Il cibo e la terra
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Agricoltura, ambiente e salute negli scenari del nuovo millennio

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Agricoltura, ambiente e salute negli scenari del nuovo millennio

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Oggi l'agricoltura, così come si è sviluppata negli ultimi 70 anni, pone all'umanità intera problemi drammatici: consuma il 70% delle risorse idriche del pianeta; concorre al processo di riscaldamento globale; sterilizza e desertifica terre fertili; inquina le acque. Fortunatamente questa è solo una faccia della luna. La lotta a un modello insostenibile di produzione del cibo e la riscoperta della biodiversità stanno diventando un fenomeno di massa. E l'Italia, con la sua tradizione alimentare, ne è all'avanguardia.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788868438968
Argomento
Storia

III. Trionfo e declino dell’agricoltura industriale

1. Un’avanzata incontenibile.

Hanno scritto con comprensibile orgoglio gli autori di una pubblicazione promossa da un’importante industria chimica della Norvegia: «Dopo la seconda guerra mondiale, le politiche agricole hanno permesso all’Europa occidentale di diventare ampiamente autosufficiente in derrate alimentari ed esportatrice netta di tali prodotti. La produzione cerealicola ha quasi triplicato grazie al miglioramento delle varietà, ai trattamenti fitosanitari e all’impiego quasi ottimale dei concimi»1. Come negare una simile verità? Quello dell’agricoltura europea della seconda metà del XX secolo è un bilancio vittorioso, che non trova quasi voci discordi a contestarlo. E la letteratura che lo attesta è pressoché sterminata. Paul Bairoch non ha esitato a usare l’espressione di «terza rivoluzione agricola» per definire i vasti e radicali processi di trasformazione tecnica e produttiva che hanno investito l’agricoltura e l’allevamento animale nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Un termine, egli ha ricordato, che «si giustifica pienamente, in ragione soprattutto del rivoluzionamento della produttività»2.
In effetti, i risultati più clamorosi di tale trasformazione sono rappresentati dai dati che riguardano la produzione unitaria delle varie derrate agricole. Il grano, ad esempio, nelle campagne dell’Europa – escluse Urss e Polonia – è passato dai 14,8 quintali a ettaro del 1950 ai 43,6 del 1985; il mais da 12,3 quintali ha raggiunto i 55,6 quintali; le patate dai già consistenti 144,5 quintali a ettaro si sono portate, nel corso di 35 anni, a 244,3 quintali3. Le stesse produzioni zootecniche sono cresciute in dimensioni mai conosciute prima. È aumentato infatti sia il numero degli animali in termini assoluti che la produzione di carne, latte, uova. I bovini, ad esempio, che in Europa occidentale ammontavano intorno ai 66 335 000 di capi nel 1948-52, si sono portati a circa 88 460 000 nel 1978-80, i suini da oltre 34 milioni a oltre 86, i polli da oltre 369 milioni a oltre 7274.
Non meno significativo il salto di «produttività» di tale bestiame. Ad esempio, per quanto riguarda la produzione del latte si è passati dai 2090 kg di prodotto annuo per mucca del 1950 ai 3980 del 19855. Il numero dei maialini l’anno per ogni scrofa è passato dai circa 11 del 1946 ai 17 del 1976. Al tempo stesso, ricordava la medesima fonte, «il coefficiente di conversione del foraggio in carne è aumentato in particolar modo tra i suini e il pollame. Nel 1946 in Gran Bretagna occorrevano 5 kg di mangime per produrre 1 kg di carne suina; negli anni settanta questo valore è sceso a 3,5 kg. Per quanto riguarda il pollame, nello stesso periodo il mangime necessario per produrre 1 kg di carne è sceso da 3 kg a 1 kg»6.
Ugualmente straordinari appaiono ai miei occhi di storico i numeri che attestano l’incremento della produttività del lavoro. Grazie allo sviluppo tecnico della meccanizzazione e alla sua diffusione nelle campagne, le ore di lavoro necessarie per unità di superficie crollano in maniera clamorosa. È soprattutto la diffusione della mietitrebbia-legatrice, usata nelle campagne degli Usa ai primi del Novecento, e affermatasi in Europa dopo la seconda guerra mondiale, a rendere straordinariamente rapida una delle più lunghe e faticose operazioni dell’attività agricola: la raccolta e lo stoccaggio del grano. Ma naturalmente anche la diffusione di potenti trattori in grado di muovere aratri, erpici, scavatori di barbabietole e patate, insieme al successivo sviluppo di macchine per la raccolta di frutta e ortaggi, ha progressivamente sostituito il lavoro umano e rese più spedite molte operazioni prima eseguite manualmente7. Così, se nell’agricoltura tradizionale occorrevano circa 400 ore per scavare un ettaro di terreno alla profondità di 20 centimetri con attrezzi a mano, e 30 ore con uno strumento tirato da un cavallo, ne bastavano solo 5 con un trattore di 25 cavalli e un aratro. Al tempo stesso mentre nel 1951 per raccogliere a mano, con squadre di braccianti, un quintale di grano o di mais occorrevano intorno alle 30 ore a uomo, tramite la raccolta meccanica bastavano ormai solo 30 minuti8.
Anche nel settore dell’allevamento, soprattutto di quello bovino, la meccanizzazione di alcuni processi ha favorito la liberazione degli uomini da lunghi e faticosi lavori. Si pensi, come si è già accennato, all’uso della mungitrice meccanica. Questo geniale strumento, inventato, pare, in Scozia alla fine dell’Ottocento, ebbe – com’è facile immaginare – una diffusione assai limitata per lungo tempo. Addirittura si è calcolato che nel 1950 solo il 3% del latte dei paesi che avrebbero poi costituito la Comunità economica europea era munto meccanicamente: mentre 25 anni più tardi, nel 1975, al 3% si attestava il latte munto manualmente9.
Naturalmente, la diffusione del macchinario nelle campagne ha costituito una sorta di grandiosa leva tecnica per sostituire il lavoro umano e ridurre drasticamente il numero dei contadini e dei lavoratori agricoli. All’indomani della seconda guerra mondiale la quota degli addetti all’agricoltura nei vari paesi europei, salvo la Gran Bretagna – che già aveva una percentuale ridotta al 9% della forza lavoro –, appariva ancora particolarmente elevata: il 13% nei Paesi Bassi, il 18% in Germania, il 30% in Francia, intorno al 45% in Italia, prima di arrivare al 7-8% degli anni ottanta. Tra il 1950 e il 1980 gli addetti all’agricoltura nelle campagne dell’Europa occidentale sono passati da poco più di 42 milioni a 16 milioni e 445 000 unità10. Nel 2009, nell’Europa a 27, erano diventati 17 milioni (per effetto dell’inclusione di tanti paesi dell’Est a forte occupazione agricola), costituendo il 7,6% degli occupati totali11.

2. Energia dalle piante o per le piante?

Sono dunque questi, in estrema sintesi, gli indicatori numerici di una vicenda di successo ormai abbastanza nota, che ha portato la prosperità alimentare e l’abbondanza nelle case della popolazione europea. Mi sia consentito, dunque, di non insistere ulteriormente con dati analitici e dimostrativi. Si tratta di una vicenda che ormai appare quasi consegnata al senso comune dei contemporanei. Tuttavia, benché appartenente al regno del noto, se non dell’ovvio, un tale quadro dell’agricoltura europea, così unilateralmente luminoso, era dovuto al lettore. Le critiche severe e radicali che saranno mosse all’agricoltura industriale nelle pagine successive non vogliono, infatti, in alcun modo offuscare i successi ottenuti da questo settore nella seconda metà del Novecento. E non solo per ragioni di verità e di equilibrio nel giudizio, cui lo storico è tenuto prima di ogni altra cosa per fedeltà morale ai principi del proprio mestiere. Ma anche per ragioni di coerenza con il filo interpretativo che attraversa l’intera riflessione storica affidata a queste pagine. Il successo incontestabile dell’agricoltura industriale è legato a un continuo, sempre più estremo processo di artificializzazione della vita biologica che innalza la soglia di rischio dell’impresa economica e della salute del consumatore, trasforma la qualità in quantità massificata e scadente, richiede un consumo crescente e dissipatore di energia esterna quale mai si era verificato in alcuna epoca del passato. Dunque, non è in discussione quanto è stato realizzato: ma il come e il che cosa. Come si è pervenuti ai livelli attuali di produzioni unitarie, a che prezzo, e che cosa sono, oggi, i beni prodotti dall’agricoltura? E in fondo a queste domande un interrogativo di assoluto rilievo: qual è il possibile avvenire di un simile vittorioso percorso?
Partiamo allora da una domanda di fondo. A che cosa si deve questo vero e proprio sommovimento epocale che ha cambiato il volto delle campagne d’Europa nel giro di pochi decenni? Per quanto riguarda l’incremento di potenza della forza lavoro le ragioni fondamentali sono più che evidenti: la diffusione delle macchine agricole sempre più potenti e sofisticate cui si è fatto cenno. Ma altrettanto poco controverse appaiono le ragioni della rivoluzione produttiva che ha investito le coltivazioni. Gli economisti e gli storici mettono l’accento su uno o su un altro aspetto del generale processo di trasformazione e di innovazione, ma in genere l’insieme del quadro esplicativo non cambia. Gli agenti fondamentali della crescita della produttività agricola europea sono stati, per concorde riconoscimento, l’introduzione di nuove e più produttive varietà di semi – e di razze selezionate negli allevamenti zootecnici –, l’uso di diserbanti chimici selettivi e di pesticidi, l’impiego crescente di concimi chimici. Altre ragioni collaterali andrebbero aggiunte, relative soprattutto alle acquisizioni di conoscenze, tecniche e scientifiche, penetrate nell’agricoltura negli ultimi decenni.
Tuttavia io credo che si commetterebbe un errore se si distribuissero in parti uguali i meriti del progresso agricolo recente a tutte le componenti del processo di innovazione. Non mi par dubbio, infatti, che il ruolo giocato dai concimi chimici nell’incremento delle rese sia incomparabilmente più decisivo di qualunque altro fattore. E ciò è facilmente comprensibile. I diserbanti non possono aver influito significativamente sulla produttività, dal momento che le erbe cosiddette infestanti venivano in precedenza eliminate con l’estirpazione manuale o meccanica. Il loro uso ha fatto soprattutto risparmiare lavoro e mano d’opera. Le stesse sementi selezionate, come quelle del grano, sono state scelte in base alla loro maggiore suscettività ai concimi chimici. Com’è noto in Europa e come del resto insegna tutta la vicenda della cosiddetta «rivoluzione verde»12. Quanto ai pesticidi, come cercherò di mostrare in seguito, essi difficilmente possono essere annoverati tra i fattori di incremento della produttività agricola.
Ora, se si guarda ai dati statistici relativi alle rese unitarie e all’uso dei concimi chimici per un arco di tempo sufficientemente lungo, si traggono insegnamenti di grande rilievo. Le statistiche raccolte da Bairoch risultano a questo proposito preziose. Se noi osserviamo i dati relativi al rendimento del grano a partire dal 1910 nei diversi paesi d’Europa, possiamo constatare un incremento davvero considerevole. In Spagna, ad esempio, la crescita è di oltre due volte: da 9,4 quintali a 22,8 quintali a ettaro del 1985. In Italia si passa dai 9,6 quintali a ettaro ai 28,8 del 1985: un incremento, dunque, di tre volte; in Gran Bretagna, dai 21,4 ai 66,7: anche in questo caso una crescita di poco più di tre volte; in Germania dai 18,5 ai 57,9, con un incremento superiore a tre volte; in Francia dai 13,2 ai 57,3, con un aumento in questo caso superiore a quattro volte. Ma se noi diamo uno sguardo alle statistiche del consumo dei concimi chimici fondamentali – azoto, fosforo e potassio – la sorpresa sarà maggiore e certamente più significativa. In Germania, ad esempio, tra il 1913 e il 1985 l’impiego dei concimi in kg per ha è passato da 47 a 427, crescendo dunque di nove volte; in Gran Bretagna da 26 kg si è passati a 358, con un aumento di oltre tredici volte; in Francia da 18 kg a 301, con una crescita di oltre sedici volte; in Italia, da 10 kg a 172, con un balzo di oltre diciassette volte; e infine in Spagna con un aumento record di venti volte, da 4 kg a 8213.
Dunque, la crescita delle produzioni agricole europee è soprattutto figlia dell’impiego massiccio e crescente di concimi artificiali riversati nella terra nel corso di innumerevoli decenni14. Esibita come un mirabolante incremento della fertilità del suolo, al contrario essa costituisce l’esito di un gigantesco processo di trasferimento di sostanze inorganiche, sottratte alle miniere sparse nei vari angoli della Terra, e utilizzate nelle campagne d’Europa come supporto artificiale per la produzione di piante e prodotti. Se noi confrontiamo gli incrementi produttivi realizzati dai coltivatori europei agli albori dell’età contemporanea tramite l’utilizzo delle leguminose foraggere – fattori di produzione, come si ricorderà, tutti interni al processo agricolo –, siamo in grado di considerare la crescita delle rese unitarie, degli ultimi decenni, entro una concezione olistica della natura, come una sorta di «trucco contabile». Un trucco peraltro costoso e dissipativo, perché i concimi chimici, diversamente dalle leguminose, sono minerali sottratti alla terra, lavorati industrialmente, o ottenuti per via sintetica come l’azoto, e perciò grazie all’impiego dell’energia fossile del petrolio. Essi altro non sono che il trasferimento di risorse energetiche sottratte alla terra una volta per sempre e impiegate nel processo di produzione agricola.
Nel 1973 lo studioso americano David Pimentel, insieme ad altri scienziati, pubblicò un’importante ricerca in un settore decisivo della vita agricola statunitense: la produzione del mais. Non si trattava di una tradizionale indagine di rilevazione economica. Il gruppo di ricercatori studiò per la prima volta, per un arco di tempo compreso tra il 1945 e il 1970, gli input di energia immessi nella produzione del granturco americano in termini di carburante per muovere le macchine agricole, per produrre concimi, diserbanti, pesticidi ecc., per il trasporto delle derrate, di corrente e...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione
  6. Il cibo e la terra
  7. Premessa
  8. I. Gli esordi virtuosi dell’agricoltura contemporanea
  9. II. Una nuova era della domesticazione
  10. III. Trionfo e declino dell’agricoltura industriale