegliere la pazienza critica della conoscenza razionale all’empatia di una verità effimera, come insegna la favola del tordo7. Proprio gli occhi tradiscono chi subisce una condanna che sente violentemente ingiusta; l’accusato innocente – e tale Machiavelli si sente, in quanto implicato nella congiura del 1513 – vede aprirsi il baratro del «disconoscimento» e della perdita di identità, come rileva il secondo sonetto, precedente, inviato a Giuliano dal carcere qualche settimana prima:
In questa notte, pregando le Muse,
che con lor dolce cetra e dolci carmi
dovesser visitar, per consolarmi,
Vostra Magnificenzia e far mie scuse,
una comparse a me, che mi confuse,
dicendo: – Chi se’ tu, ch’osi chiamarmi? –
Dissigli il nome; e lei, per straziarmi,
mi batté al volto e la bocca mi chiuse,
dicendo: – Niccolò non se’, ma il Dazzo [letterato fiorentino],
poiché ha’ legato le gambe e i talloni,
e sta’ ci incatenato come un pazzo. –
Io gli volevo dir le mie ragioni;
lei mi rispose, e disse: – Va al barlazzo [vai in malora],
con quella tua commedia in guazzeroni [in pezzi].–
Dàtegli testimoni,
Magnifico Giulian, per l’alto Iddio,
come io non sono il Dazzo, ma sono io.
La visitazione notturna della Musa si trasforma in incubo (il volto battuto, la bocca tappata): l’identità invocata è perduta, il sé è sottratto e cancellato, soffocato e rubato da un Altro demonico, da un Potere soprannaturale, come in una commedia plautina o – ancor peggio – in un racconto notturno di Hoffmann8. Al posto del sé – scomparso e disconosciuto – ora c’è l’altro, un letterato come tanti, un topo da biblioteca e da accademia (al secolo il cortigiano Andrea Dazzi). Ma a notar bene c’è di più (e di peggio); perché in quella condizione di prigionia e contenzione, in quell’universo carcerario e concentrazionario, fra «tratte» della fune, camicie di forza e catene, l’identità sottratta e riattribuita genera follia irrimediabile (pazzo/Dazzo), perdita di ogni coordinata spaziale e temporale. Si sbaglierebbe a sottovalutare il peso e l’insieme dei richiami di questo squarcio poetico-narrativo e ancor più a derubricarli a semplice burla comica, ignorando – come ben si sa – che in Machiavelli, e non solo in lui, il comico è spesso la forma ironica e strategica del «vero» e del «serio»; in questo sonetto è dunque presente quella che potremmo definire la dimensione costitutiva dell’idea del sé e del proprio destino individuale che Machiavelli elaborerà nei mesi e negli anni seguenti e che giocherà una forte influenza sul pensiero complessivo del Segretario.
Torniamo dunque alla lettera a Vettori e in particolare, nel brano iniziale citato, a quella icastica similitudine, lasciata scivolare con noncuranza eppure non poco pesante: parevo el Geta quando e’ tornava dal porto con i libri di Amphitrione. Il riferimento ipertestuale è plurimo e va sciolto per gradi9.
La citazione diretta – potremmo quasi parlare di referenza intertestuale prossima – è quella del Geta e Birria, un cantare o novella in 186 ottave composto a Firenze a cavallo tra XIV e XV secolo e attribuito di volta e in volta a figure diverse: tra gli altri al Boccaccio – che lo ricopiò di sua mano nel giovanile codice-zibaldone Laurenziano 33.31 (e lo citò copiosamente nel Teseida e nell’Amorosa visione) e a Filippo Brunelleschi (architetto e «inventore di prospettive» su cui presto torneremo); al nobile Ghigo di Attaviano Brunelleschi fino al notaio e poeta in volgare Domenico da Prato (attribuzione anch’essa significativa, come si vedrà), il quale di certo lo ricopiò e manipolò, forse in modo radicale, nei primi decenni del Quattrocento e comunque non oltre gli anni trenta dello stesso10. Il cantare era un genere aperto ed estremamente dinamico della tradizione narrativa italiana tardo-medievale, il quale si prestava alle forme, spesso mescidate, della trasmissione orale e ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Il libertino in fuga
  6. Premessa
  7. I. Il libertino: il nome e la cosa. Genealogie di un modello culturale
  8. II. La rivincita di Geta: giochi d’identità e sovversione
  9. III. Il viaggio di Machiavelli: libertà e libertini in Shakespeare e Montaigne
  10. IV. Spettri di Machiavelli