Noverar le stelle
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Noverar le stelle

Che cosa hanno in comune scienziati e poeti

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Noverar le stelle

Che cosa hanno in comune scienziati e poeti

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Aristotele sostiene, nella Metafisica, che la meraviglia suscitata dall'universo sia all'origine del nostro desiderio di conoscere, vale a dire la caratteristica più nobile dell'animo umano e ciò che ci differenzia dalle bestie. È la meraviglia a spingerci ad alzare gli occhi verso il cielo e a porci domande, ed è da lì che, agli albori dell'umanità, germogliarono le domande che portarono alla nascita della scienza e della poesia. E tuttavia, se un tempo Sumeri ed Egizi annotavano in versi i moti dei pianeti, Esiodo mostrava in esametri quali fossero i giorni migliori per la semina e Lucrezio divulgava in poesia la scienza di Epicuro, le due discipline nel corso dei secoli si sono allontanate sempre più. Nel Novecento però qualcosa cambia: da una parte, sempre più frequentemente si levano voci sulla necessità, per la poesia, di abbeverarsi alla fonte della scienza; dall'altra parte, quest'ultima conosce una vera e propria rivoluzione: innanzitutto nel campo della fisica e poi in quello della tecnologia, della genetica e delle neuroscienze, che la portano sempre più spesso a porsi le grandi domande originarie della filosofia e della poesia. In fondo, sostiene Marco Pivato, scienziati e poeti fanno lo stesso mestiere: entrambi tracciano visioni del mondo, gli uni attraverso teorie e formule, gli altri attraverso immagini e metafore. Le «due culture» si nutrono l'una dell'altra; e a portare alla luce una medesima comunanza di sentire sono gli stessi protagonisti di queste discipline, spesso sollecitati direttamente dall'autore del volume: linguisti, letterati, fisici, genetisti e premi Nobel ci raccontano la loro esperienza e ci fanno capire quanto contigue siano le loro strade, e quanto spesso si incrocino, nel comune viaggio verso la conoscenza.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788868434410

IV. Se la poesia parla di scienza e la scienza di poesia

1. Nella poesia la strada che porta alla scienza.

Se intendiamo «scienza» nel senso più ampio di sapienza, spesso nella poesia troviamo indicazioni e consigli sulla strada migliore da percorrere per raggiungere la conoscenza:
Ti avverto, chiunque tu sia. Oh, tu che desideri sondare gli arcani della natura, se non riuscirai a trovare dentro te stesso ciò che cerchi non potrai trovarlo nemmeno fuori. Se ignori le meraviglie della tua casa, come pretendi di trovare altre meraviglie? In te si trova occulto il tesoro degli dei. Oh, uomo conosci te stesso e conoscerai il cosmo e gli dei1.
A indicare la via è Apollo in persona, che parla per bocca della Pizia e istruisce sul primo passo da compiere in questo viaggio: «conosci te stesso»; massima incisa, insieme a «nulla di troppo», nel tempio del dio a Delfi2. Dunque avere coscienza di sé e seguire la giusta misura in tutte le opere: da qui bisogna partire per ambire alla verità.
Angelo Giavatto, grecista, docente all’Università di Nantes, spiega che «secondo la tradizione socratico-stoica questa massima equivale alla dichiarazione della volontà di conoscere i propri limiti, qualità indispensabile per avvicinarsi a un livello superiore di saggezza». E precisa: «Una delle rivoluzioni introdotte dalla filosofia di Socrate è certamente quella di aver sottolineato l’importanza di partire dalla conoscenza di ciò che è più vicino a noi, e dunque l’essenza pura e sobria del sé, prima di accostarsi fuori, verso i segreti del “cosmo e degli dei”, come riporta l’oracolo». L’accettazione della propria natura predicata dall’oracolo, secondo Giavatto, «è la condizione armonica che implica, conseguentemente, un atteggiamento di rispetto nei confronti dei saperi più alti: per questo la tradizione ha legato la massima “conosci te stesso” al monito “nulla di troppo”»3.
Carlo Pancera, docente di Storia della pedagogia all’Università di Ferrara, riguardo alle parole dell’oracolo scrive che «ognuno dovrebbe rendersi conto che vede e interpreta la realtà dal proprio punto di vista» e che quindi la conoscenza di se stessi è condizione indispensabile prima di porre una domanda. Varcando la soglia del tempio l’uomo allora deve essere ammonito: «Prendi coscienza di chi sei»4.
Si tratta di un monito per certi versi molto simile a quello della moderna psicologia del profondo: rendere manifesti i contenuti rimossi («conoscere se stessi») allevia il livello di nevrosi nell’uomo rendendolo libero di conoscere ciò che davvero desidera. Una condizione per nulla ovvia. Esisterebbe, infatti, nell’uomo un fortissimo bisogno di certezze: la fretta di colmare questo vuoto può indirizzare verso credenze rassicuranti ma artificiose, costruite ad hoc dalla mente, e che sviano dalla libera conoscenza della propria identità. È questo un fardello esistenziale che gli psicobiologi imputano al fatto che l’uomo è l’unico tra i mammiferi a vivere una totale dipendenza dai genitori per un lungo periodo, quello dell’infanzia: «Le certezze costituiscono un fattore di sopravvivenza, quando siamo infanti – spiega Giuseppe Pellizzari, membro della Società psicoanalitica italiana –, che con la crescita, in parte, si supera ma contemporaneamente si cristallizza e ricompare, da adulti, nell’atavica richiesta di conoscenza»5. Come saziarne il bisogno? Prima «conosci te stesso», poi avrai accesso al «cosmo» e agli «dei».

2. L’azzardo della conoscenza, secondo la poesia.

Forse mai come nel Rinascimento si può apprezzare la straordinaria fiducia assegnata al progresso della conoscenza. In questi versi, premessi al dialogo De l’infinito, universo et mondi6, Giordano Bruno esprime l’ebrezza che accompagna il volo dell’uomo librato nel viaggio della conoscenza.
Quindi l’ali sicure all’aria porgo
né temo intoppo di cristallo o vetro:
ma fendo i cieli, e a l’infinito m’ergo.
E mentre dal mio globo a l’altri sorgo,
e per l’etereo campo oltre penètro
quel ch’altri lungi vede, lascio a tergo7.
Anche in altri versi, tratti dagli Eroici furori, ribadisce la grandiosità dell’impresa conoscitiva:
Pascomi d’alta impresa;
e bench’il fin bramato non consegua,
et in tanto studio l’alma si dilegua,
basta, che sia sì nobilmente accesa,
basta, ch’alto mi tolsi,
e da l’ignobil numero mi sciolsi8.
Come sappiamo, Giordano Bruno conoscerà drammaticamente anche i rischi cui andava incontro chi intraprendeva questo tipo di viaggio, finendo vittima della Santa Inquisizione.
La domanda di conoscenza è dunque profondamente radicata nel cuore dell’uomo: ma cosa può conoscere l’uomo? Fin dove si può spingere con i suoi strumenti «scientifici»?
Troviamo una riflessione su questo punto nel Paradiso perduto (1667) di John Milton. Nell’opera Adamo si rivolge all’arcangelo Raffaele:
Quando contemplo questa eccezionale
architettura, questo mondo composto di cielo e Terra,
e ne valuto tutta l’ampiezza, questa Terra un punto,
non più che un grano, un atomo, se messa a paragone
col firmamento e tutte le sue stelle numerose
che sembrano ruotare per spazi incomprensibili […]
solo alla scopo di diffondere la luce su questa Terra opaca,
su questa macchia grande come un punto,
[…] io spesso, ragionando,
mi chiedo perché la Natura, che è saggia e misurata,
abbia potuto ammettere simili sproporzioni9.
La domanda che Adamo pone è una domanda di tipo religioso, o filosofico, la cui risposta non può essere cercata attraverso la scienza. Le certezze cui l’uomo può giungere per mezzo degli strumenti che ha a disposizione non riguardano i «perché» del mondo che lo circonda, ma i «come»; e oltre un certo limite, ammonisce l’arcangelo, l’uomo non può spingersi:
Non ti biasimo certo perché domandi o cerchi,
il cielo infatti è come il Libro di Dio
posto di fronte a te, nel quale puoi leggere
le sue meravigliose opere, e apprendere
le sue stagioni, le ore, o i giorni, o i mesi, o gli anni.
Per intendere cose come queste, non ha importanza alcuna
che sia il cielo a muoversi, o la Terra,
se consideri bene la questione; e quanto a tutto il resto,
il massimo Architetto con molta saggezza decise
di tenerlo nascosto all’uomo e all’angelo,
e di non divulgare i suoi segreti a chi vorrebbe
indagarli, e dovrebbe piuttosto ammirarli10.

3. Alle origini dell’incontro tra poesia e scienza.

La poesia delle origini assumeva quasi naturalmente su di sé un contenuto che oggi chiameremmo «scientifico»: ci stiamo riferendo a epoche in cui non esisteva ancora il moderno concetto di «scienza» e quindi non era neppure ipotizzabile una distinzione tra discipline che non venivano percepite come distinte. Facilmente i versi affrontavano questioni che oggi sarebbero dominio della scienza: della fisica come della biologia e dell’astronomia, per non parlare delle scienze agrarie. Quando ciò accadeva, la forma che frequentemente (ma non sempre) i versi assumevano per poter meglio affrontare argomenti di questa natura era quella del «poema didascalico».
Il «Poema della creazione» (Enûma Elish, letteralmente «quando in alto») è un poema babilonese e assiro che risale al II millennio a.C. Potremmo definirlo una sorta di Genesi, poiché comincia descrivendo l’origine degli dei, dell’universo, del cielo e della Terra. È una cosmogonia e insieme una cosmologia. Dalla lettura del poema si comprende come i Babilonesi fossero a conoscenza della precessione degli equinozi e dell’influenza della luna sui fenomeni naturali: annotavano infatti i suoi movimenti, e in base ad essi approntarono calendari per prevedere la migrazione degli animali, il disgelo a primavera e l’arrivo dell’autunno. Così, nel poema, è descritta la creazione della luna (Nannar), a cui Dio affida il compito di misurare il tempo e abbellire la notte:
All’inizio del mese, quando inizi a dar luce nel paese,
con lo splendore dei tuoi corni indicherai i primi sei giorni,
il settimo giorno mostrerai la metà del tuo disco,
nel quattordicesimo giorno ti opporrai al Sole: sarà la metà del mese.
Quando ti unirai al Sole al levante,
diminuisce il tuo disco e inizia a decrescere,
nel giorno dell’oscurità ti avvicinerai al percorso del Sole.
Il ventinovesimo giorno ritornerai verso il tramonto del Sole11.
Poesia, religione e astronomia si fondono mirabilmente nell’egizio Inno al sole, elogio alla vita e all’equilibrio della creazione, attribuito al faraone Amenofi IV (o Akhenaton) intorno al XIV secolo a.C. Del sole viene esaltata la capacità di influenzare la vita vegetale e animale e determinare, ciclicamente, le stagioni.
Magnifico risplendi tu
sull’orizzonte del cielo, tu Sole vivente
che determini la vita!
Tu sorgi dall’orizzonte d’oriente
e colmi ogni terra della tua bellezza.
Magnifico, grande e raggiante,
alto sopra tutti i paesi della terra.
I tuoi raggi abbracciano le nazioni
fino al termine di tutto quello che hai creato.
[…] Sei lontano, ma i tuoi raggi sono sulla Terra...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. I. Scienziati e poeti stregati dall’arcano
  6. II. Le strade si incrociano
  7. III. Il viaggio nell’ignoto di scienziati e poeti
  8. IV. Se la poesia parla di scienza e la scienza di poesia
  9. V. Sulla parola, strumento di scienziati e poeti
  10. Bibliografia