La sinistra e la scintilla
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La sinistra e la scintilla

Idee per un riscatto

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La sinistra e la scintilla

Idee per un riscatto

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«Le ragioni della sinistra, l'uguaglianza nella libertà, sono più attuali che mai. Affermarle non è scontato, ma nemmeno impossibile. Avanza una destra nuova, che somiglia ai fantasmi di quella che credevamo sepolta nel secolo scorso. Dovremmo rassegnarci alla sconfitta? il destino non è segnato, la storia non è finita. sotto la cenere di questa società, c'è qualcosa che arde ancora. il compito di una nuova generazione è riaccendere la fiamma. io credo che in un'idea di socialismo vi sia ancora una scintilla viva. La scintilla non è scattata ancora. scatterà».

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788868439552

II. Nell’età della divisione, la radice del lavoro

La democrazia non richiede un’uguaglianza perfetta, ma richiede che i cittadini condividano una vita in comune.
Michael Sandel, What Money Can’t Buy

1. Non solo disuguaglianza, l’età della divisione.

Sappiamo tutto della disuguaglianza. Ormai sono le élites che l’hanno provocata, da Davos a Cernobbio, a raccontarcela. Gli economisti che hanno posto il tema della polarizzazione dei redditi e della ricchezza, innovando una produzione scientifica a lungo indifferente, sono divenuti persino di moda, al punto che oggi sarebbe difficile dire quale sia il mainstream. La sinistra ha colto in ritardo l’urgenza del problema, ma non è comunque riuscita a porlo al centro del dibattito pubblico. Non solo per quel tratto di credibilità, nell’affrontare i temi sociali, che pure è decisivo. Quello che è mancato nel messaggio mancava in un’analisi troppo legata a fattori economici. Da soli, non bastano.
Un libro discutibile, e che ha fatto discutere, di un sociologo americano conservatore, Charles Murray, dal titolo Coming Apart. The State of White America, 1960-2010, afferma che le ragioni della distanza non sono riconducibili tanto a fattori economici, ma soprattutto a fattori culturali, stili di vita e modi di pensare. È stato scritto nel 2012, il trumpismo era di là da venire. Leggerlo avendo in mente anche il libro premonitore di Christopher Lasch sulla Ribellione delle élite, offre uno spaccato preciso delle nuove società, del tema ora abusato della separazione tra élite e popolo.
Classe alta e classe bassa, oggi come in un passato remoto, vivono in realtà separate, in spazi urbani inaccessibili, senza alcuna possibilità di incontrarsi e di intrecciare i loro interessi, nemmeno sul piano civile e culturale. Nei fatti, è una forma di segregazione, che Murray, in passato accusato di razzismo, si limita ad analizzare all’interno della società bianca. Mentre un tempo le differenze erano soprattutto «quantitative», nella disponibilità di risorse e di beni, oggi sono soprattutto «qualitative». La descrizione della «nuova classe alta» è un po’ caricaturale ma è difficile non riconoscerne i tratti: mandano i loro figli negli stessi college privati d’eccellenza, si sposano fra di loro, anche quando hanno opinioni politiche diverse, le letture e i riferimenti culturali sono gli stessi, guardano pochi programmi e serie tv, generalmente diversi da quelli che guardano i figli delle classi basse, viaggiano per il mondo, risiedono negli stessi alberghi e fanno le vacanze negli stessi luoghi, non di rado inaccessibili ai più, hanno codici comportamentali e persino linguaggi diversi, mangiano in prevalenza alcuni cibi, assumono le stesse sostanze, diverse da quelle dei poveri, sono magri. Tutto questo segna una diversità quasi antropologica con la «nuova classe bassa», che si caratterizza non più per un minore accesso agli stessi beni e servizi ma per consumi e interessi culturali del tutto diversi. Una diversità che si consolida nel momento dell’istruzione e segna destini separati. Qui lasciamo Murray, la sua filosofia e la sua morale regressiva, la descrizione del declino etico delle classi basse, la grave sottovalutazione del ruolo, delle condizioni e delle opportunità economiche nel plasmare i modi di vivere e di pensare. Ci interessa cogliere il nucleo di verità di questa descrizione.
È come se le nostre società siano attraversate da fossati, scavati dai crescenti divari economici, sociali, territoriali e infine culturali. Non sappiamo nulla delle abitudini, idee, esperienze, consumi, stili di vita, passioni e desideri degli altri. Questo si verifica nei luoghi reali dove si svolge la nostra vita, e tanto più in quelli virtuali, nei quali finiamo tutti dentro delle «bolle», che nei social diventano echo chambers, spesso create e plasmate dagli algoritmi, che ci impediscono di vedere fuori1.
È l’età della divisione, quella in cui tra la «nuova classe alta» e il resto della società non vi è alcuna con-divisione, a dispetto, come si vedrà, delle retoriche sulla sharing economy o addirittura delle illusioni sulla sharing society.
Al fondo della base sociale, si è innescato un sentimento alquanto diverso dall’invidia sociale, un risentimento dovuto all’abbandono, un rancore figlio della dimenticanza. Nelle crepe di queste divisioni si sono accumulate le tensioni poi esplose, e che sono state raccontate nella cosiddetta rivolta anti-establishment, che porta alla vittoria dei «populismi».
È un discorso portato avanti con mistificazioni e superficialità. Le analisi dei flussi del voto americano per fasce sociali mostrano ad esempio che Hillary Clinton era la più votata nei suffragi, soprattutto tra i ceti bassi di ogni estrazione etnica. Dunque, il vedere nella vittoria di Trump (del multimilionario Trump, dall’alto della sua torre!), come è stato detto a caldo, la «vendetta» del popolo contro le élites deriva dallo schematismo di una distinzione che schiaccia troppo la realtà. È lo stesso schematismo di chi, in casa nostra, questa stessa «vendetta» coglie nella vittoria del M5S, movimento guidato da un ricchissimo uomo di spettacolo e da un’importante società privata della new economy, che tra i suoi sostenitori vantava uomini come Ferdinando Imposimato, un ex presidente della Corte di cassazione, e per cui hanno votato diverse star dello spettacolo o uomini come Cesare Romiti, storico amministratore delegato della Fiat. Chi sono le élites contro cui si vendica il popolo?
Questo interrogativo nulla toglie alle responsabilità della sinistra di allontanamento, se non di vera e propria separazione, dal «popolo». Trascurando a lungo la radice economico-sociale delle divisioni tra inclusi ed esclusi ha lasciato che si consolidassero ed estendessero a molte altre sfere del pensare e dell’agire umano. Incapace di raccontarle e di descriverle, si è trovata priva di ogni credibilità nel rimuoverle, specialmente all’interno delle stesse classi basse che si disponevano su altre linee di frattura: la vita in città o nelle aree rurali e deindustrializzate, il colore della pelle. Così, Trump si è affermato rivolgendosi all’America dei «dimenticati», quei bianchi delle classi medio basse di cui parlava Murray che si sentono abbandonati da Washington ma che non rappresentano tutto il «popolo». A «quelli che non contano», da noi, si è rivolta la Lega, prima del M5S e ora persino meglio, aizzando il loro malcontento non verso le vere élites (a cui si regalano condoni e sconti fiscali), ma verso i poveri disperati che contano meno di tutti, i migranti.
Il voto del 4 marzo 2018, per un’intera area del paese, potrebbe essere letto come una «vendetta elettorale», propria dei «luoghi che non contano»2. Una vendetta che, a ben vedere, si era già consumata: l’exploit del M5S nel Mezzogiorno alle elezioni politiche del 2013 o il massiccio voto contrario al referendum costituzionale del 2016 seguivano canoni che avremmo ritrovato nel Midwest che vota Trump, nell’Inghilterra rurale che vota Brexit o nell’ex Ddr che vota Alternative für Deutschland. Vendette, insomma, che cristallizzano quelle stesse divisioni di cui sono figlie, in qualche modo le istituzionalizzano, costruendo muri e recinti di protezione che hanno un solo effetto: nascondere quelli in cui quel «popolo» è già rinchiuso.

2. Preoccuparci anche dei ricchi, delle vere caste.

Sappiamo della disuguaglianza, ma cosa sappiamo dei poveri e dei ricchi? Dei poveri, per la verità sappiamo molto, e non più solo alla distanza di sicurezza che ci separa dai Sud del mondo. La globalizzazione riporta la miseria agli angoli di casa, non solo coi migranti, ma sui marciapiedi dei diseredati, accanto ai cassonetti dei rifiuti, scarti d’umanità. Conosciamo il degrado urbano, le file dei poveri e impoveriti pieni di vergogna alle mense delle organizzazioni cattoliche, vecchi e giovani padri separati, madri con bambini di ogni colore. Abbiamo visto la comunione dei beni scarsi tra uomini e cani per le strade di Atene, piegata dall’austerità imposta dalla Troika. Le immagini dei banchi degli alimentari e dei medicinali scaduti, delle dentiere invendute hanno accompagnato la cronaca quotidiana della crisi. Non mancano una letteratura della crisi, un cinema d’impegno. Non manca il racconto del dramma del Sud, delle vite dei migranti, dell’esodo contemporaneo, l’attraversamento del deserto, il mare chiuso.
Non mancano le grandi inchieste, un po’ ci manca Alessandro Leogrande, andato via troppo presto lasciando le campagne popolate ancora di Uomini e caporali. Da queste cronache di miseria, spesso, salta fuori la forza di una dignità che resta in ogni essere umano, e che è la radice del riscatto, la radice di una sinistra che assume il volto di un sindacalista di origine ivoriane, Aboubakar Soumahoro, che ricorda ai braccianti di oggi (e a noi tutti) la storia di Giuseppe Di Vittorio.
È un mondo divenuto prossimo, quello dei poveri, contiguo alla vita quotidiana di una classe media che rischia di scivolarci dentro – per una delocalizzazione che ti toglie il lavoro ma restituisce dividendi agli azionisti, o solo per un incidente di percorso, una grave malattia, una spesa imprevista. È un mondo accessibile, e questo talvolta assume le forme del voyerismo, di un «turismo della povertà» organizzato negli slum del Terzo mondo: una distorsione morale, prima che sociale. Perché c’è una comunità che invece opera ogni giorno in quei luoghi di esclusione. Sono uomini e donne di buona volontà, nel volontariato laico e cattolico, nelle organizzazioni non governative, nelle associazioni di medici e operatori sociali, che si occupano e si preoccupano dei poveri.
Solo che dovremmo occuparci e preoccuparci un po’ anche dei ricchi. È quello che invitano a fare Franzini, Granaglia e Reitano3, tra i migliori studiosi italiani della disuguaglianza, in un libro in cui esplorano il «pianeta dei ricchi», provano a descrivere i meccanismi di accumulazione della ricchezza e se davvero essi sono meritocratici e concorrenziali. Si scopre così che l’accumulazione delle grandi ricchezze non è «giustificabile» nemmeno all’interno della narrazione neoliberale, perché sempre più spesso avviene senza alcun «merito»; e si individuano inoltre le misure per correggere le maggiori storture, per spezzare il circolo vizioso. La concentrazione estrema di ricchezza, esercitando un potere di influenza verso la politica, condiziona la democrazia, ostacola nei fatti le politiche che contrastino quelle disuguaglianze e mirino a sanare le divisioni. L’elemento di preoccupazione dunque non è legato solo alle conseguenze economiche dell’affermazione di una classe di ricchi sempre più ricchi, sempre più separati dal resto della popolazione: il problema è di convivenza civile.
Manca una letteratura, un racconto critico della vita dei ricchi, un libro come La casta, diretto contro la vera casta. Non per «aizzare il popolo», per suscitare invidia sociale, ma per rivelare la principale delle ingiustizie verso cui orientare l’agire collettivo, o almeno porre fine ai diversivi: su tutti, proprio il diversivo dell’antipolitica, che non ha portato a un nuovo protagonismo democratico per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, ma soltanto a un indebolimento della politica, esponendola, ancor più di prima, al condizionamento delle vere caste, del potere vero.
Della storia del Grande Gatsby oggi non rimane che una curva impietosa, usata dagli economisti per descrivere proprio la fine di quel mito americano, la scarsa mobilità tra le generazioni. I meccanismi attraverso cui la ricchezza è tramandata sono plurimi, a partire dall’accumulazione del capitale umano, per la forte correlazione tra livello di studio dei genitori e grado di istruzione, competenze e performance scolastiche raggiunte dai figli. Ma il fatto più grave, che smentisce interi scaffali di libri, discorsi pubblici e paternali sulla meritocrazia, è che una forte disuguaglianza di redditi si registra anche a parità di titolo di studio, ed è sempre connessa alla posizione sociale della famiglia d’origine, che si fa forte non solo di un capitale da associare al rischio d’impresa, ma soprattutto di una rete informale di relazioni sociali e di potere che sono tornate a incidere in misura decisiva sul destino degli individui. L’Italia, paese tra i più diseguali, si colloca al fondo di questa curva.
Manca un racconto razionale di questi meccanismi, delle conseguenze estreme dell’ordinato svolgersi delle dinamiche di accumulazione delle grandi ricchezze, della contiguità di interessi sociali e delle vite personali dei super-ricchi che magari ha portato al fallimento delle banche e alla rovina dei risparmiatori, anche nella realtà dorata e immobile della provincia italiana. Si indugia sull’aspetto della frode, del dolo, o sugli eccessi grotteschi e deformanti, la vita smodata del capitalismo finanziario, The Wolf of Wall Street. Ma è un modo di guardare dal buco della serratura.
Solo il racconto intelligente di vite che non si possono vivere, che non si devono vivere, può disinnescare, all’estremo opposto, un sentimento di invidia sociale dilagante, buono solo a preparare rivolte senza futuro o un risentimento in cui cova la conservazione e la reazione. L’invidia è l’altra faccia, che di solito segue il disincanto, dell’ammirazione per la ricchezza, della curiosità morbosa dei milioni di followers su Instagram dei profili di ricchi senza nome e ragione sociale, di figli di ricchi, dei quali sappiamo che scarpe indossano, che tipo di champagne bevono, che balli ballano nelle sere d’estate, come in un film di Sorrentino, ma di cui non siamo consapevoli della capacità di influenza sulla società e sull’economia, di come ridisegnano mondi esclusivi, chiusi, dai quali ogni tanto mandano cartoline al popolo.
Le nostre città si stanno deformando intorno agli interessi dei ricchi4, separati fino all’autosegregazione delle gated communities, vere e proprie enclave all’interno dei contesti urbani, complessi residenziali spesso recintati da cancellate o muri (walled communities). Nulla condividono con il resto degli abitanti: né la sicurezza, né i servizi, né la viabilità; per loro tutto è privato. E possono trascorrere le giornate senza mai uscire da lì, mentre gli accessi degli altri sono severamente regolati, spesso consentiti solo su invito. Ma la democrazia presuppone un tratto di vita in comune, non è una festa privata.

3. Quante divisioni ha l’Italia? La frattura tra Nord e Sud immobilizza il paese.

Anche l’Italia ha molte divisioni, molte fratture sociali e territoriali, al Sud come al Nord, indagate da diversi studiosi e intellettuali che hanno prodotto analisi di grande qualità.
Da qualche tempo, le analisi si sono condensate in qualcosa di più, con la creazione del Forum Disuguaglianze Diversità, animato da Fabrizio Barca, che offre una lettura matura delle cause dell’incremento delle disuguaglianze, «in larga misura dovuto a scelte politiche, culturali ed economiche: un’inversione a U delle politiche, una perdita di potere negoziale del lavoro, e un cambiamento del senso comune»5. Da questa lettura discende una serie di azioni (e di comunicazioni), a partire da un importante «Programma Atkinson» per l’Italia, che traduce, per il nostro paese...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione
  6. I. La sinistra non ha perso, s’è persa
  7. II. Nell’età della divisione, la radice del lavoro
  8. III. Ricostruire lo Stato, rifondare l’Europa
  9. IV. Un’idea di socialismo
  10. Ringraziamenti