La parabola d'Europa
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La parabola d'Europa

I trent'anni dopo la caduta del Muro tra conquiste e difficoltà

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La parabola d'Europa

I trent'anni dopo la caduta del Muro tra conquiste e difficoltà

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In un periodo quanto mai cruciale, in un anno che vede appuntamenti importanti – dal trentennale della caduta del Muro di Berlino alle elezioni europee –, l'Italia rischia di defilarsi dal grande progetto di pace e progresso cui aveva dato vita in uno dei momenti più drammatici della storia del continente. È l'intero destino dell'Europa unita, in realtà, a essere in crisi. La parabola d'Europa è chiara, e il suo declino sembra inarrestabile: in bilico tra il pericolo di implosione e la trasformazione in un'Europa delle nazioni. Ma è davvero così? Cos'è che non ha funzionato in questi decenni? E soprattutto: siamo in tempo per recuperare un'idea politica di Europa, come motore di progresso democratico e sociale? E l'Italia potrà dire ancora la sua in questo processo? Attraverso una lucida analisi dei trent'anni trascorsi dal crollo del Muro, del rapporto tra Germania e Italia nonché delle trasformazioni di Berlino e della società e della politica europee – tedesca e italiana in particolare – prima e dopo il 1989, Marco Piantini individua gli errori e i passi falsi commessi dall'Europa, ma anche le conquiste e le basi da cui ripartire. È necessario innanzitutto riconnettersi con il paese reale, che esprime scontento nei confronti dell'Europa, ma al tempo stesso ha una fortissima «aspettativa europea», che la politica non riesce a cogliere appieno. Occorre rimettere mano al cantiere dell'Europa sociale, promuovendo nuove forme di partecipazione a livello europeo: una democrazia rappresentativa che poggi anche su un maggiore coinvolgimento dei cittadini, inserendo la consultazione nell'alveo di strutture di discussione e consultazione. Far crescere insieme partiti europei e una cultura della partecipazione civica. Rafforzare il ruolo del Parlamento europeo, impedire lo svuotamento del processo di integrazione e rilanciare il riformismo: sono questioni rilevanti, che possono determinare il segno della prossima legislatura europea e rispetto alle quali l'Italia può e deve ritrovare il suo ruolo da protagonista.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788868439538

VI. La società muta

Sono passati ormai trent’anni, dalla svolta del 1989. Un lungo arco di vita e di storia che in altre epoche ha visto un repentino cambio di rotte e d’idee. L’Europa del 1945 era quella immaginata con angosciante realismo da Roberto Rossellini in Germania anno zero, straziata e ridotta all’estremo. «Quando le ideologie si discostano dalla morale e dalla pietà cristiana, persino la prudenza dell’infanzia ne viene contaminata», si dice nel film all’inizio. Il protagonista, il piccolo Edmund, muove i suoi passi in un deserto materiale e morale. Passi che possono essere persino gioiosi perché sono quelli di un bambino seppure costretto a barcamenarsi per rimediare alla miseria estrema, tragica, della famiglia. È il deserto degli uomini del suo tempo. Era l’Europa che di lì a poco sulla distruzione e sul ricordo avrebbe provato a edificare un qualcosa che la avvicinasse al futuro. Fa pensare oggi ai deserti che altri bambini attraversano. A quanto significa essere adulti da bambini, quando i giochi dei grandi hanno distrutto ogni altra via se non quella della disperazione – o della fuga.
Le macerie sono poi diventate uno dei segni lasciati a Berlino e dai berlinesi, della Germania sconfitta e divisa, dell’Europa ferita. Lo sono diventate perché accumulate nell’unica montagnola in città, il Teufelsberg con i suoi centoquindici metri di altezza nella foresta di Grunewald, i tremila ettari di verde che erano il polmone della città occidentale. Una montagnola fatta di detriti delle case distrutte, una fossa comune all’incontrario, in verticale, di ciò che era stato spazzato via dalla furia della rivincita degli Alleati. Lo sono diventate nella Chiesa della memoria, un edificio rimasto in piedi a metà per i bombardamenti e poi ristrutturato, nel centro di Berlino Ovest, in maniera tale da tenere insieme appunto memoria e distruzione. È una chiesa evangelica, il cui nome è legato al Kaiser Guglielmo, oltre che alla memoria. Ed è legata alla piazza ove si trova, che è intitolata a Rudolf Breitscheid.
Breitscheid fu una delle figure più interessanti della Repubblica di Weimar. Un liberale che era poi entrato nella socialdemocrazia, contrastandone le correnti più radicali senza a sua volta cadere in posizioni favorevoli a una dura repressione delle tendenze più a sinistra. Breitscheid – come Gustav Stresemann, come Walter Rathenau, due giganti degli anni di Weimar – fu una personalità di cerniera tra il centro conservatore, la cultura liberale e la socialdemocrazia nei decenni che spazzarono via la democrazia tedesca e misero a repentaglio il futuro dell’Europa. Fuggito in Francia, fu consegnato dai carnefici di Vichy alla Gestapo. Morì vicino Buchenwald, sotto un bombardamento degli Alleati. Una vittima del fuoco amico, potremmo dire. E potremmo anche aggiungere: come spesso capita a chi unisce coraggio e moderazione, sentimento e ragione in tempi di furia e di odio.
Trent’anni dopo, nel 1975, l’Europa aveva attraversato tre decenni di crescita. L’Europa si confrontava adesso con una crisi complessiva di sviluppo, seguita allo shock petrolifero e a quella interdipendenza monetaria, economica ed energetica che silenziosamente era cresciuta, con la decolonizzazione e altri sviluppi globali, e adesso presentava il suo conto. Le società erano cambiate, erano cambiati i costumi, stavano cambiando alcuni valori e stili di vita. Allo spopolamento era seguita la crescita demografica. I nuovi quartieri delle città erano densi di figli, e di speranze. Portavano speranze di una vita migliore i tanti che migravano verso l’Europa, in particolare dalle diverse sponde del Mediterraneo. Erano europei all’interno dell’Europa stessa. I successi del processo di integrazione europea e i limiti delle politiche di inclusione erano già visibili. Ma lo sappiamo che l’essenziale, anche quell’essenziale, è spesso invisibile. Eppure oggi, se dovessimo fare un monumento a chi ha costruito l’Europa, dovremmo ripartire naturalmente dal carbone e dall’acciaio, dalle materie del trattato che ha dato avvio all’integrazione. Dovremmo dunque partire da chi ha tanto a lungo lavorato su quelle materie, spostandosi da un paese all’altro all’interno della Comunità, dai lavoratori italiani, europei. Una comunità che era stata concepita come una comunità di industria, specialmente della grande industria, e di progresso e che non sempre lo è stata a sufficienza. Dovessimo preparare un discorso sulla politica di vicinato europea, dovremmo partire dal vicinato, dai quartieri di tante città metropolitane. Il Mediterraneo è arrivato a nord con le vicende di quei migranti, poi residenti stabili, dopo e solo molto dopo, e non sempre, cittadini. E ha fatto pagare il prezzo del suo sottosviluppo ancora più tardi, ai giorni nostri.
Nel caso italiano, come si è accennato, era mutato il rapporto campagna-città, rovesciandosi. Lo spazio fisico di vita era quello urbano, quello valoriale e mentale restava ancora e in ampia parte intrecciato a quello rurale. Dove non c’era università pubblica e mancavano alcuni servizi universali, ove non vi era voto femminile, adesso molto sembrava, ed era diverso. Il cambiamento era andato avanti, nonostante le tante contraddizioni. La Costituzione repubblicana era il cemento della nuova Italia post-fascista, ma anche, per non pochi, un programma non realizzato di uguaglianza e di opportunità. Cristo non era più fermo a Eboli, ma il divario Nord-Sud aveva assunto nuove forme. La grande criminalità organizzata aveva usato la crescita economica come un treno sul quale salire. Contemporaneamente, aveva fatto scendere dallo stesso treno molte persone, quasi intere aree del paese.
Trent’anni non sono pochi, si formano famiglie, i sogni diventano vita. Il cemento del muro può essere spazzato via, mentre si cementano altre idee, o almeno sono poste delle fondamenta.

1. Piccole storie europee nel grande mondo.

Le piccole grandi storie della sinistra socialdemocratica tedesca tra la seconda metà del Novecento e il primo ventennio del nuovo secolo sono intrecciate con vicende più ampie. Quelle storie ci danno un senso compiuto soprattutto perché ci incoraggiano a non fermarci allo stereotipo. Come i colori delle foglie di autunno sugli splendidi viali di Berlino, mai uniformi seppure il grigio sia il colore dominante.
L’autunno della sinistra tedesca corrisponde a quello della sinistra europea. Si è fatta cultura politica condivisa nelle «nuove» democrazie occidentali del dopoguerra, in molte realtà. Si è fatta istituzioni. Continua a cercare idee e narrazioni, incerta sugli interessi da rappresentare, come un bambino salito sulla giostra, indeciso su quale cavallino cavalcare. Un bambino che non accetta di essere adulto. La sinistra europea è stata quasi irrimediabilmente sconfitta da alcune sue lente vittorie. Nel frattempo, ha continuato a baloccarsi con vecchie certezze.
A ben guardare, le contorsioni tedesche che abbiamo visto non ci dicono molto di nuovo rispetto a dinamiche ricorrenti nella storia della politica e nella storia europea in particolare: conflitti personali, ricerca di nuove idee all’altezza delle novità del tempo. Sono esempi insomma di dinamiche di movimenti collettivi che si fanno parte delle istituzioni (un libro di Oreste Massari ha ben spiegato «come le istituzioni regolano i partiti», prendendo ad esempio il caso britannico). In tal modo vedono mutare gradualmente le motivazioni originarie della loro azione, sono costrette a adattarsi maggiormente alla realtà. Chi persegue il cambiamento deve essere pronto a cambiare, in primo luogo, se stesso. Cambiare entro certi limiti: quelli della coerenza.
Ideali che sono serviti nel tempo a dare un senso a interessi concreti, non necessariamente e non sempre solo materiali, sono mutati. Il sentimento spesso non segue la ragione, e la ragione non riesce più a trasmettere sentimento. Buona parte della difficoltà della politica oggi risiede proprio in questa tensione continua tra ciò che si fa e ciò che si dice. Come la buona vecchia Europa prigioniera a lungo di un «dire senza fare e di un fare senza dire delle sue istituzioni», formula cara a Giuliano Amato.
L’istituzionalizzazione fa sembrare immutabili le ragioni di esistenza di un movimento o di un partito. Specialmente se con una storia di oltre centocinquanta anni, come nel caso della sinistra europea. Le radici affondano sì in contesti nazionali variegati, ma fanno riferimento a un comune immaginario di emancipazione delle classi più umili. Keir Hardie, Andrea Costa, August Bebel, Jean Jaurès sono gli eroi dell’epopea socialista europea. Attraversano campagne e borghi operai diversi, affrontano sistemi legali, e regimi politici, molto differenti in Gran Bretagna, Germania, Italia e Francia. Lottano per la giustizia e la libertà seminando nei grandi paesi europei a cavallo tra Ottocento e albori del Novecento i semi di un’idea alta di chi fa politica per una società di uguali. Vivono coraggiosamente per cambiare la società, sono esempi di un civismo democratico di altri tempi.
A dire il vero, da sempre l’idea di sinistra ha a che fare con l’idea della sua stessa crisi. Le crisi e le contraddizioni che emergono nella società danno origine all’idea di progresso e di sinistra. Le crisi e le contraddizioni rendono evidenti i compiti della sinistra per far sì che la società avanzi senza lasciare indietro individui e comunità. Lo stato di crisi permanente della sinistra di per sé dunque non dovrebbe intimorire, poiché dalle sue peggiori sconfitte derivano col tempo la sua capacità di rinascita e di ricostruzione di un nuovo ordine. È dal martirio delle guerre e dalla distruzione delle istituzioni democratiche che la socialdemocrazia europea ha trovato la forza per la ricostruzione degli Stati europei su delle basi socialmente più sostenibili. Il destino da piccoli Winnetou in questo secolo appare poca cosa rispetto a quello degli eroi del secolo passato. Gli sconfitti di oggi possono solo inchinarsi ricordando quelli di ieri. Sempre che la memoria non sia un prezzo insostenibile nel tempo della immediatezza e delle relazioni umane modello snapchat.
Uno dei padri fondatori dell’Europa unita, il socialista belga Paul-Henri Spaak, nella sua autobiografia osserva con modestia, riferendosi alle possibilità che il progetto europeo riesca, e scrive sommessamente «ecco, in tal caso potrò forse dire di aver fatto qualcosa». Quel piccolo «fare qualcosa» che unisce i padri fondatori dell’Europa – De Gasperi, Adenauer, Spaak e Schuman, insieme a Monnet e Spinelli e poche altre personalità – oggi appare grande per le sue conseguenze positive. Ma deve essere sentito fino in fondo come grande poiché niente era scontato anche allora, tra le macerie del risentimento, della miseria e della tentazione nazionalista. Confondere la forza propulsiva che dalle scelte degli anni cinquanta è derivata all’integrazione europea con una facilità di scelta per chi allora la fece, sarebbe del tutto sbagliato. La differenza la fece la capacità di alzare lo sguardo, di cogliere il senso del cambiamento che un continente diviso doveva accettare e gestire per tempo. La fece la determinazione, in particolare da parte di De Gasperi, nel convincere gli altri, con la coerenza dei comportamenti e delle scelte, a includere l’Italia in un treno che stava partendo allora, e che ha viaggiato per oltre sessant’anni. Se l’Italia fosse arrivata in ritardo allora, se non vi fosse stata determinazione nell’accettare anche alcuni oneri e responsabilità verso i propri vicini, saremmo più lontani dal Nord Europa e dai suoi standard di vita. Saremmo meno europei e certamente meno liberi.
Ciò che può fare la differenza ancora oggi è come la sinistra si pone rispetto al cambiamento in corso, come si orienta e con quali strumenti cerca di porre le basi per mantenere una sua funzione storica. La soluzione più facile in queste circostanze è assumere il cambiamento come impossibile da affrontare e la crisi come definitiva. La sindrome della crisi impossibile assomiglia da sempre alle crisi dell’adolescenza, quando un giovane considera un esame o una delusione amorosa come irrimediabili e unici, perché fanno soffrire. La vita insegna non solo che le crisi sono superabili, talvolta pagando dei grandi prezzi e facendo grandi sacrifici, ma insegna anche che le crisi successive possono essere persino superiori. Tanto vale, dunque, non scoraggiarsi. La cima da scalare oggi non è la più alta nella storia. Non sapremo mai il limite dell’orizzonte dello sviluppo umano. Potremmo saperlo, in definitiva, solo se la vita finisse. Avremmo potuto saperlo, negli anni della guerra fredda, se l’olocausto nucleare avesse polverizzato la nozione stessa di umanità.
Più la storia accelera e più non riconosciamo la realtà intorno a noi come la abbiamo immaginata per anni e scoperta poco a poco. Più la fretta di rincorrere il ritmo del cambiamento gioca brutti scherzi. Se le nostre città, un po’ come Berlino in un momento straordinario della storia europea, cambiano rapidamente, possiamo avere una possibilità di capire e gestire il cambiamento solo alzando lo sguardo verso il futuro e preparando, o almeno provando a preparare, a costruire la città che sarà tra dieci anni. Non a caso è stato un urbanista, Lewis Mumford, a scrivere una Storia dell’utopia e a collocare il pensiero sul futuro e sul coraggio degli ideali più alti vicino alla concretezza che le città rappresentano. Mumford scrive che «gli ideali non sono cose che noi possiamo tenere distinti dai fatti della nostra vita, come una volta le nostre nonne tenevano separato il salotto freddo, squallido e di solito ammuffito, dalle camere abitate della casa. Al contrario i sogni che facciamo tendono consciamente o inconsciamente a concretarsi nei modelli della nostra vita quotidiana»1. Ha la politica oggi la forza di assumere un progetto che abbia un minimo di respiro e un minimo di durata rispetto all’effettiva realtà della vita? Abbiamo l’idea di lavorare al nostro futuro e quindi di accettare la convinzione che solo la coerenza delle azioni e delle politiche nel corso del tempo ci sono di aiuto?

2. La polarizzazione vuota e i rischi di una nuova società dei due terzi.

Quanto si osserva ci dice in qualche modo che le democrazie si pensano e agiscono nell’immediato e per l’immediato in uno short-termism, una visione limitata, che ne fragilizza le fondamenta. I sistemi autoritari conquistano spazio nelle teste e nei cuori di una parte sostanziosa della società globale perché sono capaci di raccontare e agire per la costruzione di un futuro. La divaricazione tra pianificazione e democrazia è uno dei mali ai quali non sappiamo porre rimedio. Il pensiero politico novecentesco, in particolare nelle sue venature social-liberali, ha provato a tenere insieme pianificazione e diritti individuali, oltre che processi decisionali democratici. Oggi la frenesia culturale che ci avvolge come una fitta nebbia ci distrae da questo aspetto. Dalla cassetta degli attrezzi di chi lavora al governo o in Parlamento esce molto più spesso lo specchietto nel quale mirarsi piuttosto che la lente di ingrandimento per la complessità dei problemi da affrontare.
Privi delle identità politiche del passato, privi delle certezze che giustificano azioni e scelte, molte persone attive in politica, o aspiranti tali, si affannano in una continua giustificazione della propria presenza sulla scena pubblica. La messa in scena quotidiana assomiglia a una rappresentazione teatrale male organizzata nella quale la polarizzazione retorica svuota la qualità della democrazia. Non a caso spesso i politici sembrano delle comparse passeggere in talk show di lunga durata. Ciò che conta sembra essere lo spettacolo, e dunque chi lo gestisce nel tempo finisce per essere il vero attore politico, seppure non legato al circuito della rappresentanza democratica.
Il punto qui è concepire l’azione politica come un qualcosa che può ottenere frutti duraturi nell’arco di più anni e avere un carattere strutturale. Ne consegue che dobbiamo pensare al successo in politica non come una prospettiva personale – o di sostenitori di un singolo leader – quanto come espressione di un movimento collettivo. D’altra parte, i miti del passato sono tali non per le loro vicende individuali, per quanto affascinanti, ma perché espressione di una fase storica di cambiamento collettivo. Molte difficoltà attuali trovano la loro origine nella debolezza di una cultura politica condivisa tra chi anima il dibattito sulla cosa pubblica. Cavalcando delle onde non si arriva in porto se non si conosce quale deve essere la meta. Una rotta può essere adattata, ma non si può rinunciare a immaginarla. Non a caso gli ammutinamenti avvengono quando la rotta sembra smarrita. E tutte le vicende della sinistra europea ci dicono in fondo proprio questo. L’emergere e lo scomparire di personaggi più o meno effimeri non è la causa del problema, ma uno dei suoi effetti. E il problema, con ogni probabilità, è nel rapporto tra continuità e cambiamento, e tra ideale e realtà.
I paesi europei vivono con diversità di effetti le evoluzioni interne all’Unione europea, i limiti della sua azione rispetto a processi mondiali. Si potrebbe quasi dire che i nostri sistemi democratici funzionano un po’ come delle matrioske, quanto al dibattito pubblico e a come si organizza lo spazio del confronto politico. La competizione all’interno di ogni singola bambola di legno all’interno della matrioska ne nasconde una più piccola ancora. Piuttosto che guardare oltre i propri limiti, è la ricerca del minuscolo che occupa spazio e tempo. Eppure, fuori, la società cambia. Cambia il lavoro, cambiano le città, cambiano persino i linguaggi e le insegne. Ciò che abbiamo in testa è spesso diverso da quanto troviamo quando usciamo di casa.
Tra non molto, quando alla porta di casa vi sarà qualcuno a bussare, sono alte le possibilità che sia una persona che non è nata nel paese dove ci troviamo, che non parla la nostra lingua e non ha fatto una scuola simile alla nostra, e molto probabilmente ha un aspetto diverso da noi. Forse anche più alte sono le possibilità che sia un robot a farci visita e a offrirci i suoi servizi. Questo è un dato di fatto, che può complessivamente dirci che avremo una società evoluta, e più ricca che in passato, almeno nel suo potenziale. Ma non necessariamente è così. La politica e la democrazia sono i fattori per realizzare questo potenziale.
Nuove discriminazioni e ingiustizie, nuovi fattori di crisi, potranno concentrarsi proprio sull’uso della meccanica robotica, delle intelligenze artificiali, dell’informatica a tutto tondo e della virtualità. Diritti, opportunità, la stessa libertà potrebbe definirsi intorno a questa nuova realtà. Lo sarà di sicuro la salute, lo saranno i tempi di vita, il rapporto tra città e campagna e tra generazioni. L’accesso alle migliori tecnologie in ambito medico e sociale può costituire un tema decisivo per la tenuta dei sistemi di welfare così come sono stati costruiti nel Novecento. L’accesso ai risultati della scienza, oltre che alla conoscenza indispensabile per usufruirne e sfruttarne il potenziale, potrebbero dividere il nuovo mondo più di quanto lo sia già quello di oggi. Il mare e lo spazio sono delle frontiere che sempre più potrebbero essere foriere di uno sviluppo senza precedenti ma anche, come sempre per le frontiere, possono essere luoghi di scontri, rivalità, tensioni, ingiustizie. In parte lo sono già. La stessa memoria, e l’interpretazione della storia, dunque la chiave per il futuro e per le coscienze delle persone, potrà essere oggetto più che mai di vere e proprie battaglie. La narrazione del passato è la chiave per programmare il nostro futuro.
Negli anni novanta, Peter Glotz aveva messo in guardia dall’avvento della società dei due terzi, cioè di una società attestata su un benessere relativo di una maggioranza della popolazione, che escludeva stabilmente un terzo. Amartya Sen ha osservato molto efficacemente che è nella socialità la qualità principale della libertà nell’epoca che viviamo, quella delle identità multiple. È da vedere come oggi nelle società occidentali l’incrocio tra cambiamento tecnologico, demografico e geopolitico possa incrociare la questione sociale o, per dirla con Sen, della socialità. È una questione a cui deve inevitabilmente fare riferimento il pensiero progressista al di là del processo di rimescolamento delle ideologie, o della loro fine. Senza una nuova socialità lo scenario descritto da Glotz prende forme, come in parte ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Prefazione di Giorgio Napolitano
  6. I. La crisi dell’europeismo italiano e i rischi di una nuova società dei due terzi
  7. II. Ho ancora una valigia a Berlino
  8. III. Le utopie di carta di May e Salgari
  9. IV. Dieci piccoli indiani della sinistra tra autodistruzione e nuove vie
  10. V. A spasso con l’orco e la nuova stagione che si apre
  11. VI. La società muta
  12. VII. L’Italia paese federatore in contesti diversi
  13. VIII. La generazione di mezzo nell’Italia della voce del più forte
  14. IX. Per un nuovo riformismo europeo
  15. X. Da Palazzo Chigi a Galileo Galilei
  16. Ringraziamenti
  17. Postfazione di Giuliano Amato
  18. Riferimenti bibliografici